Gustave
Moreau, La ballade, 1885.
Ero attratta dall’amore, ma non dagli uomini. Mi piaceva
l’amore sognato, ma degli uomini non mi fidavo, sapevo che
mentivano e ingannavano, ed erano violenti e crudeli, sciocchi
e bugiardi, aggressivi e prepotenti, perciò li evitavo, ma in
generale evitavo la compagnia dei miei simili. Incline alla
solitudine, preferivo appartarmi o avventurarmi in lunghe
passeggiate solitarie che, inevitabilmente, lasciati alle
spalle la rocca e il borgo, mi conducevano, dopo un largo
giro, sull’alta cresta rocciosa a strapiombo sul fiume che,
fra orride gole e boschi di abeti, snodava il suo corso: da
qui potevo perdermi a contemplare la linea del crinale dei
dieci monti color lavagna in lontananza e ammirare le azzurre
acque scintillanti, ora lente ora tumultuose, nelle quali ogni
mio male pareva sciogliersi.
E poi, quando il tramonto perdeva i suoi
rossi e suoi ori e quasi annottava (ma io non temevo le ombre)
inevitabilmente i miei passi mi conducevano in un luogo
seminascosto fra gli intrichi dei rovi e dei cespugli
selvatici, che nei più suscitava terrore, in me serenità: il
cimitero degli antichi cavalieri. Nelle tombe di pietra
grigia, sotto le bianche croci, giacevano i resti di quelli
che, in ere diverse, erano stati i dieci uomini più coraggiosi
e fieri del paese, che si erano coperti di gloria e di onore,
pronti a sfidare il mondo per difendere i loro sacri valori:
la patria, la fede, l’onore.
Ludwig, Richard, Zehn, Heinrich, Rotprando, Albrecht,
Liuprando, Hildebrando, Theodor, Karl, giacevano lì da secoli: ecco,
a uno di quei cavalieri senza macchia e senza paura, creature
superiori ed eroiche, a uno di loro sì, avrei potuto dare il
mio amore. Sostavo a lungo, distesa come un morto su uno di quei
sarcofagi di pietra, fantasticando a occhi aperti, talvolta
sognando macabre processioni delle loro larve che, per
prodigio, ricoprivano i loro scheletri di pelle e li facevano
tornare vivi, e ognuno m’invitava a danzare, e danzavamo fino
allo stordimento, finché non ritornavano in orride
sembianze….ma a me non facevano paura, perché erano, sì, ombre
inconsistenti, ma di uomini di valore, non come gli uomini in
carne ed ossa del mio tempo che non avevano nessuna dignità e
si lasciavano sopraffare dai prepotenti di turno o, a loro
volta, erano prepotenti! Anche quel giorno mi sarei avventurata nella mia passeggiata,
ma con un’emozione maggiore, perché non era un giorno come gli
altri, era il 10 marzo: l’ombra e la luce si sarebbero
fronteggiate in una leggendaria congiunzione astrale. Era il
giorno del sole nero, secondo l’antica credenza giorno di
sventura simboleggiante la rabbia degli dei. La luna, nel suo
passaggio, avrebbe oscurato il sole, sulla terra sarebbe
discesa una penombra come d’incipiente notte, o come un
preludio d’alba, e tutti gli animali del creato sarebbero
stati ingannati. Ma altri straordinari eventi quel giorno si
sarebbero verificati: oltre all’eclissi, l’equinozio di
primavera - in
cui la notte avrebbe avuto la stessa durata del giorno- che
avrebbe sancito l’ingresso della primavera, dunque l’arrivo
del rinnovamento e della fertilità, della forza e del calore,
e la superluna,
la luna si sarebbe trovata nel cielo al perigeo, alla minima
distanza dalla Terra, apparendo spettacolare nella sua
grandezza. Indossai la mia veste più bella, di velluto viola, sciolsi i
miei lunghi capelli che, generalmente, portavo raccolti in due
trecce, li lasciai liberi di fluire all’aria, e andai. Compii come sempre il mio largo giro, approdai sull’alta
roccia e contemplai la bellezza del cielo e della terra, dei
monti e del fiume, poi tornai sui miei passi, di nuovo verso
il borgo, e, prima d’inerpicarmi sul fianco della collina che,
attraverso il bosco, mi avrebbe condotta al cimitero dei miei
cavalieri, udii i rintocchi dell’orologio della torre: batteva
le 10,00. Era ancora presto per avventurarmi nel bosco, avrei
dovuto attendere il tramonto, quando il cielo sarebbe apparso
rosato come i fiori di papavero quando il sole ne ha
stemperato ma non del tutto smorzato i toni. D’improvviso l’aria divenne fredda, il cielo s’incupì: la
congiunzione astrale era iniziata. Sapevo che non avrei dovuto
guardare in direzione del sole e affrettai il passo a capo
chino, avanzando prima in un silenzio irreale, poi in un
concerto di striduli suoni. Disorientate e confuse
dall'improvvisa oscurità, confondendo il giorno con la notte,
il tramonto con l’alba, le creature del cielo e della terra
cominciarono a comportarsi in modo insolito:
gli uccelli smisero di cinguettare, le api tacquero il
ronzio e rientrarono negli alveari, le libellule si nascosero
sotto le foglie, le formiche ritornarono al nido, le
cavallette diurne fermarono i loro stridii,
le galline si precipitarono nei pollai, le pecore
cercarono un giaciglio per dormire, i gufi ripresero la loro
attività, i galli iniziarono a cantare, le rane a gracidare
forte, in una stridula cacofonia di voci diverse. Disorientata e confusa anch’io dall'improvvisa oscurità,
raggiunsi la mia meta preferita e mi sedetti un istante sotto
un salice collocato al centro delle tombe, chiusi gli occhi …e
mi parve di udire da sottoterra le voci dei dieci cavalieri
ripetere in coro un ossessivo ritornello:
Super Luna e
Sole nero mentre arriva primavera./ Super Luna e
Sole nero mentre arriva primavera, / Super Luna e
Sole nero mentre arriva primavera… D’un tratto sentii un tocco lieve, come un fremito di farfalla
sulla mia pelle, aprii gli occhi e nella semioscurità del
luogo vidi una mano che si allungava dall’alto a sfiorare la
mia. Bene non distinsi nel buio il volto del giovane a
cavallo, che non avevo sentito arrivare, ma chiara e gentile
udii la sua voce rassicurante invitarmi a seguirlo. Mi diceva: -“ Vieni, galoppa con me sul mio destriero, ti mostrerò luoghi
meravigliosi”. Balzai dietro di lui e veloci cominciammo a galoppare. Nella
mia accesa fantasia lo immaginavo uno dei miei eroici
cavalieri per chissà quale magia tornato dall’oltretomba per
farmi sua sposa: era lui l’amore superiore che attendevo!
