(Dal libro di Francesca Santucci, Suggestioni e meraviglie, Kimerik, ottobre 2009)

In copertina Aniello Scotto, Dama velata, tecnica mista su tela su tela, 70 x 100 cm.

 

IL VOLTO DEL GIGANTE: CARAVAGGIO

 

Spirito più agitato che non il mare di Messina con le sue precipitose correnti .

Francesco Susinno

Nel Seicento in Italia in pittura c’erano varie correnti, il neo-cinquecentismo dei Carracci o di Reni, la scuola decorativa monumentale di Roma, i battaglisti e i bamboccianti; gli artisti erano numerosi, tutti molto attivi e più o meno legati fra loro, e poi c’era Caravaggio, esplosivo, geniale, solo.

“D’ingegno torbido”, 1 “Spirito più agitato che non il mare di Messina con le sue precipitose correnti”: 2 così descrivevano i biografi questo personaggio fra i più straordinari della storia dell’arte, il maggiore innovatore della pittura italiana fra Cinquecento e Seicento, rivoluzionario nei contenuti, rinnovatore del vocabolario dell’arte europea attraverso un linguaggio d’intenso realismo (tanto da rendere terreno il divino, “incarnandolo” in un contadino e in una prostituta, cioè in un essere umano con tutte le sue sofferenze e le sue angosce esistenziali, scelta impensabile per l’epoca in cui visse, quasi sacrilegio) fondato sul sapiente contrasto tra luce ed ombra: ancora oggi, infatti, la sua fama è  legata soprattutto all’uso nei suoi quadri della luce, divenuta per la prima volta in pittura protagonista della scena.

Dotato di grande talento ed indubbia genialità, riconosciuto di chiara fama dagli artisti (come Rubens che, per ordine del duca di Mantova, acquistò la sua stupenda Morte della Vergine, respinta con sdegno dai committenti per l’estremo realismo della Madonna, o come, nell’Ottocento, Gericault, Courbet e Manet), pur non avendo mai una scuola (perché troppo randagia la sua esistenza per divenire caposcuola, ed anche perché restio e ad esserlo, persino ostile agli imitatori, come con Giovanni Baglione), imitato e seguito da moltissimi pittori italiani (soprattutto a Roma e a Napoli) e stranieri, conquistati dalla sua nuova visione naturalistica e dal modo di rappresentare temi e soggetti sacri, attraversò l’Italia del primo decennio del XVII secolo come un’ondata, ancora riaffiorando in tutta la sua forza vitale la sua influenza dopo la morte (i caravaggisti, oscurati solo dal Barocco, ove pure, tuttavia, riverberò la presenza del Maestro lombardo).
A lungo incompreso e bocciato dalla critica, per quel suo lasciare indietro l’idea della bellezza ed inseguire la realtà, considerato addirittura, confondendo opera, biografia ed invenzioni, presagio di rovina, anticristo (diffondendosi anche l’interpretazione romanzesca del personaggio, che lo voleva ubriacone e incallito assassino tanto che, secondo l’abate Lanzi, uno dei più importanti storici del ‘700, l’artista dipingeva solo “ubriachezze, astrologie, compre di commestibili, risse, omicidi, tradimenti notturni”), già nell’Ottocento cominciò ad essere riguardato con occhi nuovi, riletto, allora, come pittore del popolo, ma la sua vera riscoperta si ebbe nel Novecento.
Caravaggio visse un’esistenza tormentata, sconvolta da numerosi episodi di violenza determinati dalla natura emotiva, fra risse e duelli, scontri ed alterchi, perennemente in fuga. Consapevole della sua grandezza e superiorità, considerava la sua violenza come risposta a quella altrui, e “amò” rappresentarla perché, protagonista e spettatore, era partecipe di quella dell’epoca ed aveva cognizione del dolore, ma sarebbe errato (ri) proporlo legandolo direttamente alle turbolenze del carattere, ancorandolo all’immagine di maledetto o bohémien, di “cattivo” soggetto, asociale, emarginato; certamente ebbe un carattere difficile, ma fu colto ed intellettualmente superiore ai colleghi del tempo, ed il suo valore fu pienamente compreso dai personaggi influenti che lo protessero, come il cardinal Del Monte, 3 sempre pronto ad aiutarlo.
Giunto adolescente a Roma dalla natia Lombardia, inquieto, appassionato, già valente pittore, prototipo di un nuovo genere d’artista, ribelle ad ogni specie di convenzioni, ebbe spesso frequenti liti con committenti e protettori per le sue interpretazioni poco ortodosse dei temi religiosi, riuscendo, infine, dopo un’aspra lotta, ad affermarsi nell’ambiente artistico romano, dove, poi, non gli mancarono riconoscimenti e protezioni così fedeli da resistere agli eccessi del suo comportamento.
Nel 1603, in relazione al suo talento, da Haarlem, lo storico, pittore e scrittore d’arte olandese Karel Van Mander, così annotò: 4

