Oh! Quali dannati istanti non vive colui che pur adora e
insieme dubita,
e sospetta, e nondimeno ama con tutta la forza del cuore.
(W. Shakespeare, “Otello”, Atto III)
Se penso al mio passato e lo confronto col presente mi
sembra tutto un sogno, o peggio, un incubo. Sì, lo amavo, ma
non sopportavo la sua gelosia, autentico tormento, talmente
assillante e opprimente da farmi sentire sul punto di
soffocare. Lui non era il mio innamorato, era il mio
carnefice.
Quando era calmo cercavo di affrontare
pacatamente il discorso, con dolcezza lo rimproveravo per i
suoi eccessi, ingiustificati, mai che io gli dessi motivo di
scatenare la sua furia, era lui a vedere ombre ovunque,
sospettoso anche quando eravamo soli in casa: allora
trascorreva il suo tempo dal letto alla sedia al divano
sempre a torturare me e, se era fuori, insopportabile mi era
il trillo del telefono che squillava ad ogni ora, mai alla
stessa, per controllarmi anche da lontano.
Mi ascoltava a capo chino, mortificato, poi accarezzava
piano i miei lunghi capelli più e più volte, mentre mi
diceva che non poteva impedirsi di essere geloso, che io era
soltanto sua, la sua ragione di vita, che ero la sua bella
bambina, anzi no, la sua donna, e sempre concludeva
avvilito:
-“Non posso farci niente, ti amo con tutto il mio cuore: sei
la mia passione!”-
Ed era vero, ero la sua passione/ossessione, e lui era la
mia.
Tutti mi mettevano in guardia, tutti mi dicevano di
lasciarlo andare, che era un egoista, un pazzo, che quella
storia fra noi sarebbe finita male, che il suo sentimento
era malato, che l’amore è gentile, non prepotente,
comprensivo, non illogico, e che se ora la sua violenza era
solo verbale di certo un giorno sarebbe divenuta anche
fisica.
Ascoltavo quegli avvertimenti con la stessa espressione
afflitta che aveva il mio carnefice quando lo rimproveravo,
poi scrollavo le spalle in segno d’indifferenza, e
replicavo:
-“Non posso lasciarlo. Lo so che lui è il mio inferno, ma è
anche il mio paradiso!”-
Qualche volta, quando proprio più non reggevo, facevo dei
timidi tentativi di lasciarlo, mi allontanavo, ma sempre
tornavo da lui che mi accoglieva con un sorriso ironico,
sfrontato, come a dire:
-“Non c’era bisogno che venissi a cercarti, sapevo che
saresti ritornata spontaneamente”.-
E aveva ragione, infatti sempre da lui tornavo. E se non ero
io a tornare subito, era lui che veniva a riprendermi,
aspettandomi per strada, fissandomi da lontano, ma, presenza
incalzante, braccandomi come un lupo la preda, finché non
crollavo.
Certo nessuno si sarebbe mai aspettato un epilogo tanto
insano per quella storia maledetta, ma accadde, e ancora
oggi io stessa ne stupisco.
Non so, davvero non ricordo quando fu che, falliti i
tentativi di allontanarmi, cominciò ad insinuarsi in me il
pensiero ossessivo di liberarmi di lui definitivamente
togliendogli la vita, solo ricordo bene che nella mia mente
passavano e ripassavano come fulmini in un cielo in tempesta
immagini di morte.
La prima volta che mi trapassò il lugubre pensiero eravamo
al mare. Era d’aprile, un aprile insolitamente caldo, tutti
andavano al mare, le spiagge erano affollate come d’agosto,
ma su quell’angolo di spiaggia solitario, dove mi aveva
condotto perché nessuno potesse guardarmi, c’eravamo solo
noi due. Lui mi era accanto, disteso sull’asciugamano, gli
occhi socchiusi, la sigaretta spenta di traverso fra le
labbra, l’espressione più che serena, appagata, io seduta
sulla sdraio stringevo le mani contro il ventre e mi
sporgevo col volto a guardare l’infinità del mare e del
cielo nel quale, come i miei pensieri, stridendo rauchi
volteggiavano i gabbiani. Pensai che avrei voluto che in
quel preciso istante di sua serenità in accordo Eolo, il dio
dei venti, e Poseidone, il dio del mare, sollevassero ad
altezze vertiginose i flutti che, agitati dalla tempesta,
portassero molto in alto e poi scaraventassero giù negli
abissi il preciso rettangolo di spiaggia entro il quale lui
giaceva facendolo morire annegato. Rabbrividii subito a quei
pensieri malsani che la mia mente aveva concepito, e di
scatto abbandonai la sdraio; tremante, andai a rannicchiarmi
contro il suo corpo, subito afferrata dal suo braccio
possessivo.
E pure un’altra volta pensai a Poseidone, non solo dio del
mare, ma anche dei terremoti, desiderando che scatenasse un
cataclisma ancora più violento del maremoto del delirio
precedente, capace di staccare dal suo alveo la zolla di
terra entro la quale lui poggiava i suoi piedi, con una
violenza così potente da spingerla alla deriva facendola
approdare in un luogo irraggiungibile agli umani, che mai,
però, avrebbe visto, perché sarebbe morto prima, disseccato
di sete e torturato dalla fame. La suggestione fu talmente
potente che davvero mi parve accadesse, ma poi, strappatami
da quella visione, raccapricciai di me stessa.
