VITE TRAGICHE
(Dall'antologia AA.VV.
"Pier
Paolo Pasolini, il poeta civile delle borgate", Poetikanten 2016)
Ingiuriato dalla furia omicida, con il volto tumefatto per i colpi
ricevuti, l’orecchio sinistro strappato via, il destro tagliato a metà,
sul corpo i segni visibili degli pneumatici di quell’auto che
barbaramente ci era ripassata sopra più volte: aveva 53 anni Pier Paolo
Pasolini ed era il 2 novembre 1975 quando, tra baracche e rifiuti,
all’idroscalo di Ostia, fu ritrovato senza vita il suo corpo, contro il
quale l’aggressore si era scagliato con inaudita violenza. La
magistratura, con frettoloso e lacunoso processo, stabilì che era morto
assassinato per mano di un "ragazzo di vita", Giuseppe Pelosi, ma le
circostanze, a distanza di tanti anni, restano ancora oscure e non
chiarite, anche se sicuramente legate al mondo dei “ragazzi di vita” che
lo scrittore conosceva e che tanto bene aveva raccontato con dolente e
appassionata partecipazione.
Artista versatile, scrittore, poeta, giornalista, regista, perennemente
circondato da un alone negativo, perseguitato da censori e magistrati
(ogni anno quattro volte in tribunale per oltraggi al comune senso del
pudore e reati a sfondo sessuale dai quali puntualmente assolto, per un
totale di 33 processi) scomodo, critico anche verso quella sinistra alla
quale apparteneva, come quando, nel ’68, rischiando l’impopolarità, in
piena difesa del punta di vista del sottoproletariato, si schierò contro
gli studenti figli di papà borghesi e piccoli borghesi a favore dei
poliziotti di origine proletaria: resta incomprensibile come abbiano
potuto colpirlo proprio coloro dei quali si era eletto interprete e come
la magistratura ancora non abbia sciolto l’enigma della sua morte.
Affascinato dal vitalismo dei sottoproletari romani, dalla carica umana
che, pur immersa nell’abbrutimento, conservavano, da quella Roma
marginale che aveva scoperto nella lunga frequentazione del popolo di
periferia, Pasolini ne denunciò lo squallore, lasciandoci un ritratto
fedele dell’epoca in due formidabili opere: “Ragazzi di vita” e “Una
vita violenta”.
In "Ragazzi di vita", del ’55, che gli costò un processo per oscenità,
ma che Moravia definì “il romanzo che con scandalo e forza di denuncia
rivelò la realtà "diversa" del sottoproletariato romano”,
attraverso la vita di un gruppo di ragazzi dei suburbi, il
loro vagabondaggio, gli atti di teppismo, la noia e le avventure minime,
indagò sulla diversità sociale dei quartieri poveri di Roma, visti come
luogo primordiale, quasi stato di natura, in qualche modo puro e
incontaminato come il mondo friulano contadino nel quale affondava le
sue radici. I protagonisti si chiamano Riccetto, Rocco, Alvaro, Alduccio,
ma, in fondo, sono interscambiabili fra loro, accomunati dallo stesso
modo di vivere, dall’identica parlata a metà tra il dialetto e il gergo
della malavita, dallo stesso destino, dal quale si salverà solo Riccetto,
scegliendo d’integrarsi nella società dei consumi attraverso il lavoro.
L’altro romanzo, pubblicato nel 1959, "Una vita violenta", insieme a
"Ragazzi di vita" compone il "dittico delle borgate romane" poiché
l’autore vi descrive la drammatica vita di quegli anni del
sottoproletariato romano di borgata, periferia della grande città,
emarginata dalle ingiustizie sociali, un mondo dal quale Pasolini era
attratto per la spontanea ingenuità, per la purezza di valori
contrapposti a quelli borghesi, salvo, poi, ricredersi quando, con il
boom economico degli anni ’60, subendo il fascino del consumismo, quei
sottoproletari s’imborghesirono.
Contrariamente a “Ragazzi di vita ", dove avevo eletto protagonista la
varia eppure simile umanità dei borgatari, in "Una vita violenta" il
protagonista è Tommaso Puzzilli, uno sbandato che frequenta sbandati
appartenenti come lui alla borgata di Pietralata, eppure Tommaso è
diverso dagli altri, in lui si agitano dei fermenti che lasciano
intravedere una diversa coscienza, un animo generoso e un desiderio di
riscatto dallo squallore del suo ambiente dove caratteristiche comuni
sono il vizio e l’abbrutimento, e dove, in un clima di prepotenza, la
comunicazione avviene solo attraverso la violenza verbale della parlata
romanesca tanto usata dall’autore che, utilizzando il dialetto,
intendeva registrare dal vero l’esistenza difficile di quei ragazzi ed
esprimere la sua adesione viscerale al sottoproletariato romano, visto
come mondo ”diverso” da quello borghese.
Ammalatosi di tubercolosi Tommaso guarisce, però il suo fisico resta
segnato dalla malattia: da allora in poi la sua vita si svolgerà in una
violenza che può essere interpretata come esigenza di opporsi alla
precarietà dell'esistenza e contro la minaccia sempre incombente della
fine, attraversando episodi da teppista, ed anche aggregandosi a bande
neofasciste. Infine prenderà coscienza e diventerà militante comunista,
e, quando la tempesta improvvisa allagherà le case di borgata,
nonostante la salute precaria, non esiterà a partecipare alle azioni di
soccorso, in uno slancio di generosità che lo redimeranno agli occhi del
mondo e di se stesso. L’indomani il suo destino sarà già segnato: tra i
colpi di tosse e gli sputi di sangue realizzerà il rinnovato vigore del
suo male, concludendo in modo violento la sua vita violenta.
Interprete appassionato, ma mai lontano dalla lucida visione, spesso
accostato a Caravaggio (accomunato dalla stessa frequentazione degli
“umili”
e dalIa fine tragica),
Pasolini osservò con sentita partecipazione il sottoproletariato di
borgata, cercando sempre di metterne in luce il valore umano e il
contributo all’evoluzione di tutta la comunità, ai margini della quale
lo ponevano solo le circostanze e le ingiustizie sociali, in analisi
profonda della tragedia insita nel destino dei borgatari che, pur
aderendo ai nuovi valori della società, esplosi col boom economico,
soggiogati dal fascino del denaro e dei beni di consumo, ne restavano
esclusi e subalterni.