 

” Vi è un certo Michelangelo da Caravaggio che a Roma fa cose straordinarie”. 

 

Ma, informato anche dello stile di vita del pittore, il cui nome regolarmente compariva nei protocolli della polizia romana, aggiungeva:

 

“Egli non si applica costantemente all’arte, e dopo due settimane di lavoro se ne va a zonzo per due mesi con lo spadino al fianco e il servo appresso e passa da un campo di gioco all’altro, sempre pronto alla lite o a metter mano alle armi, tanto che è impossibile andar d’accordo con lui”.

 

Caravaggio raggiunse il successo intorno ai trent’anni, ma quando era all’apice della carriera, dopo aver ucciso in Campo Marzio un uomo, Ranuccio Tommasoni, in una rissa nella quale si era lanciato per un fallo al gioco della pallacorda (lui stesso ferito alla gola), per sfuggire alla condanna inflitta, la decapitazione, che chiunque lo avesse riconosciuto poteva eseguire all’istante, fu costretto ad abbandonare precipitosamente la città: cominciò, allora, un periodo di dolorose ed allucinanti peregrinazioni, intervallate da lunghe soste durante le quali partorì incredibili capolavori, che si concluse soltanto con la tragica morte, consumato dall’arsura delle febbri malariche.
Nato a Milano (“Oggi fu battezzato Michel Angelo, figlio di Fermo Merisi e Lucia Aratori”, così recita il documento ritrovato nel 2007, attestante il suo battesimo il 30 settembre 1571, chiarendo, definitivamente, i dubbi sul luogo d’origine), dopo avervi studiato, nella bottega del bergamasco Simone Peterzano, si spostò a Roma, poi a Genova, poi di nuovo a Roma chiamatovi da Paolo V; dopo una parentesi alquanto turbolenta, costretto alla fuga per l’omicidio del Tommasoni, nel 1606 si recò una prima volta a Napoli, dove ritornò e da dove, anche qui a causa  di un fatto di sangue, fu costretto a ripartire. Sbarcato a Porto Ercole, a soli 39 anni consumò l’ultimo atto della sua romanzesca vita; arrestato per un tragico errore di persona, fu incarcerato, ma quando venne liberato la feluca sulla quale era imbarcato aveva già preso il largo. Costretto a sostare sul litorale malarico della Maremma, si ammalò di “maligna” (la malaria), e in pochi giorni, dopo violenti attacchi di febbre, ricoverato nel piccolo ospedale di Santa Maria Ausiliatrice, morì: era il 18 luglio del 1610. Ironia del destino, la notizia della sua morte raggiunse Roma quando, per il delitto commesso, già era partito il condono papale, lungamente atteso dal Caravaggio desideroso soltanto di ritornare a Roma.
Così, nella Vita di Michelagnolo da Caravaggio pittore, narrò la fine il Baglione, suo collega e vecchio nemico, che lo aveva anche querelato nel 1603 per diffamazione (Caravaggio, che era finito in prigione, fu, poi, scarcerato a condizione che non uscisse di casa e non lo infastidisse):

 

“Rilassato, più la feluca non ritrovava, sicché postosi in furia, come disperato andava per quella spiaggia sotto la sferza del Sol Leone a veder, se poteva in mare ravvisare il vascello, che le sue robe portava. Ultimamente arrivato in un luogo della spiaggia misesi in letto con febbre maligna, e senza aiuto umano tra pochi giorni morì malamente, come apponto male aveva vivuto”.

 

Così si legge sul suo atto di morte:

 

"A li 18 luglio 1609 nel'ospitale di S. Maria Ausiliatrice morse Michelangelo Merisi da Caravaggio, dipintore, per malattia".

