Francesca Santucci

 

PAOLO VINCENZO BONOMINI 

estratto dal libro

(Francesca Santucci, …Che quanto piace al mondo è breve sogno!, Kimerik, 2011”)

 

[…]pittore estrosissimo che alle classiche eleganze di ariosi affreschi tra i più leggiadri del secolo, aggiunse le immortali fantasie macabre nelle quali con virtuoso umorismo colorì le fugaci illusioni e vanità del tempo.

(dall’epigrafe posta in memoria dell’artista P.V. Bonomini all’esterno della casa natale)

Paolo Vincenzo Bonomini, detto il Borromini o Borromino (appellativo derivatogli dal cognome del padrino di battesimo, Giovanni Battista Borromini che, forse, lo tenne qualche tempo presso di sé) nacque da Maria Diduali, proveniente dal Canton Ticino, e Paolo Maria (possidente, proprietario di stabili) il 23 gennaio 1757 a Bergamo, in via Borgo Canale (nato e domiciliato in questo Borgo Canale, recita l’atto di morte, al civico oggi contrassegnato col n.10, sobborgo rimasto pressoché intatto da allora e che “nutrì” anche un altro grande bergamasco, il maestro Gaetano Donizetti, i cui successi fece in tempo a conoscere) appena fuori le mura della città antica, popolato da artigiani ed artisti, nel quale per tutta la sua vita mantenne ben vive le radici, sempre in armonia con la comunità parrocchiale di appartenenza, divenendone pittore e restauratore, ed arrivando a rivestire la carica di “primo fabbriciere”.


