Francesca Santucci
prefazione al libro
Penziere mieje
Kimerik, giugno 2005
Una
soffusa, ma evidente, malinconia avvolge l’intera raccolta poetica,
“Penziere mieje”, di Vittorio Aprea, autenticamente ispirata dall’amore per
Napoli (la città natale) e dalla nostalgia di persone, luoghi, momenti,
situazioni che non sono più, ma pure vive sono nella sua mente e,
soprattutto, nel suo cuore; eppure, nonostante rivolga spesso, in scoramento
e rimpianto, lo sguardo al passato, agli affetti perduti, al tempo
trascorso, ai riti scomparsi (So’ tiempe luntane…Songh’ore sunate!/ So’
juorne passate…So’ ammore lassate!)1 la sua vena
poetica si arricchisce di una sottile ironia, peculiarità del popolo
partenopeo, al quale orgogliosamente rivendica l’appartenenza, che ha
sempre così condito le miserie del passato, e continua a farlo nel presente.
Ed infatti
la lettura di questi versi non può prescindere dalla sua napoletanità;
servendosi del registro linguistico a lui più congeniale, il vernacolo (e
come mai potrebbero esprimersi al meglio i sentimenti, se non attraverso
il dialetto, la lingua madre per eccellenza, quella che è, insieme al latte
della genitrice, il primo dolce umano nutrimento?), accorda sapientemente,
come in una dolce sinfonia, le due anime che, in magica alchimia,
atavicamente convivono nei partenopei: quella drammatica, che indulge al
tragico, e quella scanzonata, prontamente disposta a sorridere anche
dell’evento più disastroso, arrivando al punto di prefigurare e canzonare
pure se stesso da morto (Quanno mor’io, me pare già ‘e vede’/chello ca
‘sta famiglia me cumbina:/tutti pronti già dint’ ‘a cucina/ca s’appriparano
‘e meglie cunzumè…E io stongo stiso, ‘int’a ‘na stanza, solo,/’mmiez’a
quatto cannele cunzumate…2 Pur
concedendo molto spazio al sentimento tragico, laddove indugia, in
particolare felicità espressiva, sui grandi temi meditativi, come gli
inevitabili lutti (Sulo!M’avoto attorno e nun veco a nisciuno, “Solo!),3
la solitudine (A tristezza ‘e ll’autunno è turnata)4, il senso del Tempo (Mò ‘stu rilorgio va annanze lentamente,/ arranca a
stiente/ e pe’ fermarse è buono ogne mumento!) 5 riesce, tuttavia,
ad abbandonarsi alla leggerezza, strappando ai lettori non pochi sorrisi
divertiti (Famme nu zabaglione ‘e spiccio ‘e spiccio,/ cucinarne ‘na
custata e nu saciccio!.../ Tu si’ cuntenta, pecche ‘o ssaje, stasera,/ s’appripara
‘a nuttata ca tu spiere!).6 Gli affetti
familiari, la donna (la madre, la sorella, la moglie, la figlia), l’amore
filiale e l’amore carnale, il Tempo, la morte che tutto ghermisce e
sottrae, Napoli, con i suoi colori, i profumi, gli odori, la Poesia, tanto
spesso invocata, balsamo così consolatore dei suoi personali affanni da
riuscire a tramutare il fiele in miele, ogni amarezza in dolcezza (‘o fféle se fa méle, l’amaro se fa doce):7 sono questi i temi
meditativi centrali entro cui spazia la riflessione poetica di Vittorio Aprea che, autorevolmente, s’inserisce nel solco dei grandi della
letteratura napoletana, dei quali ben ha appreso la lezione. È il
racconto di una vita che, in ricchezza di sentimenti, immagini e musicalità
(prepotente,in lui, infatti, l’urgenza di esprimersi anche nella canzone,
appartenendo da sempre ai napoletani questa forma espressiva) si dispiega
fra poesia, poesia-racconto e soluzione musicale, narrando se stesso, fra
ansie e desideri, illusioni e sogni infranti, distacchi e speranze che
ritornano, attraverso l’universo napoletano, che è poi sempre un modo per
parlare di sé. È,
infatti, Napoli (l’ammaliante città sulla quale così si espresse Goethe:
"Da quanto si dica, si narri, o si dipinga, Napoli supera tutto: la riva, la
baia, il golfo, il Vesuvio, la città, le vicine campagne, i castelli, le
passeggiate…Io scuso tutti coloro ai quali la vista di Napoli fa perdere i
sensi!") il vero cuore della raccolta, esplorata dall’interno, con
autentica partecipazione, ispirandosi ai personaggi, alle situazioni, ai
mestieri, ai luoghi (storici, come “Portacapuana", “Vommero”, “Salita SS.
