Milano, Anno Domini MDCL
Sono ormai alla
fine dei miei anni, lunga è stata la mia esistenza, e
tormentata, segnata da una colpevole passione d’amore
giovanile che per me fu Paradiso e Inferno, vissuta fra
sentimenti opposti, continue crisi di coscienza, intensi
rimorsi, avvilimento e prostrazione fisica, risucchiata in un
vortice di peccati e delitti che mi condussero alla perdizione
e, dopo aver infranto tutti i sacri voti, di obbedienza,
castità e umiltà, nel luogo dove ancora mi trovo- isolata,
“murata viva”, per il mondo come morta- ma nel quale, in
perfetta solitudine, sono riuscita a intraprendere un percorso
spirituale di espiazione e di pentimento,
che nelle penitenze et
confusione si ritrova Cristo.1
Avevo solo
trentatré anni quando fui condannata
alla carcerazione perpetua. Per
ordine del cardinale Borromeo fui trasferita nella casa delle
Convertite di Santa Valeria a Milano, istituzione religiosa
che accoglieva ex prostitute pentite che, "convertite",
abbracciavano la vita monastica.
Quanti momenti
difficili, soprattutto nei primi tempi, ho trascorso in
quest’angusta cella (murata, di un metro e ottanta per tre,
senza nessun contatto con l’esterno,
con una semplice porta e, come finestrella, soltanto
una feritoia per fare passare l’aria e consentire la consegna
dei viveri indispensabili), e non per lo spazio ristretto, né
per la perdita della mia libertà o del mio potere, ma per la
privazione dell’oggetto del mio desiderio, causa delle mie
colpe e della mia rovina. Soprattutto la notte era dura da
trascorrere! Nel buio, dove nemmeno un raggio di luna arrivava
a rischiarare, mi stringevo nelle ruvide lenzuola cercando
scampo alla nera solitudine che mi avvolgeva come un sudario,
ripensando ai fatti accaduti, il suo nome invocando, d’insano
desiderio smaniando, ma mi rispondeva solo il silenzio. Dopo
tutto ciò che avevo subito, il processo, la condanna, l’orrore
per le colpe di cui mi ero macchiata, l’animo lacerato dai
tormenti interiori che mai mi avevano abbandonata, sempre
divisa fra il mio credo e la mia colpevole passione, ancora il
mio corpo al pensiero di lui fremeva e sussultava, ma tutto
intorno taceva, solo talvolta batteva e ribatteva il vento,
insieme gemito e lamento: la pace non era arrivata nel mio
cuore. Poi gli anni sono trascorsi, ho espiato ben oltre il
dovuto le mie colpe, ma nessuno conosce il mio bruciante
segreto, e cioè il mio vero peccato: ora sono qui, per
confidarlo almeno a queste pagine bianche che mi accingo a
vergare, non senza la consapevolezza che il dolore sopito
dentro di me riesploderà, ed insieme il tormento.
Ecco, io confesso:
il mio vero peccato è stato l’aver amato fortemente il mio
peccato.
Ero così giovane,
allora, e nei miei sogni di fanciulla non v’era altro che il
desiderio di un amore, di una casa mia nella quale vivere con
il mio sposo, sempre accanto a me, ben presente, non come mio
padre che poco vidi nell’infanzia, dal quale blando affetto
ricevetti nelle sue sporadiche visite, sempre altrove
impegnato, in battaglia o negli affari, e che, dopo la mia
monacazione-forzata, per depredarmi di tutto - non rividi mai
più.
Nacqui nel ducato
di Milano, in un tempo di vessazioni, malcontenti e morbi.
Marianna fu il mio nome nel mondo secolare. Fui fortunata a
avere come padre un uomo ricco e influente, a nascere in una
famiglia nobile, dalla parte dei potenti non del popolo,
oppresso dal malgoverno con le più disparate tasse e dalla
malavita che imperversava così tanto da coinvolgere persino
religiosi che, non di rado, si trasformavano in briganti,
perciò molto attivi a reprimere erano sia le milizie spagnole
sia i Tribunali, ma, quando ancora non aveva nemmeno un anno,
mia madre fu falciata da un’epidemia di peste, autentico
flagello del mio tempo, lasciando eredi universali in parti
uguali me e il maggiore dei cinque figli nati dal suo
precedente matrimonio.
