Gaeta, 2
febbraio 1972. Data quel tempo la fotografia, scattata in
occasione di una gita scolastica, che ho ritrovato per caso in
un vecchio diario personale chiuso col lucchetto dimenticato
in fondo ad un cassetto. Con i capelli al
vento, i jeans un po’ scoloriti come si usava allora, senza
giaccone addosso, anche se era il mese di febbraio, perché lì
il clima era mite anche d’inverno e febbraio sembrava già
inoltrata primavera, sono in piedi, sopra una barca da pesca
che reca il numero d’immatricolazione “GA. 1308”, ormeggiata
nel porticciolo del borgo dei pescatori. In foto con me ci
sono due compagne di classe del ginnasio- liceo classico
Giuseppe Garibaldi, eravamo andate in gita da Napoli a Gaeta,
da un golfo all’altro, e c’è anche un “biondino” che non era
nella nostra classe, di cui proprio non mi sovviene il nome,
solo ricordo che mi “corteggiava”, ma io lo ignoravo, perché
allora i miei pensieri erano tutti per un solo ragazzo, che si
chiamava Bruno, ma ai miei occhi innamorati brillava più del
sole di Napoli e Gaeta messi insieme. Alle nostre spalle ci
sono altre barche ancorate in quel golfo incantevole del
quale, pur provenendo da un golfo meraviglioso, già subivo il
fascino. Sorrido: quanti
ricordi si affollano nella mia mente! Ricordo che per le mie
compagne Gaeta fu una piacevole scoperta, non per me, che già
ne conoscevo quasi tutte le bellezze, anzi, potrei dire che la
conoscevo già prima di conoscerla. Spesso, infatti, da
bambina, avevo sentito ripetere il nome di questa località (e
ancora lo avrei sentito ripetere negli anni!) da mio padre
che, dopo ogni rimprovero al mio indisciplinato fratello
maggiore, sempre concludeva dicendo: “Ti manderei a Gaeta!”.
Da quello
spauracchio, fantasiosa già allora, avevo immaginato quella
cittadina come un luogo dove venivano inflitte terribili
punizioni, covo temibile e pericoloso di pirati e di banditi,
ed invece quando, più avanti nel tempo, un giorno mio padre ci
portò lì, al mare, continuando, poi, a condurci d’estate negli
anni successivi, scoprii essere tutt’altro … ma compresi anche
il senso della sua minaccia: Gaeta è dominata da un castello a
strapiombo sul mare, un imponente fortezza angioina-aragonese
che, a quel tempo, aveva l’ala angioina adibita a carcere
militare. Per estensione, il massimo della punizione che
poteva augurare a mio fratello era Gaeta, ma lui restava
insensibile a quella minaccia, e continuava ad essere
indisciplinato. Amante del mare,
mio padre adorava le belle località tra alta Campania e basso
Lazio, Castelvolturno, Mondragone, Baia Domizia, Minturno,
Formia, Gaeta, Terracina, ma in particolare Gaeta, dove aveva
fatto il militare di leva su una Corvetta. E fu da lui che
imparai ad amare anch’io questa splendida cittadina, situata
sul suggestivo promontorio di monte Orlando, con la bellissima
spiaggia di Serapo e il paesaggio che verso sud si arricchisce
di profumati aranceti ininterrotti fino a Formia. Celebrata sin
dal tempo degli antichi romani, che la chiamavano Caieta
e che, sotto l’incanto del suo cielo e del dolce clima, i
patrizi avevano eletto (non ultimo Cicerone)
a sede dei loro otia edificandovi sontuose ville, che
ebbe il suo massimo splendore nel Medioevo come ducato
marinaro, che fu piazzaforte del regno di Napoli, fortezza,
porto militare e porto peschereccio, chiamata la “porta del
sud” perché ingresso al meridione d’Italia del quale condivide
molte tradizioni, usi e costumi, Gaeta ebbe momenti storici di
grande importanza e altissimo valore, come quello fra il 1860
e il 1861, che vide protagonista anche l’ultima regina di
Napoli, la bella e fiera Maria Sofia di Wittelsbach (la
sorella di Sissi), consorte del dignitoso e coraggioso re
Francesco II, l’ultimo Borbone a sedere sul trono del Regno
delle due Sicilie. La regina, che
aveva solo diciannove anni, chiusa nella fortezza assediata
per ben centodue giorni, di cui settantacinque trascorsi sotto
il fuoco nemico, incurante delle bombe, si batté dalla
Rocca eroicamente contro i garibaldini e l’esercito
piemontese, affrontando insieme al marito gli stessi pericoli
degli umili e coraggiosi soldati napoletani, animando
strenuamente la resistenza, sostenendo impavida i combattenti,
soccorrendo senza tregua i feriti e assistendoli negli
ospedali,
rifiutando l’invito del consorte di lasciare la roccaforte
quando la situazione
peggiorò per la penuria di cibo, per il tifo e per il freddo
Così a Napoleone scrisse Francesco II:
Ho fatto ogni sforzo per persuadere S.M. la Regina a separarsi
da me, ma sono stato vinto dalle tenere sue preghiere, dalle
generose sue risoluzioni. Ella vuol dividere meco, sin alla
fine, la mia fortuna, consacrandosi a dirigere negli ospedali
la cura dei feriti e degli ammalati; da questa sera Gaeta
conta una suora di carità in più.