Apostoli”), alle voci, persino al grido, voce antica e triste,
del rigattiere, ‘o sapunariello (Sapunaro…rrobba vecchia),8
del “piccolo mondo antico” basato su saldi valori, come la famiglia (la
madre, il padre, i fratelli, la sorella, il nonno, la moglie, i figli, gli
amici), la fede, sui modi del sentire, sulle tradizioni e sui riti, Natale (cu’
‘a famiglia aunita attorno attorno, e santo overo era chillu juorno),9
Pasqua (Dummeneca d’ ‘e Palme, core ‘nfesta, prufumo ‘e rose),
10alle varie forme d’essere della città d’un tempo, che ancora oggi è possibile ritrovare,
probabilmente nell’interezza solo in taluni suoi quartieri caratteristici.
Leggere questi componimenti è come assistere ad una sacra rappresentazione
della vita, scandita dalle varie sue stagioni, dove ci sono il sogno e l’
illusione, l’amarezza e il dolore, il rimpianto e la nostalgia, ma pure il
sorriso ed il riso, laddove prevale la simpatica vena irriverente del poeta.
Ben presente nella raccolta, che esordisce, all’insegna del rimpianto, con
il malinconico componimento “Nostalgia” (…Chiagno Napule perduta, "piango Napoli perduta”), e chiude, in proiezione verso il futuro e senso di
continuità (pecché ‘a rota addà gira’….”perché la ruota deve girare”),
con “A mamma Licia” (dedicato alla figlia in dolce attesa), l’antinomia fra
passato e presente, a vantaggio del passato, laddove il poeta guarda
all’universo napoletano del (suo) passato come luogo di affetti,
sentimenti, tradizioni, riti autentici irrimediabilmente perduti (Vurrìa
turna’ all’epoca felice).11
Nostalgici sfilano i luoghi cari all’autore, entro cui s’incastonano le sue
creature, non astratte, ma, in trasfigurazione poetica del dato reale,
ritratte, come in un bel quadro affollato del Migliaro, con coloritura
veristica, dunque ben legati alla napoletanità: la donna che stende i panni
fuori al caratteristico basso (For’’o vascio Carulina spanne e spreme
stammatina!,” ’O vico”), e poi il calzolaio che mette a
bagno le mezze suole ( … ‘E rimpetto don Nicola mette a bagno ‘e mmeze
sole, ’O vico”), il vinaio (Mast’Errico ‘o canteniere già surzeja a
nu bicchiere…’O vico”), il nonno sprofondato in poltrona, con la
pipa fra le labbra e la papalina in testa (sprufunnato ‘int’a ‘na
poltrona, cu’ ‘a pippa mmocca e ‘na scazzetta ‘ncapa, “Nononno”),
il guappo con la coppola di traverso, il sigaro fra i denti ed un
abito multicolore quadrettato (cu’ ‘a cuppulella a sgherra e cu’ ‘o
sicario piazzato mmiez’ ‘e diente, cu’ nu vestito a quadri ‘e ciento tinte,
“Torna, guappo!”). Forte anche
la varia presenza della donna, come madre (‘na ‘nnammurata vera, tutt’ammore,
“A mamma”), figura centrale nella letteratura dialettale napoletana;
come fascinatrice, che ammalia e affattura (sciore ‘nzuccarato),12
principio ‘e ‘na rosa maggese…alba rusata e curtese),
13 fata ( “2 dicembre 1989”), ferza ‘e celeste dint’a nu cielo niro e
senza sole… ‘a speranza ‘e ‘na vita!,14 davanti alla quale
l’uomo non può che soccombere irretito e vivere l’ amore con passione, qui