Stretta contro la sua schiena ero felice, desiderai non
tornare mai più indietro, lo dissi ad alta voce.
Lui mi chiese: -“ Ne sei certa?”- Quasi gridai: - “Sì, non voglio mai più tornare indietro”! Ora era notte, l’orologio del campanile di una chiesa che, in
corsa, distrattamente incrociai con lo sguardo, batteva le
10,00 di sera, ma non faceva più freddo, e nel tiepido calore
dell’aria, fra i suoni della natura e i versi delle creature
dei boschi, al riparo sotto il cielo stellato e lo splendore
della luna che brillava chiara ed enorme in cielo, cavalcavamo
veloci.
Attraversammo monti, valli, pianure, costeggiammo fiumi e
laghi, mi mostrò luoghi ignoti, infine, sempre in folle
cavalcata, ritornammo al borgo e approdammo su un'alta cresta
rocciosa che dominava le orride gole del fiume. Allora fermò
il cavallo e si girò a guardarmi, così, finalmente, lo vidi
bene: illuminato dal chiarore della luna, il cavaliere garbato
e gentile non aveva un volto, sotto il cappello piumato il suo
teschio batteva e ribatteva le mandibole, e mi fissava con le
orbite vuote. Ero atterrita! Mi urlò: “Non ti fidavi
degli uomini veri, tu, volevi un uomo morto, ed io morto sono.
Ed anche tu morirai”.- Urlai di orrore mentre, allacciata a lui, spiccò il salto
dall’alto della roccia….e urlai…urlai…urlai… Mi ridestai di colpo, dieci volti preoccupati erano chini su
di me. Appartenevano a dei cacciatori che, mentre erano in
battuta, sentendomi gridare, erano accorsi in mio aiuto.
Quando erano giunti sembrava che il mio cuore si fosse
arrestato, ma poi mi avevano aiutata a rinvenire, ed ora non
c’era più nessun pericolo: era stata la forte emozione dello
spavento preso in sogno la causa del mio malore. Complice la
penombra e il freddo dell’eclissi mi ero addormentata nel
cimitero, sotto il salice, ed avevo avuto un incubo. Chiesi
quanto tempo avessi dormito, mi risposero che non lo sapevano,
ma che l’orologio della Torre ora batteva le 10,10. Avevo
dormito solo dieci minuti, ma m’era parsa un’eternità. Come il
sole anch’io ero rimasta per qualche tempo al buio,
ma ora ero ritornata alla vita. Mi guardai intorno e fu come
se vedessi ogni cosa per la prima volta. Tutto mi appariva in
rinnovata bellezza, il tepore del sole, i colori del cielo e
dei campi, i profumi dei fiori, il gorgogliare argentino del
torrente, i cinguettii allegri degli uccelli, e mi parve bello
anche il volto del più giovane dei miei soccorritori. Gli
chiesi: -”Come ti chiami?”- Lui mi rispose: -“Zehn”. - (proprio come uno dei miei cavalieri!) 1 -”E tu?” -“Violet”. - risposi. E lui con aria sognante: -“Come il fiore della primavera”. -
Mi sorrise e mi tese la mano per aiutarmi a rialzarmi.
L’eclissi era svanita. Tutto era tornato luminoso, il cielo
azzurro, i prati verdi, i fiori colorati…e guardando gli occhi
chiari e limpidi e lo sguardo sincero del mio salvatore
rimproverai a me stessa la mia accesa fantasia e il mio sdegno
per la realtà. Fiduciosa, posi la mia mano nella sua, ed anche dal mio cuore
svanì ogni oscura nube.
1) “Zehn” in tedesco significa
“dieci”.
Racconto da atmosfere vive e intense. Una bella storia di
rinascita, dove guardare in faccia la morte, anche se solo in
sogno, può riportare alla vita.
Massimo Tivoli
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