 

Il poeta napoletano Giovan Battista Marino, suo grande estimatore, gli dedicò questo sonetto:

Michelagnolo da Caravaggio

Fecer crudel congiura,
Michele, a' danni tuoi Morte e Natura:
Questa restar temea
Da la tua mano in ogni imagin vinta,
Ch'era da te creata e non dipinta;
Quella di sdegno ardea
Perché con larga usura,
Quante la falce sua genti struggea,
Tante il pennello tuo ne rifacea.

 

(G.B. Marino, Galeria).

 

Caravaggio, durante le sue peregrinazioni, soggiornò due volte a Napoli, che a quel tempo era una città importante e ricca, capitale di un regno e sede privilegiata di grandi traffici e affari, grandemente popolata per il massiccio inurbamento non solo di plebe accorsa dalla campagna per migliorare, ma anche di nobili famiglie trasferitesi per essere più vicine alla corte; tutte le attività vi erano concentrate, ed anche la vita intellettuale era vivace, ed aristocratici, nuovi ricchi ed ecclesiastici, investivano in lavori prestigiosi, poiché la volontà della chiesa, dopo il Concilio di Trento, d’imporre con maggior forza il credo cattolico si traduceva in un incremento della committenza.
Dovette piacere molto Napoli al Caravaggio, con i suoi colori, le sue atmosfere particolari, gli scorci pittoreschi, con le strade vocianti e chiassose, gli stretti vicoli, dove le luci e le ombre s’inseguivano, affollati da quella varia moltitudine umana, in commistione fra ricchi e poveri, che sempre ha suscitato lo stupore e lo sgomento del visitatori; e dovettero piacergli molto anche le taverne, storico ritrovo di gaudenti, bevitori, malfattori, giocatori, cantori, donnine compiacenti, luoghi equivoci, ma caratteristici e veraci (non disdegnati nemmeno dagli uomini di “riguardo”, e frequentati da poeti, scrittori, letterati e artisti, come Giovan Battista Basile, Giovan Battista del Tufo, Giulio Cesare Cortese, che fece riunire lì in convivio i personaggi del suo Micco Spadaro 'nnammorato), di cui il del Balzo 5 offrì una vivida descrizione:

 

“Lumi fumanti, gente che si pigia, tintinnio di bicchieri, suoni di voci rauche e fioche, fornelli accesi e figure che appariscono e spariscono come fantasmi; e davanti, schierata sul lembo del marciapiedi la succursale: fornelli che divampano, caldaie che fumano, casseruole colme d'alici, padelle zeppe di fritture, tortiere lucide con trofei di cavoli fiori e broccoli e due o tre garzoni che soffiano, corrono di qua e di là, entrano ed escono dall'osteria“.

 

Così, invece, il Basile 6 descrisse la Taverna del Cerriglio,7 frequentata da Caravaggio:

La casa de li spasse

Lo puorto de li guste,

Dove trionfa Bacco,

Dove se scarfa Venere, e l'allegria

Dove nasce lo riso,

Cresce l'abballo, e bernolea lo canto,

S'ammasona la pace,

Pampanea la quiete,

Dove gaude lo core

Se conforta la mente

Se dà sfratto a l'affanno

E s'allonga la vita pe cient'anne.

 