esprimendosi il poeta attraverso un linguaggio fortemente sensuale (l’addore
senzuso ‘e ‘sta carne rusata),15 ‘O ffuoco me brucia
dint’ ‘e vvene… Penzo ‘o ffuoco d’ ‘e vase ‘e chesta vocca!/ Penzo ‘o
contatto tennero ‘e ‘sti mmane! /Penzo ‘e me sprufunna’ nfino a dimane/ ‘mmiez’a ‘sti ccarne rosa… vocca a vocca!16
L’attaccamento ai valori tradizionali, di un mondo probabilmente migliore
di adesso, di un’ età felice irrimediabilmente conclusa, si riflette anche
nel vocabolario del poeta, nei termini talvolta poco conosciuti, perché
ormai in disuso, che ulteriormente sanciscono la frattura col tempo passato,
ma pure testimoniano la ricchezza lessicale del dialetto partenopeo che
può, a buon diritto, vantare la dignità di lingua, espressione vivace di una
letteratura locale che è patrimonio prezioso dell’intera nostra letteratura.
Scrigno prezioso di
emozioni e riflessioni, felice testimonianza di questa vivacità
è, appunto, la silloge di Vittorio Aprea, che appassiona e convince, perché ovunque si
sente palpitare la sua sincera ispirazione di poeta, nel dolore e nello
sconforto, nella commozione e nel sorriso, ma pure perché, attraverso i suoi
versi, rivivono lo spirito e l’atmosfera di una Napoli tipica e verace che è
scomparsa o va scomparendo, ma che, nel cuore di chi, nel bene e nel male,
sempre la ama, continua a vivere, anche se in sospensione fra sogno e
realtà.
Francesca
Santucci
1) Sono tempi
lontani…Sono ore suonate!/ Sono giorni trascorsi…Sono amori finiti,
“Campana”.
2) Quando io morirò, mi
sembra già di vedere /cosa combinerà questa famiglia:/ tutti pronti già in
cucina a prepararsi le pietanze migliori…ed io sono disteso, solo in una
stanza, fra quattro candele consumate, “ ‘A vita”.
3) Mi guardo intorno e
non vedo nessuno. Solo!, “Sulo”.
4) La tristezza
dell’autunno è ritornata, “Foglia d’autunno”.
5) Ora questo orologio
lentamente avanza, / arranca a fatica/ e può fermarsi in qualunque momento,”
‘O rilorgio d’ ‘a vita”.
6) Preparami velocemente
uno zabaglione/ cucinami una costata ed una salsiccia!...Tu sei contenta,
perché lo sai che stasera/ si prepara la nottata che speri!,
“Premonizione”.
7) Il fiele diventa
miele, l’amaro diventa dolce, “Poesia”.
8) Rigattiere…roba
vecchia…, “Sapunariello”.
9) Con la famiglia
riunita intorno intorno, e santo davvero era quel giorno, “Natale
triste”.
10) Domenica delle Palme,
cuore in festa, profumo di rose, “Domenica delle Palme”.
11) Vorrei ritornare
all’epoca felice, “Vurria”.
12) Fiore dolce come lo
zucchero, “Viaggianne”.
13) Principio di rosa
maggese…alba rosata e cortese, “Primmamatina”.
14) Lembo d’azzurro in
un cielo scuro e senza sole, “Chi si’?”.
15) Il profumo sensuale di questa carne rosata, “Mmiez’’o
ggrano”.
16) Il fuoco m’arde nelle vene… Penso al fuoco dei baci di
questa bocca! /Penso al contatto tenero di queste mani! /Penso di
sprofondare fino a domani fra queste carni rosa…bocca a bocca!,
“Desiderio”.
Francesca Santucci
(giugno, 2005)
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