Artista esuberante, originale, estroso e geniale, di spirito vivace e spiccato senso dell’umorismo, longevo tanto da assistere all’intero svolgimento dell’epoca neoclassica, deve la sua fama al ciclo di tele macabre, le Scene di scheletri viventi, realizzate per la chiesa di S. Grata inter Vites di Borgo Canale (nella cui abside tuttora si trovano) in cui, in bizzarro guizzo, raffigurò taluni abitanti del paese in “veste” di scheletri, perciò il poeta Piero Rusconi nel 1816 lo definì il buon pittore della storia mortuaria, ma esiguo è lo spazio occupato nel corpus bonomiano dalla produzione di soggetti
d’ispirazione mortuaria (oltre alle tele macabre, qualche disegno, un affresco perduto) e se è sempre e solo a questi che si lega il suo nome dipende esclusivamente dalla facile amovibilità di queste tele.
La condizione agiata della sua famiglia d’origine, provata dal possesso del complesso abitativo di cui molti locali erano dati in affitto, dovette consentirgli di ricevere una formazione culturale abbastanza importante, poiché, dalla lettura dei documenti autografi, riguardanti soprattutto spiegazioni dei suoi lavori, esposti in maniera chiara ed elegante, solo “disturbata” da caratteristiche
dialettali, si evince che fosse un uomo istruito.
Sin da piccolo il Bonomini manifestò la sua inclinazione artistica ed evidenziò le notevoli capacità tecniche, assecondato dal padre (discreto pittore di ritratti, soprattutto, e di pale, della scuola di Fra Galgario, del quale era aiuto e imitatore), che divenne il suo primo maestro, ma senza influenzarne la formazione.
Fu, infatti, nella bottega paterna che avvenne la sua prima formazione, orientata verso le tecniche e lo stile del genitore, ma non si esclude che, in seguito, non suffragato ciò da documentazione, ma desunto dall’analisi stilistica delle opere, completasse l’apprendistato a Venezia (dalla quale Bergamo sempre era in dipendenza anche culturalmente), a Milano (dove già cominciava a diffondersi il neoclassicismo) e a Roma, tappa obbligata per gli artisti del tempo (tra l’altro vi si recò un allievo di Paolo Bonomini, Giacomo Quarenghi).
Ben presto l’artista fece emergere nei suoi dipinti il suo temperamento eclettico e brioso, aperto a tutti gli stili, parallelamente svolgendo anche un'intensa attività di decoratore di edifici sia civili che sacri, case, palazzi, ville, teatri, chiese del bergamasco, in gusto rococò e, più tardi, in elegante stile neoclassico, producendo in modo personale e con accenti inconfondibili.
La sua prima commissione fu la realizzazione di alcuni monocromi in villa Vertova- Ambiveri a Seriate, nel 1786, sotto la guida del decoratore Carlo Rancilio, che firmò le pareti e affidò al Bonomini alcune scene; nel 1795, raggiunta una sua maturità stilistica, cominciò a ricevere commissioni sia dai nobili che dai ricchi borghesi che dal clero; verso la fine del secolo lavorò in villa Lochis di Bonate Sotto, nella chiesa delle Salesiane ad Alzano Lombardo e in quella di Santa Maria Assunta a Cologno, ma per la sua abilità fu scelto anche per interpretare nel 1797 gli ideali repubblicani di villa Pesenti a Sombreno.
I Macabri (è questa la frequente titolazione dei dipinti) risalirebbero agli inizi dell’Ottocento, sempre instancabilmente lavorando il Bonomini per i nobili della città (intervenne nella villa Colleoni a Trescore Balneario) e in tutte quelle occasioni che potessero giovargli per ottenere riconoscimenti anche nell’arte pubblica (nel 1802 decorò il salone consiliare della “Misericordia Maggiore” di Bergamo), ma conseguì la fama con i ritratti e, soprattutto, con le rappresentazioni caricaturali.
Con l’avvento del Regno d’Italia spettò al Bonomini, nel 1805 (anno in cui, a quarantotto anni, sposò la settantenne Maddalena Evandri, che morì il 3 gennaio 1806, ma ben presto si risposò con la ricamatrice Francesca Pandini, una vedova di trentatré anni che già viveva in casa sua, probabilmente come fantesca e come traduttrice nel ricamo dei lavori del Bonomini), dipingere lo stemma napoleonico sulle facciate di Porta Sant’Alessandro e di Porta San Giacomo e realizzare due Labari per la Guardia d’Onore imperiale; nel 1809 gli fu affidata la decorazione del Teatro Sociale a Bergamo, nel 1810 l'intervento in Palazzo Maffeis, sempre in città, e con la Restaurazione, quando Bergamo tornò sotto la dominazione austriaca, fu ancora lui ad affrescare lo stemma del Lombardo Veneto per Porta Sant’Agostino e il palco della Regia imperial delegazione nel Teatro Riccardi.
Nel 1828 il pittore rimase nuovamente vedovo. A settantaquattro anni si risposò per la terza volta, con Maria Annunciata Colombo (o Colombi), detta Marietta, figlia di un artista, che aveva solo ventotto anni e che, come l’altra moglie, già viveva in casa sua come domestica; dalla loro unione, inaspettatamente, il 7 gennaio 1832, nacque una figlia, l’unigenita del Bonomini: Maria Luigia.
Nel 1835 regalò all'amico dottor A. Guasconi la raccolta dei suoi disegni, che un giorno sarebbero approdati al Castello Sforzesco di Milano.
Nel 1837, nonostante l’età avanzata, Paolo Vincenzo Bonomini, pur se fisicamente indebolito, ancora lavorava in documentati interventi di restauro in una casa di Caprino Bergamasco, come si evince da una lettera inviata al pittore Pietro Ronzoni dal fratello Simone: Infatti, trovandosi “qui a travagliare…, […] ha sofferto la grippa per due o tre giorni”. 1