Certamente costituì una stimolante e felice parentesi la sua prima permanenza in questa città particolarmente ricca di suggestioni (e fuori della giurisdizione pontificia, dunque per lui “sicura”), non la seconda, poiché, giuntovi solo da una decina di giorni, il 24 ottobre del 1609 ci fu il suo ferimento proprio davanti alla trattoria del Cerriglio (“preso in mezzo da alcuni con l’armi”), 8 si difese, ma riportò ferite così gravi (“fu nel viso così fattamente ferito, che per li colpi quasi più non si riconosceva”), 9 che a Roma, dove ogni cosa che riguardasse il Caravaggio faceva notizia, gli “Avvisi”, il giornale del tempo, lasciarono nell’incertezza se il pittore fosse stato gravemente ferito o addirittura ucciso, ed anche nel comunicato spedito al duca di Urbino si lesse: “Si ha da Napoli avviso che fosse stato ammazzato il Caravaggio pittore celebre, ed altri dicono sfregiato”.
Quando Caravaggio vi giunse la prima volta, nel secondo secolo del vicereame spagnolo, preceduto dalla fama della sua pittura, qui di gran lunga più grande di quella delle sue malefatte, la pittura napoletana era ancorata a vecchi moduli; i pittori affermati, lontani dall’evoluzione generale della cultura, dipingevano in modo tradizionalistico, ed anche l’artista lombardo, definito da Ulisse Prota Giurleo,10  insigne studioso del Seicento napoletano, “uno dei più grandi pittori che abbia avuto mai l'Italia”, era ancorato ad una visione fortemente rinascimentale, classica, composta, ma l’impatto con quest’affollata città mediterranea, dove la vita si svolgeva fra vicoli stretti e bui in cui improvvisi arrivavano gli squarci di luce, attuò in lui un profondo cambiamento.
Ben presto maturò nuove concezioni e riuscì a lasciare la sua impronta anche nell’arte partenopea, raggiungendo vette espressive altissime con una composizione luministica, intendendo luce ed ombra in inscindibile binomio, la luce, rivelatrice di figure e cose, per un momento sottratte all’ombra (perché è la luce che fa esistere, simbolo del divino che rischiara l’umano, della grazia che illumina il peccatore), dunque il suo rinvigorire gli scuri non fu per dare rilievo ai corpi, come sostenuto dagli antichi biografi, ma per fermare, fissare in un attimo di sospensione la scena tagliata: allora la tavolozza caravaggesca, inizialmente basata su colori trasparenti e quasi senza ombre, diventò più scura e la pittura si fece “tenebrosa”, arrivando quasi, negli ultimi dipinti, l’oscurità ad inghiottire le figure.
Tanto piacquero le sue intuizioni da generare moltissimi seguaci e da divenire Napoli una vera e propria roccaforte caravaggesca, con artisti fedeli al suo stile anche secoli dopo la sua morte: Carlo Sellitto e Giovanni Battista Caracciolo furono caravaggeschi, ed anche un grande artista, spagnolo ma trapiantato nella città partenopea, come Josè Ribera, recepì pienamente la lezione del maestro e più degli altri la trasmise.
L’artista trovò qui moltissimi committenti, ai quali richiese, ottenendo, alti compensi per le sue opere, che in questo periodo divennero sempre più concitate e drammatiche, in forte alternanza di luci ed ombre (proprio com’era la sua vita), di concentrato realismo, caratterizzate da un angosciato, tormentato, fare pittorico, evidentemente influenzate dalla personale urgenza di uomo in fuga, perché dipingere era l’unico strumento di riscatto da una condizione esistenziale precaria ed effimera.
A Napoli erano soprattutto i religiosi ad investire in lavori prestigiosi, anche perché, facendo edificare e/o ristrutturare, si avvalevano del diritto di "fare insula", divenendo, così , proprietari delle zone intorno alle quali sorgevano i loro edifici (talmente dominante urbanisticamente era la Chiesa nel Seicento che possedeva tremila chiese, cappelle e conventi in città), perciò, per affrescare con soggetti sacri, chiamavano spesso i pittori che, tuttavia, in base ai principi didattici propugnati dai Vangeli, dovevano essere fedeli ai testi biblici e dipingere in modo tale da suscitare la devozione nel fedele. La scelta di Caravaggio di rappresentare volti rugosi, piedi sudici, il corpo gonfio della Vergine morta, dunque, non fu tanto dettata da volontà di ribellione sociale, ma dall’intento di raccontare il più realisticamente possibile le storie sacre, ancorando le solenni figure ai personaggi della realtà, sì da produrre quadri tra i più religiosi del ‘600 (già nel 1603 così Van Mander sintetizzava il naturalismo caravaggesco: “Caravaggio crede profondamente che l’arte non sia che una bagattella e un affare da bambini se non attinge alla vita” e che non si possa fare nulla di meglio che “seguire la Natura”) e, forse, anche dal desiderio di cercare con la sua opera di riscattarsi di fronte a Dio delle tristi imprese che conduceva in vita trascinato dal furore di attaccar brighe.
Tra le opere del primo periodo napoletano di Caravaggio sicuramente la più significativa è le Sette opere di misericordia, del 1607, eseguita per il Pio Monte della Misericordia, una congregazione di giovani aristocratici della città che volevano far raffigurare su una grande pala le sette opere di misericordia corporale, le sei riferite nel passo del Vangelo di Matteo (dar da mangiare agli affamati , dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, confortare gli infermi, visitare i carcerati, più un’altra maturata dall’urgenza del problema della sepoltura a Napoli in seguito alla carestia, seppellire i morti.