A mio padre,
superbo e avaro, interessato fortemente alle ricchezze e a
mantenerle, spettò l’usufrutto della dote, ma, per privarmi
dell'eredità, d’accordo con le sorelle del mio fratellastro,
avviò delle controversie legali. Infine, praticamente derubata
da tutti loro, fui affidata a una zia paterna che aveva il mio
stesso nome, la marchesa Marianna, donna prepotente, bigotta,
che, assistita da una balia, grazie al lascito disposto da mia
madre per la mia educazione, si prese cura di me.
Privata dell’amore
materno, con un padre mai presente e una zia tremenda, crebbi,
così, nella più totale assenza di affetti, educata
esclusivamente all’orgoglio della nostra illustre casata e a
una forma di religione impersonale e distaccata da Dio,
improntata più al rispetto di formalistiche pratiche che a un
autentico sentimento cristiano: fu probabilmente per questo
motivo che così fragile e precaria fu la mia coscienza
religiosa.
Quando avevo
tredici anni mia zia morì. Non ero destinata al convento e non
avevo la vocazione, ma mio padre, risposatosi con una
nobildonna spagnola e stabilitosi a Valencia, avendo io
rifiutato di unirmi in matrimonio con un principe più vecchio
di me di ben venticinque anni, mi costrinse a entrare nel
Monastero di Santa Margherita. Concluso il noviziato, presi i
voti, assumendo, dal nome della mia povera madre defunta,
quello di suor Virginia Maria: avevo soltanto sedici anni.
Il monastero era
profondamente malinconico. Tetro,
uggioso, con locali angusti e rustici, chiuso da ogni lato,
privo di un qualsiasi varco da dove poter guardare un monte o
solo l’orizzonte, protetto a destra dal folto giardino di
un’abitazione, con la porta d’ingresso fermata da un pesante
chiavistello. Pur monacata a forza, tuttavia la vita qui
inizialmente non mi fu tanto sgradita.
Finalmente potevo avere
compagne della mia età, stabilire legami di
amicizia, cose che mai prima mi erano stata concesse, vivendo
in totale isolamento nel mio austero Palazzo, circondata solo
da adulti, servitori e precettori freddamente ossequiosi, mai
affettuosi.
Nel monastero,
provenendo da una famiglia di nobile casata, godevo di una
posizione privilegiata. Risiedevo in un piccolo appartamento
tutto mio, separato dagli alloggi dalle altre consorelle, ero
assistita da quattro suore ausiliarie e da alcune dame di
compagnia, e avevo una conversa per le mansioni di servizio.
Essendo nobile, ben educata, istruita, affabile ma dal
contegno perfetto, grande era la considerazione in cui mi
tenevano le suore, che mi trattavano con rispetto e
gentilezza, ed anche dal circondario ero stimata. Col tempo,
però, aumentando il mio potere (tutti, allora, mi chiamavano
“la Signora”), acquisita consapevolezza del mio ruolo e del
mio valore, crebbero in me alterigia e arroganza, tanto da
arrivare a rimproverare aspramente e addirittura a malmenare
le consorelle non obbedienti. Suora e feudataria (ruolo che
esercitavo in assenza di mio padre), dal monastero mi occupavo
con competenza dell’amministrazione dei beni della mia
famiglia, ma ero anche autorizzata a curare la giustizia,
preoccupandomi delle necessità degli abitanti del luogo: ad
esempio, un anno accordai ai frati cappuccini il diritto di
pescare nel fiume Lambro dal giardino del loro convento.
Vivevo nell’ombra,
protetta dalle ali del Signore che, però sentivo estraneo,
lontana da un intimo colloquio con Lui, la mia religiosità non
era radicata nel mio animo, secondo quanto appreso si basava
più che altro sull’osservanza di formule e pratiche.
Come suora
svolgevo i compiti di sagrestana ed ero addetta alle
putte secolari, cioè ero maestra delle educande,
che erano solite riunirsi a passeggiare nel cortile sotto la
mia sorveglianza.
Nella casa
affiancata a un lato del monastero abitava un giovane di
famiglia nobile, bello, colto ma ozioso e spregiudicato, che
conduceva una vita scellerata con i suoi sgherri: Gian Paolo
era il suo nome. Costui aveva preso l’abitudine di sbirciare
le educande nel cortile da una finestra della sua abitazione.
