Francesca Santucci
Una tragedia dell'antichità: Pompei
estratto
dal libro
Francesca Santucci,
Messaggi dall'antichità,
edizioni Kimerik settembre 2005
Ecco il Vesuvio; ove beate un giorno
ombre spandea la pampinosa vite;
ecco di Bacco il placido soggiorno,
ecco le balze al Nume sì gradite.
Di Venere la sede ed il diletto
albergo è questo de’ scherzosi Amori;
fu questo il luogo un dì cotanto accetto
de’ Satiri giocondo a i lieti cori.
Tutto fu preda delle fiamme, e tutto
al suol consunto e incenerito giacque;
avvolge il colle spaventevol lutto:
a’ Numi istessi un tanto error dispiacque.1
M. Valerio Marziale
Sottratti repentinamente alla vita, e rimasti occultati per moltissimi
secoli, pochi luoghi al mondo sono in grado di esercitare lo stesso
fascino e lo stesso interesse dei siti archeologici del golfo di Napoli,
come Pompei, Ercolano, Stabia.
Il 24 agosto del 79 d.C. all’improvviso il Vesuvio si risvegliò; la sua
furia si abbatté sulle città poste alle falde del vulcano seppellendole
per sempre; gli abitanti di Stabia ed Ercolano riuscirono a salvarsi,
quelli di Pompei morirono quasi tutti.
Fino ad allora Pompei, di cultura mista, osca, etrusca e greca, presa dai
Sanniti e poi conquistata dai Romani, era stata la cittadina più
importante dell'area vesuviana, florida, vivace, con 30-40.000 abitanti,
un attivo centro commerciale ed industriale il cui buon tenore di vita è
testimoniato dalle ricche dimore private e dagli importanti edifici
pubblici sopravvissuti.
Come altri luoghi della regione, il precedente terremoto, avvenuto tra il
62 e il 63 d. C., aveva colpito anche Pompei, ma i danni causati, non
gravi, erano stati subito riparati e la cittadina si era ben ripresa.
Nel 79 d. C., invece, il Vesuvio verdeggiante di boschi, che sembrava
alquanto tranquillo dopo l’ultimo sisma, nonostante le scosse
abituali frequenti in quel tempo, riprese violentemente la sua attività
eruttando, in pochissimo tempo, una nube di cenere, pietre e lapilli che,
spinta dal vento, si allargò a forma di fungo lasciando
poi ricadere il materiale tra bagliori di fuoco e boati spaventosi che
oscurarono il cielo, com’è stato così ben tramandato dallo scrittore
latino Plinio il Giovane, che offrì una prima descrizione del catastrofico
evento e della gloriosa fine dello zio omonimo, il naturalista
Plinio il Vecchio, vittima del suo amore per la scienza, in una lettera
indirizzata a Tacito, che aveva chiesto un resoconto documentato e preciso
sulla morte dello scienziato e sulla terrificante eruzione per darne
notizie nelle sue Historiae.
Nella lunga lettera scritta da Plinio, dopo la premessa iniziale, c’è
la descrizione della furia devastatrice del Vesuvio e l’accenno ai primi
interventi dello zio per salvare gli abitanti del litorale più minacciati,
poi viene raccontato il viaggio dello scienziato alla villa di un certo
Pomponiano, che abitava presso Stabia, centro pure colpito dal sisma, dove
restò bloccato, impedito a ripartire a causa del mare avverso, conservando
sempre lucidità, coraggio e dignità; infine ne viene descritta la morte
sul lido, dovuta ad asfissia per aver respirato esalazioni di zolfo.
Plinio il vecchio, il massimo erudito dell’epoca flavia, autore di una
grande enciclopedia del sapere, la Naturalis historiae, solerte
funzionario imperiale, al tempo dell’eruzione ricopriva la carica di
comandante della flotta e si trovava nel porto militare di Miseno, a sud
di Cuma.