Il committente era Giambattista Asinelli, un sacerdote che abitava nell'omonimo palazzo; il Bonomini, fra finti bassorilievi monocromi e soggetti allegorici, a testimonianza del suo immutabile originale estro d’artista, inserì un finto specchio in cui raffigurò un diavolo con un forcone, un breviario e un cappello da prete, in allusione allo spirito un po’ gaudente del suo committente, in rivendicazione, fino alla fine, della libertà dell’artista, giacché, come soleva sostenere, il pittore, non è il Muratore, e che non lavora a giornata, ma che si calcola il suo merito senon a oppera ezeguita.2
Morì di polmonite due anni dopo, nella sua casa di Borgo Canale, a Bergamo, all’1 di notte del 17 aprile 1839.
Della varia, duttile e ricca attività del Bonomini, oltre alle sei tempere macabre, di sapore romantico sotto i severi modi neoclassici, oggi restano numerose decorazioni, festoni, eseguiti a tempera su tela o a fresco su intonaco con colori vividi, grottesche e motivi pompeiani, paesaggi con monti e acque e scene di caccia e pesca, architetture e trofei, prospettive profonde e finti bassorilievi, con cui abbellì edifici pubblici e dimore patrizie della bergamasca, case Carrara, Patirani, Piccinelli e Moretti, palazzi Pesenti, Terzi, De Beni-Maffeis a Bergamo, ville Tacchi a Scano al Brembo e Agliardi a Sombreno, la casa parrocchiale di Ranica, ed altri luoghi della sua Bergamo e della bergamasca, con pittura libera, brillante, sciolta. La sua fama, però, lo vede da sempre consacrato esclusivamente al macabro, probabilmente perché i suoi Scheletri, dopo essere stati esposti annualmente in occasione del Triduo dei Morti nella parrocchia di Borgo Canale, furono tra le poche opere trasportabili, perciò adatte a presenziare, sempre con grande successo, alle esposizioni tenutesi in Italia e all’estero, a partire dalla mostra del 1922 a Palazzo Pitti fino a quella del 2003 di Milano, Napoleone e la Repubblica Italiana, 1802 - 1805, che, in appendice alla celebrazione della vicenda napoleonica, dopo le opere celebrative di artisti come David, Appiani, Canova e Bossi, volle chiudere con le sue bellissime tempere, a ricordare il principio cardine della Rivoluzione francese, cioè l’uguaglianza di tutti gli uomini, ma declinato come memento mori, di fronte alla morte.
Innegabile e di grande valore è, comunque, il suo contributo offerto alla tematica del macabro, con le figure di scheletri in vesti dell'epoca esposte nell'abside della chiesa parrocchiale di Santa Grata inter vites (Santa Grata fu la nobildonna che raccolse le spoglie di Sant’Alessandro martire, patrono
della città di Bergamo) di Borgo Canale, sobborgo di Bergamo alta, in cui abitava, tuttavia la sua produzione non fu inno di morte ma canto alla vita, e quando usò rappresentare la morte fu sempre per esaltare la vita.
Nutrito delle allegoriche rappresentazioni artistiche della morte (“Danze Macabre”, “Trionfi della Morte”, “Incontri dei vivi e dei morti”, tematiche ben riassunte nel Trionfo della Morte che campeggia sull’Oratorio dei Disciplini a Clusone) e dalle varie vanitas dei secoli precedenti, il Bonomini certamente accolse anche le suggestioni letterarie del passato e contemporanee, come, ad esempio, quelle dei Canti di Ossian (circolanti, nella versione del Cesarotti, da tempo anche a Bergamo) che, per la ricchezza d’immagini oniriche, macabre e sepolcrali, ispirarono moltissimi artisti preromantici, ma, forse fu influenzato anche dalla Vanitas del maestro di suo padre, Vittore Ghislandi, meglio noto come Fra Galgario,3 nato il 1655 e morto il 1743.

 

 Fra Galgario, Vanitas

Opera straordinaria, la Vanitas di Fra Galgario è un olio su carta e tavola di legno raffigurante, appoggiato ad una mensola vicino a una rosa, un teschio (elemento di natura morta simbolica) con un occhio sgranato, velato di lacrime ma ben vivo, che quasi sfuma con l'osso. L’occhio cattura ipnotico l’attenzione dell’osservatore, perché lo guarda fisso, insieme comunicando un senso di amarezza esistenziale e richiamando al memento mori. Pare, tra l’altro, che l’interesse per l’occhio di Fra Galgario in questo dipinto (probabilmente anche l'autoritratto spirituale: perché è facile supporre che l'autore si sia studiato il proprio occhio allo specchio, in un momento di silenzio speculativo),4 non avesse solo fini pittorici; soffriva, infatti, di un progressivo indebolimento della vista ed aveva un rimedio (per il quale fu chiamato a Bologna nel 1717 per guarire un cardinale colpito dallo stesso male) così segreto che rivelò ai suoi confratelli solo poco prima di morire.
I sei dipinti con le scene di scheletri viventi (il ciclo è chiamato Danza macabra impropriamente, giacché sfugge ai canoni dell’esatta iconografia di ascendenza tardomedievale), secondo Renzo Mangili furono composte tra il 1802 e il 1814, commissionati dalla Deputazione Parrocchiale per ricordare la celebrazione del Triduo dei morti, perciò venivano allestiti in occasione della commemorazione dei defunti. Realizzati utilizzando una grande tela settecentesca su cui era dipinta una scenografia, inizialmente venivano collocati intorno a un catafalco, in una falsa cornice poggiata su piedini bassi, quasi di fronte alle persone, poi, nel 1937, furono sistemati definitivamente nel coro della chiesa.
Che cosa abbia spinto a tale rappresentazione il Bonomini si presta alle più diverse ipotesi; di certo dovette essere suggestionato dall’ascolto, nella chiesa che frequentava e dove nel 1818 era anche primo fabbriciere, di passi biblici dei Salmi e del libro di Giobbe in cui spesso si parla di ossa, di polvere, di tomba:

Come acqua sono versato,

sono slogate tutte le mie ossa.

(Salmi 22-15)

[…] posso contare tutte le mie ossa.

(Salmi 22-15)

Di pelle e di carne mi hai rivestito,

d'ossa e di nervi mi hai intessuto.

(Gb 10-11)

Intanto io mi disfo come legno tarlato

o come un vestito corroso da tignola.

(Gb. 13 – 28)

Le sue ossa erano ancora piene di giovinezza,

ma con lui giacciono nella polvere.

(Gb 20 -11)

[…] quando la sua carne si consuma a vista d'occhio

e le ossa, che non si vedevano prima, spuntano fuori.

(Gb 33 -21)

Altre suggestioni potrebbero essergli derivate dal poemetto del bergamasco Lorenzo Mascheroni, poeta (in Arcadia era il pastore Dafni Orobiano) e matematico, L'invito di Dafni Orobiano a Lesbia Cidonia,5 composto fra il 1792 e il 1793, in cui il poeta-scienziato, in commistione fra letteratura e scienza, com’era tipico del settecento illuministico, invitava la contessa Paolina Secco Suardo Grismondi (in Arcadia era Lesbia Cidonia)6 a visitare le collezioni di storia naturale e i gabinetti scientifici dell'Ateneo pavese (il "Museo di Storia Naturale", di "Anatomia umana", di "Anatomia comparata", di "Patologia"), immaginando di guidarla in una visita all’Università di Pavia, presso la quale era insegnante, mostrandole strumenti e reperti scientifici, descrivendo accuratamente il Gabinetto e Teatro anatomico:

Nel più interni de’ regni de la morte

scende da l’alto la luce smarrita.

Esangue i nervi e l’ossa ond’uom si forma,

e le recise viscere (se puoi

sostener ferma la sparuta scena)

numera Anatomia: del cor son queste

le region, che esperto ferro schiuse.

(L. Mascheroni, L'invito di Dafni Orobiano a Lesbia Cidonia)

E ancora dalla letteratura sepolcrale, ispirata ad una visione tenebrosa della vita, fiorita nei secoli precedenti, soprattutto nel Medioevo, e, oltre che dalla traduzione del Cesarotti dei Canti di Ossian, dalle malinconie ed emozioni estetiche del neoclassicismo e della poesia preromantica, fino al carme dei Sepolcri del Foscolo (pubblicato nel 1807, in un clima di discussioni circa l’ubicazione dei cimiteri -Editto di Saint-Cloud)7 e ai Cimiteri del Pindemonte, che nella sua epistola metrica sembrò proprio descrivere i dipinti del Bonomini ma che, in realtà, s’ispirò agli scheletri delle tombe sotterranee della Cripta dei Cappuccini di Palermo (Sale Sepolcrali della Sicilia le definì il Pindemonte nell’ introduzione ai suoi “Sepolcri”) che aveva visitato nel 1779 e che gli erano sembrate uno dei più commoventi esempi di colloquio ideale fra i vivi ed i loro cari trapassati.8
Il Bonomini, che donò i dipinti alla chiesa (invano la moglie, alla morte dell’artista, cercò di rientrarne in possesso), dando prova ancora una volta di grande fantasia, originalità, stravaganza e spregiudicatezza, reinterpretò il tema della Danza della Morte in chiave scanzonata e satirica, ma apparteneva sia all’uomo che al pittore il piacere dello scherzo, dell’ironia anche verso stesso (basti pensare all’autoraffigurazione come scheletro in Santa Grata) manifestata già con una serie di scheletri su fondo nero dipinti in casa di un committente che, troppo insistentemente, gli aveva sollecitato la decorazione di una stanza della sua villa di Trezzo d’Adda, e con una serie di caricature di nobiluomini delle famiglie cittadine più in vista per il Teatro Sociale di Bergamo, talmente di feroce ironia che ne fu richiesta la cancellazione, ma anche i Macabri di Borgo Canale devono molto della loro fortuna inizialmente proprio per la testimonianza della burla del genio.
Stemperando il dramma in una quotidianità leggera, il Bonomini sostituì ai personaggi reali, che abitavano nel borgo in cui vennero esposti, come ritratti dal vero, i loro scheletri, ma ben riconoscibili, attivi, rappresentati in abiti quotidiani dell’epoca (dell’età napoleonica, in perfetto stile “direttorio”) colti nelle occupazioni tipiche e collocati nel paesaggio agreste: Il Tamburino della Guardia nazionale, il Falegname in cammino, i Due frati in preghiera, gli Sposi borghesi, la Coppia di contadini, il Pittore che dipinge la morte.