A rivelarmi tutto fu un mio servitore: grande fu il mio
disappunto quando lo scoprii! Subito ammonii aspramente le
giovinette, minacciando severe punizioni se avessero osato
soltanto sollevare i loro sguardi verso quell’uomo. Tutte mi
ubbidirono, tranne una, che si lasciò andare alla tentazione,
a tal punto che cominciò ad amoreggiare nascostamente con quel
giovane scellerato.
Avevo, allora, ventidue anni. Non so
cosa mi accadde, non so perché. Come intrappolata in un
inarrestabile vortice dentro di me si agitavano rabbia,
furore, ardore, gelosia, voglia di essere al posto di quella
giovinetta. Completamente dimentica di essere consacrata
all’amore di Cristo e della Chiesa, cominciai a sognare
l’amore carnale … e meditai il modo di allontanare colei che
si frapponeva fra me e l’uomo che desideravo.
Convocai di corsa
i genitori della giovinetta, riferii il comportamento
scorretto della loro figlia, sottolineai che l’uomo era uno
scellerato di professione che si accompagnava ad altri
scellerati come lui, che con i suoi sgherri si prendeva gioco
delle leggi e della giustizia, così abili furono le mie
argomentazioni che raggiunsi il mio scopo: per evitare lo
scandalo si affrettarono a portar via la figlia dal monastero
e ad accasarla. Qualche giorno dopo il servitore che mi aveva
rivelato della tresca fu trovato assassinato con un colpo di
archibugio: subito si sospettò che a ucciderlo fosse stato
Gian Paolo per vendicare la spiata e l’allontanamento della
giovane.
Costretto a vivere
rintanato in casa per evitare vendette, ben presto lo
sciagurato, sfrontato e spavaldo, riprese a guardare nel
cortile del monastero, ma, stavolta, l’impertinente osò
allungare il suo sguardo verso di me, che, però, già ero
predisposta verso di lui. Tuttavia inizialmente, ancora
assennata e timorosa, non solo rifiutai i suoi approcci ma,
amministrando la giustizia, chiese il suo arresto. Fu
costretto a fuggire e a rimanere latitante per circa un anno,
ma poi ritornò, e riuscì a strappare il mio perdono senza
troppa fatica: in quell’anno di lontananza io non avevo fatto
altro che spingere lo sguardo ripetutamente verso il suo
giardino spiandone il ritorno.
Ora l’abito
monastico, che pure mi aveva inorgoglita indossare,
m’infastidiva, insopportabile mi era la tunica, e non vedevo
l’ora che arrivasse l’ora del ritiro per potermi strappare il
velo dalla testa che, da mesi, ormai in moto di ribellione
verso la mia condizione, non privavo più dei capelli, ma
lasciavo liberi di crescere (grave strappo alla regola, ma,
godendo di privilegi, nessuna delle consorelle, nemmeno la
superiora, osava rimproverarmi).
Fu nella primavera
del 1598 che, grazie alla complicità di due suore fidate,
cominciammo a scambiarci delle lettere, prima caste, poi più
ardenti, cui seguirono anche doni, ma fu solo l’anno seguente,
dopo la morte di mio padre, che cedetti alle insistenze e
accettai d’incontrarlo. Il bisogno di quell’amore che mi era
stato negato, che non avevo mai avuto, esplose di colpo, e fui
fra le braccia di quell’uomo, risposi al suo richiamo e
corrisposi. Per anni e anni, combattuta fra santità e purezza,
desiderio e ritrosia, passione e rimorso, soggiacqui al mio e
al suo ardore, nonostante al primo incontro, nel parlatorio,
di notte, presenti anche due mie consorelle complici, lui mi
avesse presa con la forza. Allora scappai via, di corsa,
sconvolta dalla sua violenza. Tornata nelle mie stanze mi
accorsi che scottavo, come in preda alla febbre. Su un
fazzoletto versai dell’acqua fresca, ripetutamente mi tamponai
le tempie, la fronte, le gote, le labbra … Ero colpevole, si
era abbattuta su di me una grande sciagura (ché tante altre ne
avrebbe causate … ma allora non potevo saperlo), ne ero
consapevole, eppure non potevo impedirmi di pensare a lui, a
quel corpo che solo poco prima aveva stretto il mio, anche se
con violenza. Avevo scoperto la pelle, desideravo ancora il
suo caldo contatto … e, di fronte alle dichiarazioni di
pentimento del mio amante, nonostante i tormenti (dubbi, sensi
di colpa, timori) che mai mi abbandonarono, dopo aver tentato
di scacciare dal mio corpo l’insana passione con preghiere,
penitenze corporali, pellegrinaggi, ricorrendo persino a
superstiziose pratiche magiche popolari, arrivando anche a un
passo dal suicidio (volevo gettarmi nel pozzo del chiostro)
perdonai e tornai ad incontrarlo.