Appena iniziato il tragico evento si era premurato subito di soccorrere
con quattro navi coloro che si erano rifugiati sulla spiaggia e di
portare in salvo amici e conoscenti e poi, per studiare più da
vicino quel fenomeno straordinario, era sceso sulla spiaggia, ma fatale
gli fu l’ardore del sapere.
Per osservare l’eruzione vulcanica si attardò troppo e fu sorpreso
da una nube di cenere e lapilli che si abbatté con violenza proprio dove
lui si trovava. Investito dal materiale eruttivo, Plinio morì soffocato
dalle esalazioni solforose.
Così nel racconto del nipote la ricostruzione degli ultimi drammatici
istanti:
“Altrove era già giorno, là invece era una notte più nera e
più fitta di qualsiasi notte, quantunque fosse mitigata da numerose
fiaccole e da luci di varia provenienza. Si trovò conveniente di recarsi
sulla spiaggia ed osservare da vicino se fosse già possibile tentare il
viaggio per mare; ma esso perdurava ancora sconvolto e intransitabile.
Colà, sdraiato su di un panno steso per terra, chiese a due riprese
dell’acqua fresca e ne bevve. Poi delle fiamme ed un odore di zolfo che
preannunciava le fiamme spingono gli altri in fuga e lo ridestano.
Sorreggendosi su due semplici schiavi riuscì a rimettersi in piedi, ma
subito stramazzò: da quanto io possa arguire, l’atmosfera troppo pregna di
ceneri gli soffocò la respirazione e gli otturò la gola, che era per
costituzione malaticcia, gonfia e spesso infiammata. Quando riapparve la
luce del sole (era il terzo giorno da quello che aveva visto per ultimo)
il suo cadavere fu trovato intatto, illeso e rivestito degli stessi abiti
che aveva indossati: la maniera con cui il corpo si presentava
faceva più pensare ad uno che dormisse che non ad un morto.”2
L’eruzione durò circa tre giorni e a Pompei (dove in quel giorno d’agosto
ferveva l’attività elettorale, dovendo essere scelti i magistrati locali)
la vita si fermò per sempre.
La maggior parte degli abitanti, ai primi sintomi del cataclisma, aveva
abbandonato la città cercando scampo via mare, e fu proprio nel tentativo
di correre verso il porto che quasi tutti furono sorpresi dalla morte,
soffocati dai gas; altri morirono nel sonno, ben pochi riuscirono a
salvarsi.
In breve tutta Pompei fu ricoperta da una coltre di cenere alta fino a 20
metri, resa poi solida e dura da una pioggia che fece blocco unico con la
città, su cui, col tempo, crebbe una rigogliosa vegetazione che la celò al
resto del mondo fino al XVI secolo, quando ne riemersero le tracce.
Fu nel 1738, in piena epoca illuminista, che, su richiesta della regina di
Napoli, Maria Amalia Cristina, moglie del re Carlo di Borbone, iniziarono
gli scavi che si sarebbero protratti nei secoli successivi, che ancora
durano ai giorni nostri, e che riportarono alla luce Pompei e le altre
città scomparse.
Dopo l’ultima eruzione del Vesuvio erano già riemerse alcune statue e
sculture, allora la regina, amante dell’arte, suggerì di riprendere gli
scavi a Pompei e ad Ercolano dal punto in cui li aveva interrotti il
generale d’Elboeuf, che se n’era precedentemente occupato.
Si ricominciò, così, a scavare nella bocca di un pozzo già esplorato dal
generale e furono ritrovati tre frammenti di cavalli di bronzo, altre
statue e delle colonne dipinte; da un’iscrizione si comprese che si era
giunti al centro della scena di un teatro e che si era nella città di
Herculaneum, Ercolano. In seguito gli scavi si spostarono su un’altra
zona, dove la tradizione diceva che un tempo si trovasse la città di
Pompei, sepolta dall’eruzione nello stesso giorno in cui era stata sepolta
la città di “Ercole”.