Caravaggio, Le Sette opere di misericordia

 

“Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: ‘Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi’. Allora i giusti gli risponderanno: ‘Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti’? Rispondendo, il re dirà loro: ‘In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me’. Poi dirà a quelli alla sua sinistra: ‘Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato’.Anch’essi allora risponderanno: ‘Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito’? Ma egli risponderà: ‘In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me’.E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna”.

(Vangelo di Matteo, XXV, 31 ss.).

 

In questo dipinto, opera capitale per tutto il Seicento e che estremamente significativa sarà ancora nei secoli a venire, emerge il rapporto esistente fra la religiosità di Caravaggio e le più schiette correnti religiose del tempo. Allora, di fronte alla minaccia dell'eresia, v'era chi sosteneva la necessità di una difesa ad oltranza dell'autorità della Chiesa e del suo apparato politico (i Gesuiti) e chi , invece, voleva fortemente, al di là delle divisioni gerarchiche e di classe, l’unità spirituale dei fedeli: a questa corrente, che discendeva dall'apostolato di San Filippo Neri, si collega il Caravaggio, e di chiara lettura è il fervore che animò la stesura delle Sette opere di misericordia.
La tela, destinata all'altare maggiore della chiesa, pagata 470 ducati, collocata in perpetuo al Pio Monte della Misericordia ed invendibile, così come stabilito fin dal 1613, fu velocemente eseguita da Caravaggio che, ispirandosi alla vita di strada, raffigurò le sette opere in una composizione apparentemente slegata, non unitaria, riunendo per la prima volta gli atti di pietà, collegando i vari episodi in un’unica scena che pare simile ad un’immagine reale della vita quotidiana dei Quartieri spagnoli,11 in una complessa e animata macchina teatrale, realizzando un’opera destinata a rivoluzionare l'intero panorama della pittura meridionale, tanto da divenire un punto di riferimento pittorico obbligato per i nuovi artisti e in generale per la pittura barocca nel Meridione.
Lungo direttrici a raggiera, esaltanti il dinamismo della scena, si collocano i personaggi rappresentativi delle varie opere, sotto lo sguardo sorridente della Madonna che, in distacco dal terreno (così come richiesto dai committenti), appoggiata alle ali di due angeli acrobati, dall’alto osserva la scena dipanarsi: la popolana che allatta il vecchio alla grata della prigione è, insieme, rappresentazione del “dar da mangiare agli affamati” e del “visitare i carcerati”, evocativa della commovente storia, molto popolare fra gli artisti barocchi italiani e fiamminghi, raccontata dallo storico romano Valerio Massimo nell’opera Facta et dicta memorabilia, “Fatti e detti memorabili”, di Cimone che, in carcere,sul punto di morire di fame, viene nutrito dal latte del
seno della figlia Pero.
“Dar da bere agli assetati” è rappresentata dall'uomo che beve da una
mascella d'asino, in ricordo di un’impresa di Sansone: consegnato ai Filistei dagli uomini della tribù di Giuda, l’eroe biblico si liberò dai lacci e, con una mascella d’asino, fece strage dei nemici. In seguito a tale impresa, il Signore fece sgorgare dalla mascella d’asino dell’acqua per placare la sete dell’eroe.
Il cavaliere che vuole spartire il suo mantello col mendicante, come San Martino di Tours (soldato romano che donò a un povero metà del suo mantello e la notte dopo sognò che lo indossava Gesù e, interpretando il sogno come una chiamata, chiese di essere esonerato dal servizio militare, si fece battezzare e fondò un monastero) è rappresentazione del “vestire gli ignudi”.
"Alloggiare i pellegrini" è riassunta da due figure: l'uomo all'estrema sinistra che indica un punto verso l'esterno, ed un altro, identificabile col pellegrino dalla conchiglia sul cappello, segno del pellegrinaggio a Santiago de Compostela in Galizia (emblema in generale del pellegrino, derivato dal fatto  che i pellegrini che si dirigevano al Santuario usavano una conchiglia per poter raccogliere l’acqua ai ruscelli o alle sorgenti o sulla spiaggia durante il loro duro cammino, perciò proprio la conchiglia, nel tempo, divenne l'emblema in generale del pellegrino).
>Ancora a San Martino si lega anche la figura dello storpio in basso nella tela, a significare il "curare gli infermi", mentre "seppellire i morti" , in grande tragicità, trova eloquente rappresentazione nel trasporto di un cadavere di cui si vedono soltanto i piedi.
Fra miti precristiani, temi biblici e scorci del quotidiano, in una scena che pare realisticamente animarsi in un qualsiasi affollato vicolo napoletano, illuminata da luci ed ombre che velano e celano i diversi personaggi, si articola quest’opera caravaggesca così coraggiosa ed innovativa rispetto alla tradizione, in un’espressività teatrale già tanto barocca, vero e proprio capolavoro del primo periodo napoletano dell’artista lombardo.
Un altro significativo dipinto, conservato alla Galleria Borghese, eseguito da Caravaggio nel 1610, durante il secondo soggiorno napoletano, è il Davide con la testa di Golia, da lui fatto pervenire, insieme alla domanda di grazia per l'uccisione del Tommasoni, al cardinale Scipione Borghese, suo intercessore presso Paolo V per il ritorno a Roma, in cui affrontò uno dei temi iconografici più diffusi nella storia dell’arte, che grande risonanza ebbe in particolare nella pittura del Seicento, poiché la testa decapitata di Golia, abilmente ucciso da Davide, diveniva l’occasione per una raffigurazione realistica del gigante.