Frequenti
cominciarono gli incontri d’amore, che non tardarono a dare i
loro frutti: partorii prima un maschio, nato morto, e poi una
bambina, che suo padre riconobbe e portò a vivere con sé.
Infine fummo scoperti, troppi movimenti sospetti di giorno e
di notte nel monastero, e forse il mio amante ed io ci
sentivamo troppo sicuri, sfrontato lui, incosciente io, certa
che, per la mia condizione privilegiata, nessuno avrebbe osato
accusarmi. E invece a un certo punto la gente del circondario,
che prima solo sussurrava, cominciò a parlare, a voce sempre
più alta, finché non arrivò a informare la Superiora del
monastero dei colpevoli convegni, ma le chiacchiere furono
messe a tacere con il pretesto che noi due c’incontravamo
perché lui si stava preparando spiritualmente a divenire frate
cappuccino. Poi la situazione precipitò. Le chiacchiere
ripresero con maggior forza, bisognava eliminare
definitivamente chi parlava di noi, si arrivò ai delitti,
attuati dal mio amante, a me non ignoti, che, infine, spinsero
il governatore di Milano a prendere provvedimenti contro di
lui, e il cardinale Borromeo ad avviare un’indagine che portò
al mio arresto: era il 15 novembre 1607.
Tentai di oppormi,
ero come impazzita, fuori di me arrivai a brandire una lunga
spada, ma fui presa e trasferita sotto scorta armata a Milano,
nel monastero delle benedettine di Sant'Ulderico.Ormai
disonorata e diffamata, abbandonata dalla mia famiglia, subii
un processo ecclesiastico. Inizialmente cercai di difendermi
dicendo di essere stata vittima di un maleficio, dal quale
avevo cercato di liberarmi, poi rivelai la fascinazione che
l’uomo aveva esercitato su di me e che avevo tentato di
espiare con digiuni,
discipline e intensificando le orazioni, infine,
sotto tortura, fui costretta ad ammettere
tutte le mie colpe, anche
quelle che non avevo direttamente commesso, e fui
condannata alla
carcerazione perpetua.
Condannato dal
Senato alla confisca dei beni e alla pena di morte in
contumacia, lui riuscì a evadere dal carcere ma, ospitato nel
palazzo milanese di nobili che credeva amici, fu da loro
barbaramente ucciso a bastonate, nei sotterranei, per
incassare la taglia offerta per la sua cattura.
Dopo quasi
quattordici anni trascorsi in questa celletta, infine un
giorno ricevetti la visita del cardinale Borromeo, che mi
concesse il perdono, additandomi, poi, sempre come esempio di
peccatrice pentita, redenta dalla grazia divina. Ero libera,
di nuovo suora, ma … non so… se per orgoglio o follia, o
bisogno di espiare ancora più a fondo le mie colpe, chiesi e
ottenni di restare con le Convertite di Santa Valeria. E sono
ancora qui, e anche se lontano è quel periodo nefasto della
mia giovinezza, quando, talvolta, contro la mia volontà, la
mente ritorna a quei tristi accadimenti, non posso impedirmi
di pensare che un tempo, nel buio della mia vita, improvviso e
fugace come il raggio di sole che riesce a scavarsi un varco
dietro la nuvola che lo offusca, brillò l’amore di un uomo.
Allora, anche se solo per un istante, dimentico afflizione e
contrizione, e torno ad amare il mio peccato: colui che, la
prima volta che lo vidi dalla mia finestra, mi fece battere il
cuore e, con stupore e meraviglia, esclamare: si potria mai
vedere la più bella cosa!2
1) Vita e
processo di suor Virginia Maria de Leyva, Monaca di Monza,
curatori Giuseppe Farinelli-Ermanno Paccagnini Garzanti,
Milano 1985.
2) Op. cit.