E un’altra volta ancora, suggestionata dall’arte che tanto
amavo, interesse che lui non condivideva per niente, come
una folgorazione davanti ai miei occhi si materializzò il
quadro di Artemisia Gentileschi, “Giuditta che decapita
Oloferne”, tema che la pittrice, come in una sorta di
vendetta contro la prepotenza maschile, avendo subito uno
stupro a diciannove anni, più e più volte aveva proposto con
cruda intensità, rappresentando l’eroina biblica che,
abbigliata a festa, aiutata da una serva, con un colpo di
scimitarra taglia la testa del tiranno. Ecco, se avessi
avuto anch’io una fantesca mia complice, insieme avremmo
potuto portare a termine l’esecuzione. Lei lo avrebbe tenuto
ben fermo, ed io gli avrei assestato il fendente mortale …
Ad ogni sua esplosione di gelosia, che mai sfociava in
aggressione fisica, ma, subdola, ugualmente mi feriva, si
susseguivano le mie fantasie, tanto che sognavo la vendetta
sia di notte, in incubi dai quali sempre mi ridestavo
inorridita dall’inaudita violenza che la mia mente riuscivo
a partorire, sia di giorno, in allucinazioni ad occhi aperti
così precise da sembrare reali.
I mesi trascorsero, aprile cedette il passo a maggio, maggio
a giugno, giugno a luglio, poi venne agosto, e intenso
risuonò l’ultimo canto delle cicale: l’estate, ormai, era
prossima a morire.
Quel giorno, dopo l’ennesima scenata immotivata (ché quasi
sempre tale è la gelosia, infondata nei sospetti, pronta a
vedere ovunque mostri, a scatenarsi per un’inezia, come una
belva ferita a morte che agisce d’un ultimo sussulto) scattò
in me qualcosa che non saprei definire, rabbia, moto
d’orgoglio, desiderio di reagire all’ingiustizia, un impulso
improvviso che sentii provenirmi dal più profondo di me
stessa, non dal cervello o dal cuore, ma, come in un parto,
dalle viscere: decisi di spezzare la catena dell’amore
malsano che mi legava a lui come una schiava al suo padrone,
e la mia mano si armò da sola.
Presi un ferro da stiro e più e più e più volte lo colpii,
alle braccia, alle gambe, come pervasa da una cieca furia, e
quando lo vidi barcollare e indietreggiare …la mia penna
quasi si schianta sul foglio raccontando cos’altro accadde …
afferrai un grosso coltello da cucina …
Ora bene non ricordo quante volte affondai il coltello nel
suo petto, è come se fosse calato un buio su quei feroci
istanti, solo ricordo l’espressione incredula stampata sul
suo volto e il ceruleo nei suoi occhi impallidire come un
cielo d’autunno in un giorno di foschia, divenire sempre più
scialbo, sempre più scialbo, finché non vi brillò più alcuna
luce, ma ancora sembrava che mi fissassero, anche dopo morto
… e non volevo, non volevo che mi guardasse ancora…allora
continuai a colpire, a colpire, finché, proprio come un
ferro da stiro che, esaurito il vapore, si ferma, di colpo
smisi.
Non ricordo quanto tempo restai immobile, in silenzio, a
fissare il coltello che stringevo fra le mani insanguinate,
poi sentii un lungo urlo che ancora mi risuona nella mente
se ci penso: era il mio, rimbombò fin nella strada.
Dopo è ovvio ciò che accadde, e potete ben immaginarlo voi
che mi leggete, sfondarono la porta, mi trovarono con il
coltello ancora fra le mani, ci furono l’arresto, la perizia
psichiatrica e il processo, in cui tutti i testimoni
convocati, proprio gli stessi che un tempo avevano cercato
di mettermi in guardia contro la sua gelosia, dichiararono
che sì, lui era geloso, ma mi amava tanto e non mi aveva mai
torto nemmeno un solo capello, piuttosto, ero io ad essere
un poco strana, sempre persa nei miei pensieri … come
assente …
Infine ci fu la sentenza; dichiarata colpevole per il mio
deliberato atto di violenza, giudicata capace di reiterare
il reato, fui condannata a scontare nel manicomio criminale
la pena, solo blandamente alleggerita dalla dichiarazione
dei periti che mi avevano considerata momentaneamente
“incapace d’intendere e di volere” al momento del raptus
omicida.
Ora che sono qui, costretta in isolamento, sorvegliata dalle
infermiere guardinghe, caute, ma anche crudeli (quando mi
chiamano “la figlia del demonio”), nei momenti di lucidità a
contemplare in silenzio il cielo dalla mia stanza, mentre
fuori in libertà gli uccelli intrecciano i loro cinguettii,
stranamente non mi sento prigioniera, ma libera. Prigioniera
lo era prima, lo ero allora, quando mi soffocava il suo
sentimento, quando mi sopraffaceva la sua maschile
prepotenza, quando mi affannavo lacerandomi fra gli opposti
sentimenti, fra l’amore e l’odio. E non soffro, no, dove
sono ora non soffro, o meglio, non mi angustia la
detenzione, non mi opprime l’angustia di questa cella, né mi
abbattono i farmaci che quotidianamente mi somministrano,
non mi tormenta il senso di colpa e non sono pentita, di
nuovo tutto rifarei, perché davvero non respiravo più e
volevo tornare a respirare, ciò che mi addolora, però, e non
sentire più la sua mano virile che accarezza i miei capelli,
non sentire più la forza del suo amore, non udire più la sua
voce che mi dice:
-“Sei la mia passione!"-
(racconto presente anche nell'antologia AA., VV., "Obsession 3", Poetikanten
Edizioni 2015)