 

 “Saul rivestì Davide della sua armatura, gli mise in capo un elmo di bronzo e gli fece indossare la corazza. Poi Davide cinse la spada di lui sopra l'armatura, ma cercò invano di camminare, perché non aveva mai provato. Allora Davide disse a Saul: ‘Non posso camminare con tutto questo, perché non sono abituato’. E Davide se ne liberò.
Poi prese in mano il suo bastone, si scelse cinque ciottoli lisci dal torrente e li pose nel suo sacco da pastore che gli serviva da bisaccia; prese ancora in mano la fionda e mosse verso il Filisteo.
Il Filisteo avanzava passo passo, avvicinandosi a Davide, mentre il suo scudiero lo precedeva. Il Filisteo scrutava Davide e, quando lo vide bene, ne ebbe disprezzo, perché era un ragazzo, fulvo di capelli e di bell'aspetto. Il Filisteo gridò verso Davide: ‘Sono io forse un cane, perché tu venga a me con un bastone ’? E quel Filisteo maledisse Davide in nome dei suoi dèi. Poi il Filisteo gridò a Davide: ‘Fatti avanti e darò le tue carni agli uccelli del cielo e alle bestie selvatiche’. Davide rispose al Filisteo: ‘Tu vieni a me con la spada, con la lancia e con l'asta. Io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti, Dio delle schiere d'Israele, che tu hai insultato. In questo stesso giorno, il Signore ti farà cadere nelle mie mani. Io ti abbatterò e staccherò la testa dal tuo corpo e getterò i cadaveri dell'esercito filisteo agli uccelli del cielo e alle bestie selvatiche; tutta la terra saprà che vi è un Dio in Israele. Tutta questa moltitudine saprà che il Signore non salva per mezzo della spada o della lancia, perché il Signore è arbitro della lotta e vi metterà certo nelle nostre mani’. Appena il Filisteo si mosse avvicinandosi incontro a Davide, questi corse prontamente al luogo del combattimento incontro al Filisteo. Davide cacciò la mano nella bisaccia, ne trasse una pietra, la lanciò con la fionda e colpì il Filisteo in fronte. La pietra s'infisse nella fronte di lui che cadde con la faccia a terra. Così Davide ebbe il sopravvento sul Filisteo con la fionda e con la pietra e lo colpì e uccise, benché Davide non avesse spada. Davide fece un salto e fu sopra il Filisteo, prese la sua spada, la sguainò e lo uccise, poi con quella gli tagliò la testa. I Filistei videro che il loro eroe era morto e si diedero alla fuga”.

 (Samuele, 17, 38-51).