Gli scavi iniziarono in questa zona nel 1748 e procedettero in modo non
sistematico però, pian piano, col tempo, miracolosamente riemersero
dall’oblio anche i tre quinti dell’area della città di Pompei nell’esatta
situazione in cui si trovava fino al momento della sciagura, attiva e
piena di vita.
Riaffiorò un involucro pietrificato sotto cui furono rinvenuti intatti le
strade, le case, le botteghe, banchi delle taverne con le stoviglie, i
locali in cui si preparava il pane, con le macine del grano, i forni con
le pagnotte non ritirate (perché i fornai erano stati costretti alla
fuga), i cibi, le nocciole carbonizzate, la frutta, le bevande, i semi
di piante e di fiori (estremamente importanti perché
hanno permesso di ricostruire la flora dell’epoca), i martelli e i chiodi
nelle botteghe dei falegnami, le statue scolpite a metà nello studio di
uno scultore, gli affreschi, gli oggetti preziosi e quelli di uso comune,
le suppellettili, le opere d’arte, le biblioteche, i libri; riaffiorarono
persino, sulle pareti della “Casa del Criptoportico”, disegni di bambini
(una barchetta a vela, con rematori e nocchiero, e poi animali vari,
cavalli, asinelli), ed anche le scritte disseminate un po’ dovunque sui
muri della città.
A Pompei grandi e piccini amavano scrivere sui muri per esprimere i loro
sentimenti e di vario genere sono le iscrizioni che ancora oggi è
possibile leggervi.
Una scritta recita: “Buona salute a chiunque m’inviterà a pranzo”;
un’altra: “Paolo ama Giustina”; un’altra ancora, pure di un giovane
innamorato: “Buongiorno, Vittoria, ovunque tu sia possa graziosamente
starnutire”.
Svariati anche gli annunci dei combattimenti dei gladiatori: “Trenta
coppie di gladiatori s’incontreranno domani nell’anfiteatro; Trenta coppie
di gladiatori, forniti dal duumviro…combatteranno a Pompei il 24, 25,
26novembre. Ci sarà una caccia. Evviva Maio! Bravo Paride!”, dove Maio era
il magistrato cittadino, Paride il capo dei gladiatori.
E poi annunzi per i giochi: “Per la salute dell’imperatore Vespasiano e
dei suoi figli la compagnia gladiatoria di Gneo Nidigio Maio darà
spettacolo di lotta a Pompei, senza alcuna replica, il giorno 4 luglio.
Combattimento con le fiere…Vi sarà il “velario” (il tendone per riparare
gli spettatori dal sole e dalla pioggia); Per la salute di Nerone Claudio
Cesare Augusto Germanico, vi sarà uno spettacolo dio Tiberio Claudio Vero
a Pompei. Combattimento con le fiere. Lottatori. Aria refrigerante: 25 e
26 febbraio. Evviva Claudio Vero!” .
Molti anche i manifesti politici: “Votate Valerio; come magistrato, uomo
probo, ottimo ufficiale, egli avrà cura del pubblico danaro; I legnaioli e
i carbonari ti invitano ad eleggere Marcellino”; e poi messaggi di plauso
per un attore: “Actius, amato dal popolo, torna presto!”
Non mancavano le offerte di ricompensa: “Dieci sesterzi a chi riporta un
cane lupo che risponde al nome di Rex”.
Fu ritrovato quasi tutto ciò che faceva parte di quella città sorpresa
mentre fervevano le attività, bloccata dalla morte in un giorno qualsiasi
della sua vita, conservata per sempre dalla cenere, persino le case di
piacere del tempo, i lupanari (da lupa, “meretrice” in latino, in
allusione agli appetiti sessuali della femmina del lupo), con disegni ed
iscrizioni che non lasciano dubbi circa le attività esercitate dalle
padrone (anche nella famosa “Casa di Menandro”, una dimora patrizia, è
stato ritrovato un lupanare nell’ammezzato, affittato a due donne, Prima
e Januaria).
