Iginio Ugo Tarchetti
(San Salvatore Monferrato 1839 - Milano
1869)
A Iginio Ugo
Tarchetti
C’era vento e faceva freddo quel giorno
d’estate, era un insolito agosto, sembrava novembre e il cielo
minacciava pioggia. Ricordo bene cosa guidò i miei passi verso
il Monumentale di Milano: insieme ad un altro motivo (di cui,
poi, dirò), la curiosità di visitare un luogo di culto
insolitamente ricco di storia e di arte, che custodiva famosi
estinti, milanesi o che avevano dato lustro alla città, il
desiderio di rendere omaggio ai personaggi che avevano
contribuito alla mia formazione culturale e nutrito il mio
immaginario (scrittori, poeti, pittori, scultori, musicisti),
ed anche una certa attrazione sepolcrale avuta sin da bambina,
affacciando le finestre della casa della mia nonna materna,
dalla quale quotidianamente mi recavo con la mia mamma, nella
mia città natale (Napoli), di fronte al “Cimitero acattolico
di Santa Maria della Fede”, comunemente conosciuto come
“Cimitero degli inglesi” o “Cimitero dei protestanti”, pure
monumentale, dismesso e divenuto giardino pubblico dal 1980,
traslate le sepolture al “Nuovo Cimitero Inglese” alla
Doganella, adiacente alla Chiesa di Santa Maria del Pianto.
Allora mi piaceva sollevarmi sulle punte
delle scarpe, sporgermi dalle finestre, allungare lo sguardo
verso le lapidi e fantasticare. E, nei giorni in cui il vento
infuriava, eludendo le amorevoli sorveglianze, ugualmente
correvo ad affacciarmi e, più forte la fantasia galoppando,
fra le tombe e le croci di pietra mi pareva di vedere gli
spiriti di quei morti stranieri danzare e danzare lievi come
farfalle.
Ed anche più avanti nel tempo mi restò quell’attrazione, tanto
che mai rifiutai, come invece sempre fecero i miei pavidi
fratelli, di accompagnare mia madre a rendere l’estremo saluto
a qualche nostro caro, congiunto/ amico/ conoscente, che, di
tanto in tanto, come la foglia che si stacca dal ramo al primo
soffio di bufera, improvvisamente se ne partiva lasciandoci
addolorati e stupiti per l’inatteso volo nelle terre del
Mistero. Perché mai avrei dovuto avere paura dei morti?
E poi al liceo m’affascinò lo studio
della materia notturna e sepolcrale, amai la letteratura
inglese e i suoi poeti, Edward Young e Thomas Grey, le loro
malinconiche suggestioni e le meditazioni funebri sulla norma
universale della morte e del disfacimento, e in Italia
Pindemonte e Ugo Foscolo, il fraterno interlocutore del carme
dei Sepolcri. In particolare, però, amai l’esponente
più rappresentativo della scapigliatura milanese, Iginio Ugo
Tarchetti, che meglio di ogni altro autore aveva saputo
affrontare i temi del cimitero, della tomba, della lusinga del
sepolcro, della fanciulla amata che si rivela una morta
vivente, scrivendo così tanto di croci e lapidi e tombe e
scheletri e tibie e teschi nei suoi scritti, in versi e in
prosa, e nel suo grande romanzo, “Fosca”, da parermi quasi la
morte una sua sorella in carne ed ossa: M’aveva dato
convegno al cimitero…Nel dì dei morti…Saper vorrei se s’amano
nella fossa i defunti….Forse nella tomba si sogna.
E la passione per questo scrittore mi prese così
fortemente che non ne abbandonai mai più lo studio, e divenne
“il mio Ugo”.