 

 

Caravaggio, Davide con la testa di Golia

 

Caravaggio aveva già affrontato questo soggetto biblico nel 1600, in un dipinto ad olio conservato al Museo del Prado di Madrid, dove più che indugiare sulla crudezza dell’atto, quasi sospendeva la scena nel mito bucolico, con un Davide pastorello intento a costruire il suo trofeo con la testa recisa del gigante.  In questa tela Golia è rappresentato, sconfitto, a terra, violentemente ferito alla fronte dalla fionda, mentre Davide, con un ginocchio appoggiato sopra di lui, gli serra una corda intorno al collo. In netta contrapposizione si pongono il volto del giovane adolescente, e, in primo piano, meticolosamente descritto, quello del gigante, con inquietanti occhi e bocca rivolti verso l’osservatore.
Ed ancora riprese il tema nel 1607, in un dipinto che si trova al Museo Kunsthistoriches di Vienna, pure eseguito a Napoli, realizzato su una tavola di legno sopra a una vecchia allegoria manierista, versione, questa, non drammatica ma più “serena”, in cui ben diversa è l’espressione di Davide, emotivamente distante, che porta avanti, come un trofeo di battaglia, quasi in attesa di consenso al gesto compiuto, la testa di Golia, rappresentato con la bocca per metà aperta, la ruga fra le sopracciglia, gli occhi semichiusi, le guance scavate, in ossequio, sì, agli studi leonardeschi sulla rappresentazione espressiva dei moti dell’anima, ma anche in moderna cognizione del dolore.

Caravaggio, Davide con la testa di Golia

 

Il tema della testa mozzata (che sin dal Quattrocento ebbe grande fortuna) e l’atto incipiente della decapitazione, tornò ripetutamente nelle opere dipinte da Caravaggio, sia prima che dopo il fatto di sangue (Testa di Medusa, 1597, la creatura mitologica raffigurata in una cristallizzata posa da maschera classica, con gli occhi fissi in un esatto punto, la bocca aperta, sempre l’artista interessato all’attimo, un istante prima di morire, prima che orrore e dolore si dileguino; Giuditta e Oloferne,12 1599, tela emblematica per il crudo realismo della scena resa con suggestivo intreccio di luci ed ombre; Sacrificio di Isacco, 1603,quadro di dirompente forza espressiva nella pittura caravaggesca non ancora “tenebrista” ma  già rivelatrice di un uso suggestivo della luce e della forza del “vero”; Decollazione di San Giovanni Battista, 1608, il più grande dipinto di Caravaggio e l’unico firmato, con il nome tracciato con il sangue che esce dal collo troncato del Santo; Davide con la testa di Golia, 1600; Davide con la testa di Golia, 1607; Salomé con la testa del Battista, 1609, tra i dipinti tardi dell’artista, incentrato su forti contrasti di chiaro e scuro tipici della fase “tenebrosa”; Davide con la testa di Golia, 1610), spesso comparendo il volto dell’artista al posto di quello del giustiziato ma, probabilmente, dopo il tragico accaduto, assunse un’ulteriore duplice valenza: quella di gesto autopunitivo, in evidente corrispondenza con il desiderio di espiazione della colpa commessa, ma anche di confessione dell’amarissima solitudine in cui si trovava.

Caravaggio, Davide con la testa di Golia

 

 

