Talmente famosa è la vicenda personale della leggendaria famiglia Brontë
(le tre sorelle, Charlotte, Emily e Anne, il fratello Branwell e il
padre Patrick), talmente abbagliante quella letteraria, soprattutto di
Charlotte ed Emily, rispettivamente autrici di due capolavori, i romanzi
“Jane Eyre” e “Wuthering Heights” (meno eclatante, ma pur valida, la
produzione di Anne), da oscurare la presenza della madre, Maria Branwell,
quasi come se, similmente ad Atena che il mito vuole nata dalla testa di
Giove, i figli fossero stati generati dal padre. Figura di fugace
apparizione, alla quale soltanto di sfuggita, brevemente, in genere si
accenna quando si parla dei Brontë, e sulla quale poco è stato scritto,
evanescente come le nebbie di quell’affascinante ma fosco paesaggio nel
quale andò precocemente a morire, la brughiera di Haworth, nello
Yorkshire, nel nord dall’Inghilterra, lei che proveniva dal luminoso sud
della Gran Bretagna, Maria fu creatura pulsante di vita, non bella ma
spiritosa, elegante nel vestire, vivace, curiosa, intelligente, attenta,
osservatrice, e pia e devota. Aveva anche un carattere mite, come il
clima della graziosa cittadina in cui da genitori metodisti, Thomas
Branwell, facoltoso mercante, e Anne Carne, era nata il 15 aprile 1783,
Penzance, in Cornovaglia, terra che un tempo fu dei Celti,
caratterizzata da splendidi scenari, circondata per due terzi dal mare,
con le affascinanti High Cliffs, le scogliere a picco sul mare,
le dolci colline, gli antichi castelli, i caratteristici villaggi dei
pescatori.
Donna indipendente, pur se rispettosa delle convenienze,
Maria fu anche “mente letteraria”, amante della poesia e autrice, oltre
che delle lettere scritte al marito durante la fase di corteggiamento
(sentimentali come quelle della protagonista di un romanzo epistolare),
di un saggio, mai pubblicato, “The Advantages of Poverty in Religious
Concerns”, in cui asseriva i vantaggi tradizionali della povertà, ed è
da lei (oltre che dal loro padre, il reverendo Patrick, scrittore di
mediocre talento) che le famose figlie ereditarono amore per la lettura
e inclinazioni e suggestioni letterarie.
Fu nel 1812 che Maria Branwell conobbe Patrick Brontë, ecclesiastico
della chiesa d’Inghilterra. Dopo un breve corteggiamento, uniti da un
sentimento profondo e sincero, il 29 dicembre 1812 si sposarono. Vissero
insieme nove anni ed ebbero sei figli, ma l’unione si spezzò
drammaticamente a meno di un anno dalla nomina di Patrick a vicario di
Haworth, paese sperduto tra le brughiere dello Yorkshire, nella cui
canonica avevano traslocato. Per un cancro alle ovaie, dopo aver patito
per sette mesi e mezzo atroci sofferenze, il 15 settembre 1821, a soli
trentotto anni, Maria morì: le erano accanto suo marito, sua sorella e i
suoi figli, Maria, la figlia maggiore, aveva otto anni, Anne soltanto
venti mesi.
Soverchiata dalla straordinaria fama delle figlie, relegata per secoli
nell’ombra, finalmente, a trarla dall’oblio in cui era precipitata, a
sollevare il velo che l’ha oscurata al mondo, giunge la nuova
pubblicazione della famosa studiosa, scrittrice e traduttrice brontëana
Maddalena De Leo, “Maria Branwell: la madre delle sorelle Brontë,
Vintage edizioni 2021”, un romanzo in cui, con prosa agile e veloce,
ricostruisce la vicenda umana della madre delle sorelle Brontë,
attraverso la stessa Maria che, in forma di diario, narra i momenti
salienti del suo quotidiano, del suo esser donna nella società del
tempo.
