Prima del taglio di diversi alberi, lo smantellamento del pollaio con le
galline, e la distruzione progressiva dell’aspetto “rurale” della vecchia
segheria, attuato nei fatidici primi anni sessanta del ventesimo secolo,
quel posto aveva un aspetto ed un fascino particolare, e il ricordo di
quegli anni lontani lo ingigantisce e lo carica di suggestioni ed
atmosfere. Il pioppo maestoso della segheria, unico superstite al taglio,
l’ho compreso solo da poco tempo, segnava il corso del fiume che un tempo
attraversava quei luoghi. Il maestoso albero apparteneva al fiume e
resisteva in quei luoghi stravolti da un insensato sviluppo a ricordarci
delle acque che, profonde, continuavano ad alimentarlo.
Il Sebeto, l’antico fiume di Napoli offeso e ricacciato nelle profondità,
coperto e oppresso dall’ asfalto e cemento, continuava a scorrere,
cercando il mare, nonostante tutto. In primavera, nel periodo della
fioritura, per un paio di settimane, il grande albero liberava dei bianchi
piumini che volavano per le strade ricoprendo i tetti delle auto e
posandosi sui capelli dei passanti, spesso inconsapevoli spettatori di
quel fenomeno. Tutti lo credevano estinto, ma lui, pur se intrappolato, viveva, e,
ostinato, continuava sotterraneo a cercare di raggiungere il mare,
nonostante tutto. In una notte d’inizio autunno della seconda metà del secolo scorso, tuoni,
fulmini e un vento straordinariamente forte riempirono delle loro
terribili voci e luci la città e le sue periferie, ancora calde d’estate.
L’alba sembrava non decidersi a spuntare, e così al mattino era ancora
buio. Soltanto verso mezzogiorno la tempesta cominciò a chetarsi,
perdurando, però, una pioggia sottile ma fittissima. Superfluo dire che
chi poté evitare di uscire rimase ben volentieri in casa, in attesa che il
peggio passasse. I più rimasero bloccati nelle auto, imprigionati nel
traffico o rintanati sotto portoni o in negozi. Non sto a parlarvi della
felicità dei bambini che, costretti a casa senza poter andare a scuola,
guardavano dalle finestre lo spettacolo dell’acqua e del vento. Al tramonto, la pioggia e il vento si erano quasi del tutto calmati e il
sole era rosso e brillante come nelle belle sere d’estate. Col calare
della notte nessuno fece caso all’acqua che continuava a scorrere tra i
palazzi, e così, il mattino successivo, gli abitanti del quartiere videro,
stupiti ed increduli, la strada principale trasformata nel letto di un
fiume, che, nonostante il ritorno del bel tempo, non cessava di scorrere e
che, anzi, sembrava acquistare sempre maggior vigore. Gli allagamenti in quella zona erano frequenti, specialmente alle prime
piogge autunnali o dopo i temporali di metà agosto quando “si rompevano i
tempi”. I tombini si otturavano per il fango e i detriti, e, quando
qualche strada si allagava, i bambini giocavano con zattere improvvisate o
con qualche vecchio copertone di camion, poi nel giro di due o tre giorni
tutto tornava alla normalità. Questa volta però, sebbene si fosse solo al
secondo giorno, era diverso. C’era qualcosa di strano e d’insolito,
qualcosa che non si era mai visto prima: l’acqua che scorreva era viva,
non più pioggia caduta dal cielo, ma torrente, ruscello, fiume d’acque
limpide e impetuose, felice di correre libero verso il mare. L’impressione
era quella di una forza tenuta costretta e nascosta per troppo tempo e
che, finalmente, godeva della riacquistata libertà. Sebbene impetuosa e
abbondante, l’acqua non arrecò grossi danni alle persone e alle
abitazioni, si limitò, però, a sconvolgere la normale vita della strada,
del quartiere e della città. Il livello del torrente non superava che di
pochi centimetri il bordo del marciapiede, motivo per il quale, se la
strada era tutta invasa dall’acqua che arrivava alle ginocchia di un bimbo
di tre o quattro anni, i marciapiedi potevano essere comodamente percorsi
con degli stivali o a piedi nudi. Il secondo giorno dopo il temporale, il
primo giorno del fiume, trascorse, così, tra lo stupore generale, la
preoccupazione dei grandi e la gioia dei piccoli, dei folli e dei poeti.
Timidamente uomini e donne, giovani e vecchi, a piedi nudi attraversavano
la strada per raggiungere le altre persone radunate e commentare il
fenomeno. L’acqua continuò a correre limpida e fresca per altri quattro giorni, poi
sparì. Non si seppe mai se fu per gli interventi degli operai e degli
ingegneri, dei tecnici e dei geologi, o se, invece, furono le divinità del
fiume che avevano provocato l’evento e poi deciso di rientrare nelle loro
dimore sotterranee insieme alle acque. Una tristezza immensa riempì le
strade rimaste asciutte, un vuoto incolmabile ed un’imprevedibile angoscia
s’impadronì degli abitanti per quelle che, per una settimana, erano state
le sponde di quel fiume inatteso e misterioso. I bambini, al loro
risveglio, invece dell’acqua dei loro giochi e delle loro fantasie
trovarono fango e detriti, perciò piansero e corsero disperati tra le
braccia delle mamme. Il sovrappasso allestito dai pompieri e il ponticello
costruito dai ragazzi dei due marciapiedi opposti vennero rimossi
rapidamente per permettere ai mezzi dei vigili del fuoco di rimuovere i
detriti e poter consentire alle automobili di riprendere a circolare
nuovamente.
Tutto ritornò come prima, la vita tornò ad essere quella di sempre, ma per
qualche giorno il Sebeto era tornato a rivedere la luce e a regalare un
po’ di magia a chi lo aveva dimenticato.