In questa tela di “pentimento”, che accompagnava la richiesta di grazia per l'omicidio, contro uno sfondo scuro, in forte drammaticità, Davide mostra la testa mozzata, ancora grondante di sangue, di Golia, sfregiato sulla fronte dalla ferita; il volto del gigante è segnato più dallo stupore che dal dolore, su quello del giovane eroe non compare alcuna espressione di esultanza o soddisfazione per il delitto appena compiuto, piuttosto  di tensione, orrore, malinconia e pietà.
Protagonista della tela, per dimensioni, collocazione in primo piano ed espressività, è il volto di Golia, stravolto, abbrutito dal dolore, in realtà la testa del Caravaggio, e la ferita alla fronte alluderebbe, appunto, al ferimento dell’aggressione alla taverna del Cerriglio nell’ottobre del 1609, che aveva fatto scrivere al Baglione che “per li colpi quasi non si riconosceva” e che aveva fatto diffondere la notizia della morte dell’artista.
In primo piano, ad aggiungere drammaticità, si offre allo spettatore, quasi a ferirne lo sguardo, la spada lampeggiante, sulla cui lama (lungo lo sguscio, dove generalmente l’armaiolo era solito apporre la firma o incidere un motto) si legge l’acrostico HASOS, del motto agostiniano “Humilitas occidit superbiam”, “H (umilit) AS O (ccidit) S (superbiam)”, dal controverso significato, probabilmente esclusivamente religioso, pensando alla spada come simbolo di giustizia, a Golia come simbolo del Maligno, a Davide come alla prefigurazione del Cristo vittorioso.
Caravaggio, esperto di armi, usò raffigurare le armi nei suoi dipinti non solo come elementi funzionali al quadro, ma anche come simboli; nel Davide della Galleria Borghese la spada posta in primissimo piano è il segno “parlante” dell’omicidio avvenuto ed allude ad uno scontro nobile, alla pari, a significare la vittoria del popolo ebraico che riconquista la libertà, ma anche in allusione alla sua condotta disperata contro il Tommasoni.
Considerando le evidenze del quadro, l’autoritratto nella testa del decapitato, la ferita alla fronte, il male (Golia) sconfitto dal bene (Davide), l’ammissione di superiorità dell’umiltà contro la superbia, come inciso sulla lama, emerge netta la sensazione che Caravaggio volesse, così, mandare un chiaro messaggio al destinatario del quadro: l’ammissione di colpevolezza, l’autocondanna morale, soprattutto la sua disperazione per il delitto di cui si era macchiato, espressa dagli occhi ciechi, pur se aperti, del gigante filisteo, a significare lo smarrimento dell’uomo preda del furore di sé, fuori dalla grazia divina.

 

NOTE

1)    Giovanni Bellori, Le vite de' pittori, scultori et architetti moderni.

2)    Francesco Susinno, Le vite de' pittori messinesi.

3)    Francesco Maria Borbone Del Monte (1549-1627) fu cardinale, diplomatico e collezionista d’arte, protettore delle arti e delle scienze.

4)    K. Van Mander, Il libro dei pittori.

5)    In Feste, farina e Forca, di V. Gleijeses.

6)    Op. cit.

7)    “Vita di Michelagnolo da Caravaggio pittore”, in G.  Baglione, Le vite de' pittori, scultori et architetti dal pontificato di Gregorio XIII fino a tutta quella d'Urbano VIII.

8)    Op.cit.

9)     La Taverna del Cerriglio era un’osteria napoletana già famosa nel Cinquecento, in Italia e in Europa, frequentata nei secoli da artisti e letterati, ma anche luogo di ritrovo di gaudenti. Nel suo “Cerriglio incantato”, il Cortese fa sapere che molti giungevano a questa taverna anche dal mare.

10)  Ulisse Prota-Giurleo (1886-1966), storiografo della musica e critico d'arte.

11)  I Quartieri spagnoli, o più semplicemente i quartieri, parte dell’odierno centro storico di Napoli, sorsero intorno al XVI secolo per accogliere le guarnigioni militari spagnole destinate alla repressione di eventuali rivolte del popolo napoletano, ma divennero dubito luogo malfamato dove imperavano prostituzione e criminalità, nonostante le leggi repressive varate dal viceré di Napoli, Don Pedro di Toledo, da cui prese il nome la strada.

12)  Opera recensita dall’A. nel volume Messaggi dall’antichità (cfr. Bibliografia) a p. 163.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

ZUFFI  S., Caravaggio, Mondadori, Milano 2007.

Caravaggio, Banco Ambrosiano Veneto, Electa Milano 1993.

ZAMPETTI P., Pittura italiana del Seicento, Istituto italiano d’arti grafiche, Bergamo 1965.

BOTTARI S., Caravaggio, Sadea Editore, Firenze 1966.

I grandi pittori, vol.3, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1987.

Caravaggio, Rizzoli, Skira, Milano 2003.

Dell’Arti G. curatore,Caravaggio e i maestri del Seicento, supplemento a La Repubblica 1988.

BAGLIONE  G. , Le vite de' pittori, scultori et architetti dal pontificato di Gregorio XIII fino a tutta quella

d'Urbano VIII (Roma, 1649) versione digitalizzata, www.books.google.it

La Sacra Bibbia, Cei-Ueci, Edizioni Paoline, Roma 1980.

GIORGI R., Santi, II parte, Electa, Roma 2004.

DE CAPOA C., Episodi e personaggi della Bibbia, II parte, Electa, Roma 2004.

IMPELLUSO L., Eroi e dei dell’antichità, I parte, Electa, Roma 2004.

 

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