(AA.VV., "Storie e leggende della Campania",
Rudis Edizioni 2023 )
Natura e cultura,
storia e leggenda, spiritualità e devozione popolare, riti e tradizioni,
sacro e profano, s’incontrano e si fondono in questo suggestivo luogo
dell’Irpinia, molto caro ai napoletani, Montevergine, frazione di Mercogliano, in provincia di
Avellino.
Qui si erge il famoso
Santuario, a 1270 metri sul livello del mare, collocato su una vetta
della catena montuosa del Partenio, territorio aspro, con il suolo
formato per buona parte da materiali piroclastici provenienti dal vicino
complesso vulcanico del Somma, percorso da una rete di piccoli torrenti
e sbalzi d’acqua, arricchito da querce, lecci, castagni, faggi, pioppi,
ontani, carpini, presenti numerose specie di fiori d’interesse
naturalistico, come il garofano selvatico, la vola tricolore,
l'asfodelo, il narciso, altre bellezze floristiche del territorio come
il giglio martagone e, per quanto riguarda la flora rupestre,
sassifraghe, campanule, valeriana, dafne, pimpinella e orchidee.
Caratterizzato da
numerose grotte sulla montagna tagliata a picco, abitato dal picchio
rosso e dal picchio verde, sorvolato dal volteggiare di grandi rapaci
come la poiana, il corvo imperiale, il falco pellegrino e il gufo reale,
il luogo in ere lontane aveva un tempio dedicato a Cibele, la “Magna
Mater”,
dea della natura, degli animali e dei luoghi selvatici,
per questo veniva chiamato Monte di Cibele, dove i coloni Greci
salivano per onorare con canti, suoni e danze la divinità, anche con
riti orgiastici.
Sui resti di questo tempio sorse il Santuario, la
cui storia, però, si collega direttamente al fondatore del monastero di
Montevergine,
Guglielmo da Vercelli, un monaco eremita vissuto tra l'XI e il XII
secolo, attratto dai pellegrinaggi nei luoghi della cristianità, che,
dopo essere stato assalito dai banditi a Taranto, mentre tentava di
raggiungere Gerusalemme, in quell’evento vide un segno della Provvidenza
divina.
Abbandonata l’idea di attraversare il mare, si diede alla ricerca di un
luogo nell’Italia meridionale dove condurre una vita eremitica. Fu, così, che nel 1118 giunse sul monte Partenio, dove visse da solo, in una
situazione climatica difficile, in condizioni penitenziali, in una
piccola cella,
dedicandosi alla
preghiera e all’esercizio della carità verso i poveri.
Diffusasi la fama delle sue virtù, sul monte cominciarono ad accorrere
diversi discepoli desiderosi di servire Dio sotto il suo magistero. Via
via, per ospitare i monaci eremiti, furono costruite altre celle e fu
edificata anche una chiesa dedicata alla Madonna, consacrata nel 1126,
assecondando la profonda devozione che Guglielmo aveva per la Vergine.
Ben presto i monaci di Montevergine si riunirono in una congregazione
detta Verginiana, cominciando ad attuare opere di
evangelizzazione e cura dei malati, ma Guglielmo
riprese i viaggi
apostolici che già in gioventù aveva praticato, dedicandosi a
impiantare altri monasteri nel sud d’Italia e disseminando miracoli che
attirarono l’attenzione di principi e potenti locali, che si adoperarono
nella fondazione dei nuovi monasteri dotandoli di beni e privilegi.
Gugliemo morì nel
1142 presso il Goleto, uno dei monasteri da lui fondato,
dopo una vita trascorsa al servizio di Dio e degli altri,
e nelle sue comunità subito si cominciò a venerarlo come santo. Alcuni
vescovi autorizzarono anche il culto pubblico, poi esteso a tutta la
Chiesa nel 1785. Nel 1807 il suo corpo venne traslato dal Goleto a
Montevergine, dove si trova tuttora.
Nel 1942, in
occasione dell’ottavo centenario della sua morte, papa Pio XII lo
proclamò Patrono Primario dell’Irpinia.
Il
Santuario di Montevergine,
una
delle Porte sante della Campania, nei
secoli
si è arricchito di numerose opere d'arte, grazie alle offerte generose
di feudatari, papi e sovrani. Cuore del Santuario è la cappella della
Madonna, che custodisce l’immagine su tavola, di fattura bizantina,
della Vergine, che credenza popolare vuole eseguita da san Luca
Evangelista.
Così il poeta Raffaele Viviani la descrisse:
Na scumma argiento,
na Madonna nera
cu ll’uocchie che te guardano, addo vaje.
Overo Santu Luca se spassaje:
nun ‘a puteva fa ‘e nata manera.
Te miette e lato e a guarde, ‘a stessa cera!
Pecchè succede chesto, nun ‘o saje
te scuorde ca è pittata, pare overa.
E tuorne a gghì pa cchiesa, ‘a tiene mente,
e Chella sempe fissa ca te guarda.
E il Santuario ospita pure una sala con degli ex voto, la mostra del
presepe nel mondo, un museo con dipinti del barocco napoletano, icone
orientali, e altri oggetti d’arte di grande valore che hanno reso
possibile dichiararlo monumento nazionale.
Inoltre, durante la Seconda guerra mondiale, a Montevergine è stata
custodita la Sacra Sindone. I Savoia, che allora ne erano i proprietari,
per proteggerla in tempo di guerra pensarono di affidarla al Vaticano,
che individuò nel Santuario il luogo più sicuro per custodirla.