Appresi che, già debilitato dalla tisi,
fu strappato alla vita dal tifo, male troppo tardi
riconosciuto dai medici, e che morì a Milano dopo qualche
giorno di delirio, il 25 marzo 1869: ancora non aveva compiuto
trent’anni! Il suo funerale fu modesto, ma vi parteciparono
tutti gli amici, anche la contessa Clara Maffei, che lo aveva
conosciuto nel suo salotto milanese e ne era rimasta talmente
affascinata da inviargli spesso dei fiori come saluto
mattutino. La nobildonna ancora oggi riposa al Monumentale (in
una tomba che consta di una croce, simbolo di fede, e di un
angelo che sparge fiori, simbolo della sua bontà), così come
tanti altri amici del compianto poeta, come Arrigo Boito,
librettista e compositore di melodrammi di successo, e lo
scrittore Salvatore Farina, l’amico fraterno che lo ospitò
nella sua casa, dove, poi, Ugo morì.
Grazie ad una sottoscrizione degli amici
fu possibile elevargli una tomba onorata nel giardino rialzato
del Cimitero Monumentale di Milano. Come annotato da Salvatore
Farina, sul sepolcro modesto, sotto un salice, circondato da
rose, nascosto dal viluppo dell’edera tanto amata dallo
scrittore, fu iscritto un malinconico epitaffio di Lionello
Patuzzi:
Per amore dell’arte cui gli agi
sacrificò, ebbe quotidiani dolori, morte precoce; onestamente
libero, dilesse, compatì, fu amato e compianto; pose
affrettato nei libri parte dell’anima cupida dell’infinito.
Invece sulla colonnina posta sulla tomba fu, poi, vergata una
poesia composta da Emilio Praga nel settembre del 1871:
Nato pel cielo, e tutto in
quello assorto.
Le spoglie mortali di Ugo, che tanto
aveva amato Milano e così poco il suo paese natale, San
Salvatore Monferrato, giacquero al Cimitero Monumentale fino
al 1959, anno in cui furono traslati nella tomba di una
lontana discendente nel luogo natio. Ecco il motivo
fondamentale che mi spingeva a visitare quel famoso camposanto
milanese: pur sapendo che lo scrittore caro al mio cuore più
non vi dimorava, volevo vedere il luogo che lo aveva accolto e
custodito per così tanto tempo…E chissà che non mi fosse
riuscito di scovare qualche traccia superstite della sua
permanenza in quel sacro porto di pace, una lapide, una
colonnina, un salice, una rosa, in quel giardino rialzato in
cui era stato sepolto secoli addietro!
Stringendo in cuore la speranza,
serrando contro il petto il fascio di rose gialle che avevo
voluto ugualmente comprare all’ingresso, ignara che quel
giorno mi aspettavano insieme delusione ed esaltazione,
affrontai il mio “itinerario del cuore”, e varcai la soglia
del Monumentale provando subito un senso di sgomento
ricordando che si estendeva per circa 250.000 metri quadrati.
Esitai per qualche istante, ma mi rassicurò lo sguardo di una
creatura a me cara e familiare, una gattina, dal manto nero e
gli occhi color di miele, che, fissandomi come in attesa,
seminascosta da una lapide, sembrò invitarmi a proseguire
senza esitazioni, infatti, poi, si volse e cominciò a
camminare, prima lentamente, poi saltellando da una tomba
all’altra, fiutando l’erbetta cresciuta negli interstizi della
pavimentazione, sempre girandosi di tanto in tanto verso di me
come per accertarsi che la seguissi. Ed io le andai dietro.
In un’atmosfera di sospensione quasi
allucinata, nel silenzio degli altri visitatori e dei
monumenti funebri immobili da secoli, già il mio sguardo
perdendosi incantato fra le sepolture a perpetuità realizzate
dai più importanti artisti (tante in stile liberty:
meravigliose!), cominciai ad avanzare alla ricerca del luogo
in cui avrei potuto trovare la tomba vuota del mio Ugo,
dirigendomi subito verso i giardini rialzati, di levante e di
ponente, che ispezionai con cura, prima l’uno, poi, l’altro,
ma non vidi né salici, né rose, e nulla trovai che ricordasse
il mio poeta, accompagnato il mio sconforto soltanto dal
rumore dei miei passi, dai voli delle cornacchie gracchianti
alti sul mio capo e dalla voce del vento fra gli alberi.