Maria Sofia divenne un simbolo così forte di quei giorni che
il suo eroismo riverberò nel tempo e colpì l’immaginario di
molti scrittori, tra cui Marcel Proust, che parlò di lei come
della regina
soldato sui bastioni di Gaeta, e D’Annunzio che, in
ricordo delle sue origini, per lei coniò l’appellativo di
aquiletta bavara. Grazie a mio
padre conoscevo bene le sette spiagge di Gaeta, belle e
pittoresche, con le acque di una trasparenza cristallina,
soprattutto la spiaggia di Serapo, così chiamata perché
probabilmente in ere antiche vi sorgeva un piccolo tempio
dedicato a Serapide, il barbuto dio greco-egizio
dell’oltretomba, del mare e della fertilità, da cui pare
derivi anche l'antico nome di questa parte di costa, "Serapi"
o "Serperi".
Lunga circa 1,5 km,
dalla dorata sabbia finissima,
offre pure la visione di uno scoglio poco distante la cui
forma allungata ricorda proprio una nave, perciò è chiamato
"Nave di Serapo".
Ma conoscevo anche
la spiaggia dell’Ariana, collocata fra due speroni di roccia
su uno dei quali troneggia una delle più famose torri costiere
di Gaeta, la Torre Viola (che, però, viola non è!), costruita
in ere lontane per avvistare gli incursori saraceni, e la
piccola spiaggia di Fontania,
dimora del console dell'antica Roma Gneo Fonteo, con due
grandi grotte in una delle quali c’è una piccola sorgente che
potrebbe spiegare l'etimologia del nome. E poi,
fra quella di Arania e quella di Fontania, la Quaranta Remi,
una bella spiaggetta raggiungibile solo a nuoto o in
barca,
così chiamata perché la distanza fra le due si può coprire con
quaranta remate. E ancora la spettacolare spiaggia dell'Arenauta
incorniciata dalla macchia mediterranea, luogo naturale e
selvaggio protetto dalla roccia scoscesa, posta sotto una
falesia di eccezionale bellezza, ma famosa soprattutto per il
“Bagno dei 300 scalini", al quale si accede mediante una lunga
scalinata, che con un solo sguardo lascia accarezzare le isole Pontine, Ischia, Procida e il Circeo. E
poi quella di San Vito, una piccola darsena riservata, con
grotte e calette, ed acque limpide ideali per le immersioni,
e quella di Sant'Agostino, incantevole lingua di sabbia, tra
scogliere, falesie e campagna, con il monte Moneta dalle
pareti rocciose gioia degli scalatori.
Ma quel giorno con i professori, le compagne della mia sezione
e qualche aggregato (come il “biondino” della foto, figlio di
un’insegnante) la gita prevedeva la visita al Santuario della
SS. Trinità, chiamato anche "Santuario della Montagna
Spaccata", risalente all’XI secolo, ed un’escursione alla
“Grotta del turco”, che mai avevo visitato prima.
Ricordo con intatta emozione il mio stupore quando, dopo la
foto di rito al borgo dei pescatori, dopo uno sguardo ammirato
al
castello, nell’infinito splendore di quel luogo meraviglioso,
i professori ci guidarono alla scoperta di
uno dei più
suggestivi siti di Gaeta, la Montagna spaccata,
la cui fenditura nella roccia per tradizione si vuole creata
dal sisma che scosse la Terra alla morte del Cristo
crocifisso. Proprio sopra la fenditura, dinanzi ai nostri
occhi incantati si parò, visione d’incomparabile bellezza, il
Santuario della SS. Trinità. Tanti i religiosi illustri che
qui sostarono o si ritirarono in preghiera invogliati al
silenzioso raccoglimento dalla Bellezza di quest’angolo del
creato! San Bernardino da Siena e sant’Ignazio di Loyola lo
visitarono, ma, soprattutto, un santo amato dai giovani perché
con pazienza e benevolenza molto vicino era stato ai giovani,
a tutti, figli del popolo e figli dei principi, san Filippo
Neri, colto e gioioso, che teneramente si prodigava per il
prossimo, che amava la Natura e le sue creature, del quale si
narra che abbia vissuto all’interno della Montagna spaccata e
che abbia dormito su un giaciglio di pietra, qui conservato e
noto come “Il letto di san Filippo Neri”. A destra della
chiesa, in un corridoio,
alle pareti le stazioni della Via Crucis in riquadri in
maiolica accompagnati dai versi del Metastasio, che pure
ammirammo, ma lo stupore fu maggiore quando, da un lato della
chiesa, varcato un cancello d’ingresso
accanto al quale si ergeva un fonte con una scritta in latino
di un passo del Cantico dei Cantici, 8.7, Aquae multae non
potuerunt estinguere charitatem MDCLXXXVII (le grandi
acque non possono spegnere l’amore!),
discendemmo a visitare la suggestiva “Grotta
del Turco”.
