Premio della giuria al concorso 2007 "I veli della luna"

http://www.akkuaria.com/ivelidellaluna/6maggio2007.htm

(pubblicato nell’antologia “Corrispondenze di sensi”,  Albus edizioni 2007,

Francesca Santucci

L'ultimo viaggio


 

Fuori la pioggia, incessante, prolungata, sottile, cadenzata, dentro la stanza la borsa da viaggio color malva già pronta (lei aspettava lui, per il consueto viaggio strappato…alla moglie, ai figli, alla famiglia, al lavoro prestigioso, per la solita fuga rassegnata all’inevitabile ritorno), la scrivania,  il foglio bianco, l’arma virile: una pistola.
Dentro la stanza la donna sola d’improvviso fu assalita dal bisogno di fuggire il palcoscenico della vita, di ripiegarsi silenziosa in se stessa, di accoccolarsi come la neonata fra le protettive braccia materne…intanto che attendeva il suo uomo per l’ennesimo viaggio/incontro fugace.
La solitudine dell’anima (non il silenzio della mente, ché vorticosi volteggiavano i pensieri) era interrotto soltanto dal suono armonico delle gocce sul selciato, dal pulsare più veloce del sangue nelle vene, dal battito più intenso del cuore nel petto, intanto che i pensieri inquieti passavano e ripassavano, accalcandosi a frotte e ronzandole nel cervello.
Era  turbata, eppure stranamente lucida.
La scrivania di legno scuro squillava invitante nel chiarore della stanza illuminata dalle lampade laterali che esaltavano il candore delle pareti.
La sagoma scura dell’arma squillava invitante sulla scrivania nella stanza mentre fuori pioveva un ticchettio di gocce simili a cadenze musicali.
L’occhio fu attratto per primo dall’invitante foglio bianco che attendeva solo d’essere imbrattato dalla mano umana.
Sarebbe stato così facile, nel silenzio della sera, scrivere l’estremo messaggio, congedarsi elegantemente con un sospiro, una lacrima, una rassicurante frase di circostanza sulle motivazioni che di lì a poco l’avrebbero condotta ad imboccare il tunnel finale (l’ultimo viaggio?), insieme sollevando gli altri da qualunque inutile avvilente senso di colpa, assolvendoli all’istante da ogni diretta o indiretta responsabilità, attribuendosi la piena capacità d’intendere e di volere, rivendicando in assoluta lucidità il gesto finale.
Già s’immaginava la scena, la vedeva nitida davanti ai suoi occhi: con mano ferma avrebbe portato l’arma alla tempia puntando virilmente, subito dopo lo sparo ci sarebbe stato l’immediato stupore dei vicini, lo sconcerto, l’attimo di esitazione, poi la consapevolezza della tragedia appena consumata. Allora sarebbero accorsi alla sua porta (intanto sarebbe arrivato anche lui) e avrebbero bussato…bussato…bussato…
Vana sarebbe stata l’attesa: nessuno avrebbe aperto dall’interno quella porta, sarebbe stato necessario abbatterla per entrare, ed una volta dentro avrebbero frugato tra le sue cose, tra le sue carte, nella sua vita, e contemplato compassionevoli la sua borsa da viaggio color malva, e poi il suo corpo roseo (ancora così bello, sì, anche nel disordine, nell’abbandono della morte) che sarebbe stato  impietosamente esposto agli sguardi altrui, gli stessi che aveva sempre accuratamente evitato.
Eppure un giorno avrebbe reso partecipe il mondo intero di ogni sua cosa, soprattutto dell’inatteso meraviglioso evento che aveva inondato di luce la sua vita: l’amore!
A tutto il mondo lei lo avrebbe gridato, all’universo intero, al sole e alla luna, al mare e al vento, agli alberi e ai fiori, ai ruscelli e ai fiumi che, gorgogliando, ripetendo l’eco, al mare ne avrebbero ricondotto il messaggio, a tutti avrebbe gridato che lo amava, ma lui le aveva detto:
-Taci, ché nessuno sappia, ché fra noi resti segreto. –
E così aveva taciuto.
Le era sembrato il principe azzurro uscito dal libro delle fiabe, l’eroico cavaliere d’altri tempi protetto dalle fate benevoli; gentili  erano apparsi i suoi modi, garbata la voce, dolce, ma grave, a tratti, forse, quasi lugubre (ma allora non se n’era avveduta). I suoi capelli, però, non erano biondi e lisci, ma neri e crespi, attorti in piccoli riccioli morbidi, setosi, scuri più dell’ala dei corvi; continuamente lui per domarli li lisciava, con mani larghe, dite nodose e lunghe, mani dalla presa sicura, mani virili. E gli occhi non erano celesti, ma cupi, ed ardenti come neri tizzoni arroventati al fuoco d’un caminetto.
No, non era il principe azzurro, usava, sì, parole mielate, ma non erano sincere, non erano oneste,  celavano inganni, ombre nascoste, incantamenti, fascini: lui non era il principe azzurro, era un mago, anzi, no, era il cavaliere nero.
Voleva averle tutte  le donne, e a tutte imponeva il silenzio, ma non con maniere forti, no, gli bastava sollevare un sopracciglio, ammiccare, abbozzare un sorriso, emettere un sussurro, perché quelle, acquiescenti, obbedissero.
Bambino mai cresciuto, incapace di staccarsi dal suo quieto porto di pace, procedeva malfermo nella vita, angustiato, tormentato, mai pago, mai sazio, una donna dopo l’altra, all’amante di turno ripeteva, identico copione, sempre le stesse frasi:
- Sei la mia luce, sei la mia stella, t’amo, t’amerò per sempre!-
E tutte gli credevano, e tutte, poi, angeli feriti a morte, si ritrovavano con le ali schiantate dal brutto volo che dal cielo le aveva riportate bruscamente in terra: era successo anche a lei.
Intanto fuori la pioggia, incessante, prolungata, sottile, cadenzata; dentro la stanza, la scrivania,  il foglio bianco, l’arma virile: una pistola.
Dentro la stanza la donna sola d’improvviso fu assalita dal bisogno di fuggire il palcoscenico della vita, di ripiegarsi silenziosa in se stessa, di accoccolarsi come  la neonata fra le protettive braccia materne.
D’istinto a lui, che pure lei aveva ingannato, giurandole l’amore per sempre, sempre, poi, riprendendolo, subito dopo aver consumato la notte d’amore, avrebbe augurato i peggiori mali del mondo, ma se bene ragionava a mente lucida, ebbene allora poteva soltanto augurargli una lunga vita in questo mondo d’inferno.
La donna sola nella stanza (la pistola ben stretta in una mano),  mentre fuori pioveva, pensava che non v’era Paradiso, non v’ era Purgatorio, non v’ era Limbo e non v’ era Inferno, esisteva soltanto questa vita, ed era qui, adesso, subito, che tutto si pagava, in dolore e rimpianto, rammarico e tormento, rimorso e pentimento….queste cose pensava…ed intanto che le pensava montavano rabbia e furore, risentimento ed odio.
Ma intanto che pensava bussarono  alla porta. Aprì. Fuori pioveva. Dinanzi le si parò una sagoma scura contro il buio della notte…lo riconobbe…era il cavaliere nero…da sola la mano le si armò…non una, non due, infinite volte sparò, finché non distinse, tra i neri capelli della sagoma scura a terra riversa, rivoli di colore rubino.
Quando, poi, la trascinarono via in manette (intanto che a sirene spiegate la bianca autoambulanza s’allontanava) pensò, femminilmente affranta, pur avendo virilmente ucciso, che quello era stato davvero, per entrambi, l’ultimo viaggio.

 

Francesca Santucci

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