Tornai all’ingresso, mi presentai
all’ufficio del cimitero, chiesi informazioni, l’impiegata
gentilmente guardò al computer l’elenco di tutti i morti lì
seppelliti... ma Iginio Ugo Tarchetti non risultava. Parlai
con altre due garbate signore che, in evidente conoscenza del
luogo, con grande cortesia mi condussero al deposito dov’erano
conservati i resti delle tombe dismesse: chissà, forse là
avrei trovato qualcosa…ma nulla nemmeno lì. Ringraziai
tristemente e cominciai a vagabondare nel cimitero, per
visitarlo nell’interezza, per smaltire la delusione e, forse,
ancora speranzosa di trovare ciò che cercavo. Ritornai al
Famedio, l'entrata principale del Cimitero Monumentale, il
luogo di sepoltura dei cittadini più illustri e meritevoli
della storia e della cultura milanese, come Alessandro Manzoni
e Carlo Cattaneo, ma che ricorda anche personaggi importanti
altrove sepolti, come Giuseppe Verdi. Proseguii per la navata,
lungo il portico, superai le colonne intervallate da statue
funebri, continuai ancora a vagabondare da un viale all’altro,
da una scultura a un mausoleo (uno ispirato pure alla Colonna
Traiana), donne, uomini, bambini, cavalieri con la spada,
creature celesti, in pose piangenti o meditative, opere
commoventi, grandiose, persino eccessive (come la stupefacente
ultima cena di una famosa famiglia milanese, con personaggi a
grandezza naturale), realizzate nelle diverse epoche da
scultori come Luigi Crippa e Enrico Butti, Michele Vedani e
Francesco Penna, Medardo Rosso e Ernesto Bazzaro, Adolfo Wildt
e Giannino Castiglioni.
Proseguendo in estatico stupore per le meraviglie
artistiche che si offrivano ai miei occhi, non potevo
impedirmi di commuovermi al pensiero di tutti quegli uomini e
donne che, variamente, avevano dato lustro alla città e lì,
ora, giacevano dormienti per l’eternità. E mi commuoveva anche
il pensiero dei soldati della prima e della seconda guerra
mondiale caduti al fronte per la Patria, ricordati da circa
500 lapidi, ma, in linea con i miei interessi di letteratura
ed arte, il mio pensiero più che alla distruzione (la guerra)
andava alla creazione (l’Arte), dunque soprattutto a quelli
che avevano esaltato la Bellezza. E pensavo agli scrittori, ai
poeti, ai pittori, agli scultori, ai musicisti; fra i tanti lì
giacevano quelli a me più cari, Manzoni, Neera, Lalla Romano,
Salvatore Quasimodo, Alda Merini, Francesco Hayez, Tranquillo
Cremona, Medardo Rosso, Vladimir Horowitz; sì, la morte è
democratica, accomuna e rende eguali, eppure grazie alla loro
arte tutti aristocraticamente erano riusciti ad elevarsi, a
distinguersi, divenendo, così, immortali.
E, d’improvviso, mi parve accadesse un
prodigio, che si svuotassero le tombe, che sottoterra, in
quelle culle di marmo o nei loculi a parete, dalla
decomposizione, per inversa trasformazione, le ceneri
ridiventassero carni, in ogni spoglia si riunissero tutte le
cartilagini e le 206 ossa che compongono il corpo umano, tibie
e peroni, carpi e metacarpi, tarsi e metatarsi, femori,
scapole, vertebre, ossa della testa, del tronco, degli arti,
e, ricostituiti gli apparati scheletrici, riconquistate le
masse muscolari rifasciate di pelle, riformati gli organi
interni, di nuovo a pulsare il cuore, tornato il sangue in
circolo, reinsufflata la vita, sconfitta la morte, quei
defunti riprendessero sembianze umane e, riabbigliati secondo
la moda del loro tempo, in danza non macabra, leggiadri si
muovessero alle misteriose melodie provenienti dal cielo, ed
insieme anche i personaggi sacri, Cristo, Maria, la Maddalena,
e gli angeli di pietra con le spade sguainate o accovacciati o
piangenti o addolorati, con le ali ripiegate o distese.
Stefano Butti, "La morente", Tomba della
famiglia Casati di Milano.