Con felice intuizione, Maddalena De Leo immagina che Charlotte legga le
nove lettere di sua madre consegnatele dal padre (cosa che nella realtà
effettivamente avvenne quando, nel febbraio 1850, consegnò alla figlia,
ormai rimasta priva di tutte le sue sorelle, la corrispondenza ricevuta
da quella che ancora allora non era la sua sposa, ma la fidanzata) e
decida di scrivere un nuovo romanzo eleggendo a protagonista sua madre
che redige resoconti annuali, proprio come nella realtà facevano Emily
ed Anne che, a partire dal 24 novembre 1834, tennero dei diari di
compleanno, pagine in cui, ogni quattro anni, nel giorno del compleanno
di Emily, annotavano il loro quotidiano, lo stato dei familiari e degli
animali di casa.
Il libro, corredato in appendice della splendida traduzione (per la
prima volta integrale in Italia) di Maddalena De Leo di nove lettere
d’amore indirizzate da Maria al suo Patrick al tempo del corteggiamento
(nell’estate –autunno 1812), in ricchezza inventiva, ma con riferimenti
e riflessioni aderenti alla realtà storica fedelmente seguita
dall’Autrice, è articolato in due parti, Cornovaglia e Yorkshire,
seguendo il viaggio di Maria da Penzance ad Haworth, dalla luce al buio,
dalle aspettative al crollo delle illusioni con lo straziante epilogo.
Nella prima parte, che muove dal 15 aprile 1803 e coincide con gli anni
lievi della felice verde età, spensierata come pur sempre si addice a
una giovinezza, nonostante non manchino i dispiaceri (i lutti
familiari), la penna di Maria annota eventi leggiadri, registra
avvenimenti lieti, l’occhio a scrutare intorno a sé, nella sua cerchia
familiare e sul luogo in cui è nata e vive, fra entusiasmi, desideri,
sogni, ansie.
Più intima lascia snodare Maddalena De Leo la seconda parte (il cui
ultimo resoconto, brevissimo, è stilato ad Haworth il 15 aprile 1821),
introdotta da una bella immagine in chiaroscuro di Charlotte che ripiega
gli occhiali e si allontana dalla lettura avvedendosi solo allora che,
concentrata com’era nella lettura che stava illuminando la figura
sfocata di sua madre (donna vivace e coraggiosa che si era inventata una
vita diversa andando ad abitare per sempre in una terra nuova, perché
aveva creduto con tutte le sue forze nell’amore, disvelandola,
finalmente, non più negli sfumati contorni ma nell’esatto plasticismo)
non si era accorta che le ombre della sera si erano impossessate della
stanza e che la luce debole del crepuscolo non penetrava più nemmeno
dalle finestre del parlour della canonica. Ma tante immagini suggestive
l’Autrice offre nel libro, sia quando si sofferma sulla descrizione dei
luoghi, delle leggende, delle tradizioni, sia quando indugia sugli stati
d’animo della protagonista.
Garbata, briosa, ma anche ossequiosa credente, come doveva essere una
giovinetta del tempo che viveva fra casa, chiesa ed eventi sociali,
Maria, attraverso la scrittura di Maddalena De Leo, ci offre il
resoconto della sua vita anno dopo anno, fra gioie e dolori.
