Per un fiore
Che cos’è che ci fa
affermare che un corpo è in vita? Il fatto che il cervello
emetta regolari impulsi elettrici, che il cuore batta, il
sangue pulsi nelle vene, scorra e irrori tutto l’organismo,
che il fegato ed i polmoni ed i restanti organi funzionino
puntualmente? Questo è ciò che possiamo dedurre
dall’osservazione scientifica, dalla registrazione delle
attività sensibili, ma, dunque, la vita è data soltanto
dall’armonica e concomitante azione di tutti questi eventi
conoscibili, non anche dal soffio, spirito, insufflatoci alla
nascita, che non è dato vedere o spiegare, ma solo intuire?
L’energia, la scintilla che ci fa vivere è veramente solo
l’azione concomitante delle parti dell’organismo? L’azione
meccanica degli organi interni è una cosa e il soffio che si
spegne alla morte è altra cosa, o entrambe sono congiunte? Ma
se ogni attività è cessata e non può più intervenire ed agire
sul mondo e sugli altri perché, allora, un moribondo e un
morto incutono timore? Se non parla più, non si
muove più, tiene gli occhi serrati per sempre su una notte
perenne, le sua carni sono destinate all’inevitabile
decomposizione e al definitivo dissolvimento, perché tutti,
più o meno consapevolmente, abbiamo paura del corpo senza più
vita, del cadavere inerte? L’ultimo senso che
abbandona l’uomo, è accertato, è l’udito, per questo motivo
bisogna fare attenzione a ciò che si dice in presenza di un
comatoso o di un moribondo, potrebbe sentire cose che gli
causerebbero turbamento; forse è questo che ci fanno paura, i
moribondi e i morti, perché pensiamo, irragionevolmente, che
ancorano possano udire, e comprendere, le nostre parole? Li
consideriamo inconsciamente come presenze mute silenziose,
inerti, immobili, paralizzate, impossibilitate a vedere,
eppure ancora senzienti, imbuti capaci di accogliere e
filtrare i suoni e i rumori, i gemiti ed i pianti sconsolati
delle persone afflitte per l’imminente o l’avvenuta dipartita? Esmeria non aveva paura
né dei moribondi né dei morti e non s’era mai turbata al
cospetto d’un cadavere, nemmeno di fronte a quello della
madre, ancora bella, bionda, morbida, calda, lunga distesa
nella bara scura avvolta nell’abito di merletto nero, con le
braccia lungo i fianchi (ma prontamente s’era affrettata a
congiungerle le mani sul petto intrecciando intorno alle dita
un rosario di legno di rose). No, non aveva paura,
però la infastidiva il pensiero che fosse morta, che l’avesse
abbandonata per sempre, così, d’improvviso, quella calda
mattina di giugno…
I
Ad ogni ricorrenza sua
madre le mandava dei soldi ripiegati in un foglio bianco
chiuso in una busta bianca; sul foglio era scritta sempre la
stessa frase: - A te che sei la
rosa più bella del mio giardino, perché possa comprarti un
fiore!- Ed ogni volta Esmeria
comprava una rosa, un tulipano, un crisantemo, una stella di
Natale, secondo la ricorrenza e la stagione. Quando, poi, i
fiori appassivano non li gettava nella pattumiera, ma li
conservava in un grosso quaderno nero dai fogli marginati di
rosso, di quelli che si usavano una volta. Tutti i fiori possono
essere conservati, dopo essere stati debitamente essiccati,
però Esmeria non conservava i fiori debitamente essiccati, ma
appassiti, e così quando, diversi anni dopo, riaprì il
quaderno nero dai fogli marginati di rosso, trovò solo pagine
maleodoranti e petali rancidi e ammuffiti. Ci rimase male e ne
soffrì molto. Esmeria riaprì il
quaderno dopo la morte della madre. Sfogliava le pagine
maleodoranti e piangeva perché davanti agli occhi le
compariva sempre la stessa frase: - Perché possa
comprarti un fiore!- E quella frase cominciò
ad apparirle spesso, anche sulla tomba della defunta che non
mancava mai di omaggiare ad ogni festività. Dalla lapide di marmo
bianco come per incanto svanivano il nome e le date di
nascita e di morte, e riappariva la fatidica frase. Allora un giorno decise:
si alzò di buon ora, si vestì di nero ancora una volta,
raccolse i capelli alti sulla testa, calzò un cappellino con
veletta di prezioso tulle ricamato, prese il quaderno e si
recò al cimitero. Sotto lo sguardo
attonito di un unico spettatore (un passero solitario
saltellante tra i ciuffi di ciclamini selvaticamente
cresciuti negli interstizi della pavimentazione), seppellì
cappellino, veletta e quaderno in una buca
accanto alla tomba materna. Sostò ancora qualche
istante per accertarsi che non ricomparisse la solita
scritta, diede uno sguardo fugace al cielo che s’andava
rannuvolando minacciando un feroce temporale, scompigliò i bei
capelli biondi lasciandoli liberi di fluire in ogni direzione,
inspirò lungamente l’inebriante aria fresca del primo mattino
profumata dalle mille fragranze simili dei fiori dei morti,
poi si diresse verso il cancello d’uscita, lo varcò e s’ avviò
verso casa. Da quel giorno smise di
piangere e di andare al cimitero, e smise anche il lutto.
Francesca
Santucci
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