E vidi la statua della “Morente”, con le chiome sparse sul
cuscino, le esili braccia inerti, la fuga
degli angeli pronti alle sue spalle per trascinarla in cielo,
alzarsi dal letto di pietra e palpitare di vita, diventata lei
Isabella, la giovane donna morta di parto a soli ventiquattro
anni che sotto il suo tumulo giaceva. E vidi animarsi anche
l’angelo della morte, che più non spiccava il volo verso
l’alto con la creaturina che stringeva fra le braccia ma, con
dolcezza, la riconsegnava ai suoi affetti. E il bacio, che in
un gruppo statuario simbolicamente si scambiavano in segno di
distacco l’anima e la vita mortale, diveniva bacio di
ritrovata unione. E le lacrime delle figure dolenti, in
pietra, in marmo, in bronzo, piegate sui sepolcri, si
tramutavano in lacrime di gioia, e pure loro, in acquisita
vita, tutti insieme a danzare in allegri girotondi per i viali
alberati ingemmati di fiori profumati.
Mentre ero immersa nelle mie allucinate fantasticherie mi
fermai di colpo dinanzi ad un sepolcro dove, da un
bassorilievo inciso, occhieggiava il volto di un uomo
ottocentesco con i favoriti identici al mio Ugo: strano, gli
somigliava… (ma non si somigliano tutti i morti?)…ma non era
lui, altro era il suo nome. Il mio sguardo accarezzò
quell’antico volto, poi discese alla sua imponente culla di
pietra sulla quale la moglie affranta aveva voluto scolpita la
statua di una figura femminile in gramaglie, con i capelli
raccolti sotto un cappellino dal quale si dipartiva un lungo
velo da lutto appuntato con uno spillone, gli occhi chiusi, il
volto atteggiato in smorfia disperata, le braccia protese ad
abbracciare il sepolcro come a voler ancora lei stringere
un’ultima volta il suo sposo. Recitava l’epitaffio:
Scivola via la vita come acqua fra le dita, ma insieme al mio
dolore l’amore mio non muore. Alla memoria, come lampi nel
cielo, improvvisi cominciarono a tornare i versi del mio
poeta, stranamente non i suoi che parlavano di morte e che
maggiormente mi avevano attratta, ma quelli che parlavano
d’amore: vorrei saper quanti baci fur dati/ e a te,
fanciulla, averli tutti dati…ponmi sul cor la mano/ senti egli
batte ancora…Fanciulla, ricordi, /quei giorni d’aprile/che
meco gentile/parlavi d’amore?... Mi ricordai, allora,
della donna che aveva ispirato la “Fosca” del mio poeta
(Carolina o Angiolina si chiamava) che, quando lui aveva
prestato servizio nel commissariato militare a Parma, lo aveva
amato d’incontrollabile passione. Pur malata, gli era
sopravvissuta e, tornata nella sua Sardegna, non aveva mai
mancato di far giungere ogni anno fiori sulla sua tomba nella
ricorrenza del giorno dei morti. Finsi, allora, che quello
fosse il sepolcro del mio poeta e d’essere io quella donna
tornata in vita per omaggiare, ancora una volta, l’amore di un
tempo.
Deposi, allora, sul sepolcro dello sconosciuto le rose che
stringevo fra le braccia, sostai ancora un po’… e mi sovvenne
un altro verso del mio poeta: Forse nella tomba si sogna!…Chissà,
forse era vero…Forse anche le mie care ombre sepolte lontano
sognavano, pensai alla mia mamma e alla mia nonna… sospirai,
mi segnai la croce e, dopo un ultimo sguardo all’immagine
dello sconosciuto, stranamente pacificata, presi la via del
ritorno.
Ripercorsi i viali all’inverso, rabbrividendo un po’
al vento divenuto più freddo... e mi sorprese un colpo di
tosse.
Prima di varcare il cancello che segna
il confine fra i due mondi opposti, mi voltai, come se
percepissi una presenza dietro di me: era la gattina dagli
occhi color di miele, mi aveva seguita, ed era ferma alle mie
spalle. Mi biascicò un prolungato “miaooo”, le sorrisi, le
feci “ciao” con la mano, ed uscii. Cominciava a piovere.