Naturalmente non furono ritrovati i corpi delle migliaia di vittime ma le
loro impronte, ben disegnate nella cenere pietrificata, che consentirono
di ricavare drammatici calchi in gesso che documentano con rara
drammaticità gli ultimi tremendi istanti della vita a Pompei: una donna
riversa a terra nel vano tentativo di difendersi dall’eruzione, un uomo
accovacciato imbacuccato nel suo mantello in gesto di disperata difesa,
persino un cane supino sorpreso nella convulsione dell’agonia.
E nella villa di Diomede, un ricco cittadino che, allo scoppio della
tragedia, invece di fuggire in strada con gli altri, si era rifugiato con
la famiglia nel sotterraneo, furono rinvenuti gli scheletri dei sedici
abitanti: il proprietario, Diomede, con l’oro ancora racchiuso nella sua
cintura; il suo servo, che aveva accanto la chiave di casa; la figlia di
Diomede, che riposava vicino agli scheletri del cane e della capretta, e
gli altri componenti della casa, tutti con il capo ravvolto nelle tuniche
nell’estremo tentativo di difendersi dai gas.
Fa uno strano effetto percorrere le vie silenziose di Pompei dove si
allineano le case, domus, le botteghe, tabernae, gli alberghi, hospitia,
le osterie, cauponae, i bar, thermopilia (taverne composte da una o due
sale, con piano superiore, giardino, pergolato, con un bancone esterno sul
quale erano incassate anfore contenenti vino fresco o caldo, spesso luoghi
clandestini di prostituzione, ritrovo abituale di camionisti dell’epoca,
facchini, scaricatori; famosi “L’Elefante”, il locale di Eusino e quello
dell’ostessa Edone che esponeva così i prezzi dei suoi vini: “Qui, per un
asse si beve del vino. Se ne darai due, ne berrai di migliore. Per quattro
assi, berrai del Falerno”.), camminare per le strade dai marciapiedi alti
e stretti, collegati agli incroci principali tramite i caratteristici
blocchi di pietra su cui attraversavano i pedoni, pavimentate con lastroni
di pietra dove l’intenso traffico del tempo ha lasciato i solchi delle
ruote.
L’antica Pompei è una città fantasma: silenzioso è il Foro, centro
politico ed economico della città, un tempo circondato da portici con
colonne in stile dorico e adornato di statue di bronzo e che ora conserva
solo le rovine dell’antico Tempio di Giove; silenziosi i Templi, come
quello di Iside, l’unico ben conservato; silenzioso l’Anfiteatro, un
tempo affollato di spettatori vocianti, e silenziosa la via
dell’Abbondanza, un tempo luogo di mescita, dove i ricchi pompeiani
potevano ordinare bevande sia calde che fredde, ora invasi solo da erbe
selvatiche.
Dove una volta pulsava la vita, tra affari pubblici, botteghe, palestre,
terme, teatri, adesso c’è solo un silenzio lugubre e spettrale.
Lungo le strade sono disseminate le botteghe con le macine ed i forni per
il pane, i frantoi e i torchi per l’olio, le osterie con i banchi di
vendita (in una è ancora visibile la traccia circolare lasciata dal
bicchiere dell’anonimo bevitore), le officine per la tintura e la lavatura
dei panni di lana.
Ma è nelle abitazioni private che si può meglio ritrovare la vita di
Pompei e dei suoi abitanti, nelle case tipiche dell’epoca romana, a due
piani, con il piano superiore destinato agli inquilini e agli schiavi,
chiuse verso l’esterno per proteggere l’intimità familiare, con piccole
finestrelle, con un atrio, atrium, dove c’era l’impluvium per la raccolta
dell’acqua piovana, un ingresso, il soggiorno, tablinum, con il larario,
un piccolo tempietto con le statue dei Lari, le divinità del focolare, la
cucina provvista di pentole, padelle e girarrosti, le camere da letto,
cubicula, i ripostigli, cellae; dal soggiorno si accedeva direttamente al
giardino, viridarium, con un portico interno.
