Sin da bambina decisi che non sarei diventata un angelo del
focolare come mia madre, che divideva tutto il suo tempo fra
casa, marito e figli, o come mia nonna, dall’identico destino,
che ritrovava un guizzo di vitalità solo quando cantava a noi
nipotini l’antica filastrocca:
Cicerenella teneva nu gallo
tutta la notte nce jeva a cavallo,
essa nce jeva pò senza la sella
chisto è lo gallo de Cicerenella.
Ascoltavo attenta quella storiella e, già di accesa fantasia,
trasformavo quel gallo in cavallo, in groppa al quale
cavalcavo in libertà.
No, non sarei stata schiava della casa,
del marito, dei figli, avrei lavorato. Il lavoro mi avrebbe
donato la libertà dagli obblighi domestici: così cominciai a
pensare da adolescente, scandalizzando mia madre che, ai miei
discorsi, profondamente si rattristava.
Anni dopo compresi che poteva essere una schiavitù anche il
lavoro all’esterno, in un ambiente non di rado caratterizzato
da invidie, gelosie, rivalità, prepotenze e fatue ambizioni
dei colleghi. Insoddisfatta, cominciai a desiderare la vita in
casa, estranea e indifferente, ormai, a quella fuori di essa.
Rimpiansi il tempo in cui mia madre con le sue abili mani
impastava il pane, preparava le conserve, il ragù domenicale e
ricamava, e le premure che riservava a noi figli e a nostro
padre in quella che ora mi appariva come il castello della mia
infanzia, nel quale mia nonna c’intratteneva con antiche
filastrocche dialettali: quanto più bella la femminile
dimensione domestica guidata dal loro amore, scandita dai riti
e non dai ritmi!
Nascondendo agli altri il mio mondo interiore, cominciai a
vivere in due dimensioni dissociate e parallele, quella della
realtà e quella della fantasia: fu allora che trovai scampo
alla mia infelicità cominciando a scrivere.
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