 

Paolo Vincenzo Bonomini, Falegname in cammino (Il Carpentiere)

 

La beffa colse nel segno, perché la prima volta che i quadri vennero esposti, disposti come i pannelli di un paravento, appena sollevati da terra, tutti abbandonarono le preghiere e scoppiarono a ridere, sbalorditi e divertiti dal momento che riconobbero nei teschi, nelle mandibole e negli scheletri i personaggi reali, e non per gli abiti, ma per le fisionomie delle macabre raffigurazioni; poi, però, per un lungo periodo, nel corso dell’Ottocento, non vennero più esposti in chiesa proprio perché con la reazione che suscitavano, distraevano i fedeli.

 

 

Paolo Vincenzo Bonomini, Il Tamburino della Guardia nazionale

Nel tamburino (dalla divisa in un trionfo di verde, bianco e rosso, i colori del vessillo della Repubblica Cisalpina, che sarebbe poi stata adottata dall’Italia unita), riconobbero un giovane, di cui oggi s’ignora il nome, che in tempo di pace serviva da usciere negli uffici governativi; nel falegname nell’atto del camminare, carico di seghe, pialle e altri arnesi da lavoro, il bottaio e fabbriciere Agostino Carminati, membro della stessa Deputazione della Chiesa che aveva dato la commissione dei quadri; nel gentiluomo con la feluca (insieme ad una donna elegantemente vestita, la giovane moglie) un certo Bacis (o Vacis), impiegato della Regia Delegazione; nella coppia campagnola, il contadino e la lattaia in conversazione, lui seduto, con un cappellaccio in testa come Renzo dei Promessi sposi, lei in piedi, con sporta e pentola di rame, vestita e pettinata come Lucia Mondella, i coniugi Fortini, due abitanti di Borgo Canale che facevano gli ortolani e che, come risulta dall'archivio parrocchiale di Santa Grata, erano affittuari del pittore; nei due frati in bianco, inginocchiati davanti alla Croce, due fratelli della famiglia Bossi, monaci domenicani del Carmine.

 

 

 

Paolo Vincenzo Bonomini, La Coppia di contadini

 

 

Paolo Vincenzo Bonomini, Due frati in preghiera

 

Bonomini si era anche raffigurato, alto, magro, com’era nella realtà, nell’atto di dipingere, con pennello e tavolozza, intento a firmare la sua creazione […]con la Morte che ratifica la rappresentazione nell’atto stesso della sua creazione. È L’artista stesso che si rivede nell’atto stesso della sua creazione [e ]sottolinea la solennità del prefigurato incontro con la sua Morte.9 presenti nella tela la moglie (probabilmente la seconda delle tre che ebbe) e il piccolo aiutante Caffi.