Dalle piccole case dei negozianti si passa alle ricche dimore con fontane
e templi, comode e alquanto lussuose, con le pareti decorate con le note
pitture pompeiane tra cui spicca il famoso colore “rosso pompeiano”, con
i pavimenti di pietra, i soffitti di cemento e le nicchie delle case
abbellite con affreschi e mosaici (risultati eccezionali raggiunsero gli
antichi romani nell’arte del mosaico, raffigurando in maniera mirabile,
con le piccole tesserae, paesaggi, scene di vita quotidiana, battaglie,
nature morte, animali e volti umani) e sale adorne di statue, oggi
conservate nel Museo Nazionale di Napoli, e di oggetti di bronzo e
d’argento.
Queste case ci offrono la principale documentazione sulla pittura
parietale romana ma forniscono importanti informazioni anche sui mestieri
allora esercitati; in una scena è ritratto un negoziante di tessuti che
mostra la morbidezza di una stoffa color violetto a delle compratrici
accompagnate da una schiava, in un’altra un calzolaio prova le scarpe ad
una cliente, e sul fondo s’intravedono un vecchio mercante che vende
chincaglierie (fibbie, spilloni, coralli), un calderaio che vende vasi
sulla pubblica piazza, un venditore di bibite ed un fornaio seduto alla
turca in mezzo ai suoi pani.
Del mobilio quasi nulla si sa perché, essendo di legno, col tempo s’è
disfatto, sono pervenuti soltanto gli oggetti in bronzo, le lampade, i
calamai, le penne e le statue e, in una libreria privata, anche duemila
volumi in greco e latino.
Tra le case più ricche ci sono la” Casa del Fauno” (chiamata così per la
bellissima statua di bronzo che vi fu ritrovata), un vero e proprio
palazzo, con numerose sale, splendidi mosaici, giardino e colonnato, e la
“Casa dei Vettii” (che prende il nome dai suoi proprietari, i ricchi
mercanti A. Vettio Conviva e A.Vettio Restituto), con interni decorati da
scene mitologiche e raffinati fregi con motivi di amorini, fiori ed
animali, e con un grande triclinio pure decorato con stupende pitture
antiche.
La “Villa dei Misteri” è una ricca villa suburbana, con giardini, piscine
e fontane, così denominata per gli affreschi di autore campano che
rivestono le pareti di una sala, rappresentanti scene di un rito religioso
orientale, l’iniziazione delle spose ai misteri dionisiaci (il significato
di molte delle scene rappresentate in questa villa, legate al mito di
Dioniso, è ancora avvolto nel mistero perché anche in epoca antica il
culto era misterioso); la “Casa del Poeta tragico” è, invece, un esempio
di abitazione del ceto medio.
Gli scavi hanno riportato alla luce anche le necropoli, con tombe modeste,
formate da semplici tumuli sormontati da un cippo, ma anche grandiose,
come la prima, dissepolta lungo la Via dei Sepolcri, che allinea tombe che
spesso sono dei veri e propri monumenti, a tempietto, a mausoleo,
innalzate su basamenti un tempo ornati con statue e piante.
Sì, è il silenzio che s’addice alle commoventi rovine di Pompei, un
rispettoso silenzio, perché nelle sue strade aleggia ed aleggerà per
sempre l’ombra tragica di tutte le vittime che non riuscirono a scampare
alla furia distruttiva del vulcano, che potrebbe risvegliarsi con la
stessa violenza e causare nuovamente un numero incredibile di morti dal
momento che, dimentico della lezione già impartitagli dalla natura,
l’uomo, in selvaggia speculazione edilizia, ha continuato a riedificare
proprio nei luoghi di quella spaventosa tragedia dell'antichità.
1)
“Epigrammi”, IV, 44 (trad. G. Leopardi).
2) Epistole
VI, 16 passim (trad. F. Trisoglio).
Francesca Santucci
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