Varcato il cancello, in un silenzio prima riverente, poi
intervallato dai sussurrati commenti di noi visitatori, nel
profumo delle rocce e dell’umido, accompagnati dal languido
ribattere delle onde, prima lontano, poi sempre più vicino,
iniziammo la lenta discesa di una lunga scalinata, formata da
duecentosettantadue gradini scivolosi che ci condussero nelle
viscere della montagna fino all’approdo nella “Grotta del
turco”, dove scoprimmo l’impressionante impronta di una mano,
accompagnata da un distico in latino del XV secolo: Improba
mens verû renuit quod fam./ Fate tu credere, at hoc digitis
saxa liquata probant, "Un incredulo si rifiutò di credere
ciò che la tradizione riferisce, lo prova questa roccia
rammollitasi al tocco delle sue dita"!
Nell’IX secolo, ai
tempi del ducato di Gaeta,
per sessant'anni, dall’846 al 915, le navi dei Saraceni
tormentarono la città con le loro scorribande, ed era tra le
fenditure di questo strategico promontorio che si nascondevano
gli incursori, pronti ad attaccare di sorpresa le navi in
transito per depredarle dei loro carichi. La leggenda vuole
che l’impronta sia stata lasciata dalla mano di un marinaio
turco, incredulo che la montagna si fosse spaccata alla morte
del Cristo.
Così, infatti, si legge nell’epigrafe moderna apposta nella
grotta:
Si racconta che un visitatore miscredente (forse un marinaio
turco) si rifiutò di credere che la montagna si era spaccata
alla morte di Gesù Cristo in croce e, per disprezzo, appoggiò
la mano alla roccia. La roccia si rammollì miracolosamente e
vi rimase l'impronta della sua mano.
Lungamente sostammo nella Grotta, tutti stupiti ed ammirati
contro quelle rocce, di fronte a quell’angolo di mare blu
screziato dai riflessi color dell’oro dei raggi del sole che
riuscivano a scavarsi un varco, lungamente sostai in estatico
rapimento in quel luogo incantevole dove l’animo si
riconfortava di fronte alla vera Bellezza che solo la Natura
sa offrire, e fu duro distaccarsi e riprendere la via del
ritorno.
Ma ancora un’altra sorpresa ci attendeva … La gita prevedeva
il pranzo al sacco, pertanto avevamo consumato i panini
portati via da Napoli, variamente farciti dalle nostre
amorevoli genitrici, però il dispendio di energie e le
sollecitazioni dell’aria di mare soprattutto a noi alunni
avevamo fatto venire di nuovo appetito, perciò fu accolta con
entusiasmo la proposta di fermarci a comprare qualcosa da
mangiare al borgo prima di metterci in viaggio per Napoli … e
fu così che scoprimmo un’altra bontà del luogo che tutti
indistintamente vivamente apprezzammo: le “tielle” e i “caniscioni”,
preparazioni tipiche a forma di doppia pizza o ripiegati, con
pesci e verdure, grande abilità delle massaie gaetane.
Al rientro, sul pullman turistico che, monotonamente
dondolando, ci riportava a casa, riconfortata e stanca per
l’escursione, mi assopii un po’, ma nella mia mente
cominciarono a passare e ripassare le immagini dei luoghi che
avevo visto, e la realtà si confondeva con la fantasia, e mi
pareva che si animassero i personaggi della storia di Gaeta
che s’intrecciava con quella di Napoli, e, come in sogno,
vedevo il golfo di Napoli che si univa con quello di Gaeta e
diveniva un’unica lunga meravigliosa conca dove fiorivano
insieme limoni e aranci, e il turco con i suoi compagni
fuggiva dalla costa di Napoli per approdare a quella di Gaeta,
e Maria Sofia insieme a Francesco II sparava all’impazzata
dagli spalti della Rocca, e dal carcere fuggivano i militari e
si univano all’esercito napoletano, e vedevo anche il mio
Bruno che mi aspettava a Napoli, che, vestito da soldato
borbonico, animosamente si batteva con un garibaldino (che
strano, lui era un convinto pacifista!), e mio padre in alta
uniforme della Marina, e tutti, con carabine, fucili e
moschetti, sparavano, sparavano, sparavano … Uno scossone
improvviso mi strappò alle mie fantasticherie riportandomi
alla realtà: no, non era un colpo di cannone, era la frenata
brusca del pullman, eravamo arrivati a destinazione.
Sotto scuola, fra i tanti genitori in attesa, distinsi da
lontano la sagoma di mio padre impettito e fiero come un
generale (ché tale si credeva, solo per aver assolto agli
obblighi di leva su una nave, perciò si atteggiava in posa
marziale!). Guardava tra la folla, mi cercava con lo sguardo,
agitai la mano nella sua direzione, mi vide, pensai: “papà,
manda me a Gaeta"… “papà…mandami ancora a Gaeta”!
(racconto presente anche nell'antologia del Premio Dragut 2014)
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