Paolo Vincenzo Bonomini, Il Pittore che dipinge la morte

 

Il ciclo della chiesa di Borgo Canale rappresentò uno dei momenti più alti nel percorso creativo del Bonomini ma anche della pittura europea dell’Ottocento, per la qualità tecnica e per il messaggio che veicolò; piacque a quest’artista soffermarsi non sulla drammaticità del tema, in polvere reverteris, né sulle differenze sociali dei personaggi raffigurati (in grande resa psicologica delle differenti età e condizioni), ma sull’egalitarismo di tutti di fronte alla Morte.
Memento mori,
morte comunque declinata, uguale per tutti i personaggi della bergamasca età napoleonica raffigurati: per il Tamburino della Guardia Nazionale, manichino d’ossa sotto l’uniforme che, impegnato in un’esercitazione (sullo sfondo il drappello militare, in cui pure tutti gli uomini sotto le divise sono scheletri), richiama il tema della guerra, grande tragedia della storia; per il Falegname in cammino, con gli strumenti di lavoro, rigidi come gli arti senza carne, e la piuma rossa sul nero del cappello, simbolo di mondanità e precarietà; per i Due frati in preghiera, longilinei, incurvati, bianchi contro lo sfondo scuro dell'antro; per Gli sposi borghesi a passeggio, sontuosamente e vistosamente acconciata la donna, con una rosa appuntata sul petto, simbolo di primavera, primavera della vita, ma anche di vanità femminile e di fugacità, della bellezza e della vita; per la Coppia di contadini, l’uomo anziano, stanco, saggio, e la giovane donna fatua e civetta, vispa e vestita a festa, a significare che sia la vecchiaia che la gioventù sono insidiate dalla morte; per il Pittore che dipinge la Morte, in cui l’autore stesso, abbigliato come un figurino, attorniato dagli oggetti del suo mestiere e da poche figure familiari, si rivede nella sua creazione e la firma in gesto solenne, intanto che in aria volteggiano due pipistrelli, simbolo, appunto di morte.

 

 

Paolo Vincenzo Bonomini, Gli sposi borghesi

 

La morte, così irrisa, così sbeffeggiata, giunse, poi, anche se tardissimo, a rapire pure il Bonomini, in causa di grave polmonia
La rappresentazione del macabro offerta dal Bonomini in questo ciclo fu decisamente svincolata da quelle precedenti, priva di drammaticità, e si caratterizzò per la vena lieve e scanzonata dell’artista, che collocò i personaggi, rappresentati negli abiti normalmente indossati e nelle faccende quotidiane tipiche dei differenti status sociali, non in scenari cupi e terrorizzanti, ma in un paesaggio prevalentemente agreste, nella finalità non di incutere terrore, ma di ricordare, con un sorriso, in forma di scherzo, quasi a stemperare il dramma, alla piccola comunità a cui era destinato il ciclo di tempere e a tutti gli spettatori, l’inevitabilità della meta finale.
Ancora più tardi, nel 1942, affermò ciò corrispondere al vero il mecenate bergamasco, collezionista d’arte, Roberto Bassi-Rathgeb, pure assicurando di aver attinto ai ricordi dei discendenti, ma fu l’importante mostra del 1922 a Palazzo Pitti a far riemergere solidamente dall’oblio il Bonomini.
Misura altissima della sua attività (purtroppo circoscritta, per sua volontà, ben saldamente solo al territorio bergamasco, perciò probabilmente non ebbe fama all’altezza del suo valore) e originalità è offerta oggi da quanto ci ha lasciato e dal prezioso albo di suoi disegni conservato nelle raccolte del Castello Sforzesco a Milano.

 

 

NOTE

1) Pag.7 Renzo Mangili, Bonomini, Edizioni Bolis, Bergamo 1996.

2) Op.cit.

3)Vittore Ghislandi, detto Fra Galgario (Bergamo 1655-1745) fu tra i grandi ritrattisti del Settecento

europeo; nelle sue opere attuò la fusione fra la tradizione naturalistica lombarda ed il gesto

“neorembrandtesco” dell’Europa centrale.

4) Op.cit.

5) L. Mascheroni, L'invito di Dafni Orobiano a Lesbia Cidonia, a cura di I. Botta, Bergamo, Moretti

e Vitali, 2000, pag.23.

6) La contessa Paolina Secco Suardo Grismondi (Bergamo 1746-1801) nota come Lesbia Cidonia,

fu donna colta e brillante, dagli ampi orizzonti culturali ed aperta alle istanze illuministiche che,

dalla Francia, arrivavano ai salotti

letterari dell’epoca.

7) L’Editto di Saint-Cloud, emanato nel 1806, fu l’estensione alla Cisalpina di quello promulgato in

Francia nel 1804 che stabiliva una serie di norme circa le sepolture e che collocava le tombe fuori

dei centri abitati.

8) “V. i versi citati a pag. 108”.

9) Op.cit.

 

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