Si può dire che, da quando san Gugliemo si stabilì sul monte e attirò
tanti discepoli, l’ascesa non si si sia mai arrestata. Ancora oggi
folle di
fedeli, ma anche solo di curiosi, di ogni
estrazione sociale e dei luoghi più disparati, arrivano
sul Partenio
per testimoniare la loro fede. Ai piedi del grande
dipinto della Madonna i fedeli depongono fotografie e lettere con
richieste di grazie, lasciano ex voto per ringraziare di averla
ricevuta, chiedono unione familiare, fede, salute per un familiare, per
un amico, per sé stessi.
I napoletani
considerano la Vergine la loro Madre celeste, e la chiamano “Mamma
Bruna” o “Mamma Schiavona”, perché il dipinto la mostra con un colorito
scuro, tanto simile a quello degli schiavi nord-africani, perciò è
considerata la protettrice degli ultimi, dei diseredati, degli
emarginati. Secondo la tradizione, infatti, le Madonne erano sette, sei
bianche e una nera, quest’ultima era considerata la più “brutta” delle
sorelle per il colore della pelle, perciò, risentita, decise di isolarsi
e andò a rifugiarsi sulla punta del monte Partenio (“Mons Parthenius"
appunto "Monte Vergine"), da qui l’appellativo “ Schiavona”, cioè
“straniera”.
Il pellegrinaggio a
Montevergine richiama da sempre un forte afflusso di pellegrini
napoletani, che in passato arrivavano con ogni mezzo, in carrozza, a
cavallo, con i carri, a piedi, con macchine in affitto talvolta scoperte
per poter esibire la gioia del viaggio, spesso organizzando carovane di
auto decorate con festoni floreali di carta dello stesso colore degli
abiti dei viaggiatori, tutti similmente vestiti o di rosa o d’azzurro
color manto di Madonna. Queste gite si organizzavano con notevole
anticipo, le famiglie più disagiate mettevano da parte i soldi per
l’escursione un po’ per volta e ogni settimana gli incaricati dei vari
quartieri passavano a ritirarli. La partenza per Montevergine era ricca
di folklore, chiassosa, rumorosa, preceduta da spari di botti nei vari
quartieri e accompagnata dai suoni dei tamburelli allegramente agitati.
Fra i pellegrini non
mancavano di farsi notare i famigerati guappi, le “zi maeste”, popolane
autorevoli che coglievano l’occasione per esibire i loro vistosi abiti e
gioielli, e le ragazze costrette a praticare la prostituzione, che
si recavano dalla Madonna per farsi perdonare della loro vita o chiedere
la grazia di cambiarla. Ai pellegrini si univano anche i venditori di
torrone, nocciole secche e taralli.
Secondo la tradizione
si recavano al Santuario donne sposate per ringraziare la Madonna di
aver loro procurato un marito, o ragazze che la pregavano affinché
glielo facesse trovare. Durante la salita al monte le nubili
intrecciavano dei rami di ginestra, promettendo alla Vergine di
ritornare l'anno successivo e di sciogliere il nodo in compagnia dello
sposo. E salivano al Santuario, scalze, anche ragazzine che andavano a
ringraziare la Vergine per conto di terzi.
Appena arrivati al
Santuario subito i pellegrini entravano in chiesa, chiedevano la grazia,
mettevano gli ex voto ai piedi della Madonna e lasciavano soldi tra le
inferriate della cappella di san Guglielmo. Durante la discesa, poi, le
donne intonavano canti popolari e gli uomini facevano una corsa su carri
chiamata recanata, e tutti si preoccupavano di divertirsi con
pranzi, canti e danze.
Ancora oggi il rito
del pellegrinaggio, il giorno della festa della Madonna di Montevergine,
l’8 settembre, ma anche per il resto del mese, puntualmente si ripete,
commovente testimonianza di fede ma anche occasione festosa.
E il 2 febbraio, il
giorno della Candelora, c’è un’altra tradizione legata a Montevergine
molto sentita soprattutto nel napoletano, la juta
(andata)
dei femminielli, figure legate al mondo greco pagano, risalenti agli
antichi ermafroditi, che nell’antica Grecia erano
considerato sacri
poiché ritenuti figli della dea della Bellezza e del dio dell’Amore, e
contenenti la dualità del
creato, cioè la parte maschile e quella femminile. Verso
di loro il popolo partenopeo ha sempre avuto rispetto e considerazione,
dimostrando grande apertura mentale, in riconoscimento prima di altri
dei diritti umani di tutti.
L’origine della devozione dei
“femminielli” per la Madonna di
Montevergine,
che considerano loro patrona,
si fa risalire a un’antica leggenda, secondo la quale,
nel 1256, durante una bufera di neve, una coppia di amanti omosessuali,
scoperta dalla gente del posto mentre si baciava, fu imprigionata contro
un albero sul monte con delle lastre di ghiaccio. Per intercessione
della Vergine, un raggio di sole colpì il ghiaccio, lo sciolse e i due
innamorati poterono salvarsi.
Questa è la leggenda,
ma l’ascesa dei “femminielli”
al Partenio per omaggiare la loro Madonna, Mamma
Schiavona, si collega al fenomeno del “travestitismo” già presente
nell’antichità ed è di lunga data, come testimoniato dal ritrovamento,
riferito
dall’abate Gian Giacomo Giordano nelle sue “Croniche
di Montevergine” (1642), di
corpi di huomini morti vestiti da donne, e alcune donne morte vestite
da huomini,
dopo un incendio, nel
1611, nell’ospizio
annesso al Santuario riservato all’accoglienza dei pellegrini.