Trasmettendoci l’esatto stupore giovanile che doveva avere negli occhi
quando guardava al suo piccolo mondo, ci racconta della meravigliosa
terra celtica della Cornovaglia, delle origini della sua città natale,
dei luoghi suggestivi, come il St. Michael's Mount, omonimo del Mont
Saint Michel francese, ma più piccolo, raggiungibile a piedi dalla
strada con la bassa marea e con la barca quando la marea è alta, dei
miti e delle leggende della sua Penzance (Cormoran, il gigante di
Marazion, sconfitto da un ragazzo, Jack; gli spriggans, i nani
cattivi che rapiscono i neonati; i piskies, i nani buoni dal
berretto rosso e le calze verdi che aiutano gli anziani, ma pure fanno
dispetti). E parla del sovrannaturale (le fate, i fantasmi, le
apparizioni di carrozze trainate da cavalli senza testa o bare dirette
al cimitero), delle superstizioni e dei presagi (i pettirossi forieri di
sventura, i bambini nati fra la vecchia e la nuova luna dalla vita
breve), delle tradizioni (l’usanza di porre un pezzetto di torta nuziale
sotto il cuscino per trovare marito), delle attività locali (i
pescatori, il contrabbando), dei riti (le tipiche pasties, dolci
o salate, con inciso sopra il nome del destinatario, preparate in casa
dalle mani amorevoli delle madri).
Nella seconda parte le annotazioni di Maria si soffermano sul
trasferimento da Penzance a Woodhouse Grove, dopo la morte dei genitori,
presso la casa degli zii, sull’innamoramento per il “tempestoso”
Patrick, pronto ad accendersi, da bravo irlandese, anche per piccole
cose, ma che lei ben presto impara a rabbonire e al quale si unisce in
matrimonio dandogli subito dei figli. Concentrata, ora, sui suoi ruoli
di sposa e madre, le sue riflessioni gravitano intorno alla vita
matrimoniale, ai figli, all’attività pastorale del suo sposo, gentile,
affettuoso e che le dedica persino dei versi, ai traslochi, alle nuove
amicizie, mai mancando, però, di rivolgere lo sguardo agli avvenimenti
politici e sociali del paese e al nuovo territorio in cui è ora immersa,
l’ultimo fatale approdo, Haworth, affiorando qui e là anche nostalgie,
rimpianti, piccole inquietudini, cupi presagi, fino al tragico finale,
la morte per cancro, dopo sofferenze che possiamo solo lontanamente
immaginare quanto atroci e solo blandamente lenibili, se non addirittura
impossibile da alleviare a quei tempi!
Specchio di quello che certamente dovette essere lo stato d’animo di
Maria, malata da quasi tre mesi, sofferente, presaga dell’imminente fine
precoce, donna devota, madre consapevole che stava per abbandonare
irrimediabilmente i suoi piccoli, che sarebbero cresciuti senza avere
accanto l’affetto e il calore della loro mamma, con sensibilità
squisitamente femminile i pensieri dell’ultima pagina di diario (Haworth,
15 aprile 1821) che Maddalena De Leo attribuisce a Maria sono per Dio e
per i suoi figli, le ultime parole che affida alle sue labbra sono due
esclamazioni: Gracious Father e Oh God, my poor children!
Via via che si procede nella lettura agevole e scorrevole del romanzo,
come fosse un pittore che muovendo dall’abbozzo della forma, proceda,
poi, gradualmente a imprimere il colore, la scrittura di Maddalena De
Leo restituisce consistenza alla figura di Maria, che prende corpo, si
anima, s’illumina, a nuova vita rinasce, proprio come se, similmente ad
Orfeo che trascinò via dal buio degli Inferi la sua Euridice, la
prendesse per mano e la guidasse verso la luce.
Del resto è proprio questo l’intento che ha guidato sin dall’inizio
l’Autrice nel suo lavoro, trarre Maria Branwell dall’ombra e dall’oblio
divulgando la sua vicenda così poco nota, affinché il mondo, finalmente,
la conosca non più solo come l’evanescente madre delle sorelle Brontë,
ma come donna nella sua interezza, perciò perfetta mi pare la degna
chiusa del romanzo, in cui, autorevolmente, consegna a Charlotte il suo
pensiero:
Dopo aver descritto con parole sue la vita di sua madre, poteva esser
certa che solo in questo modo Maria Branwell negli anni a venire, non
sarebbe rimasta mai più nell’oscurità.
Importante si pone, dunque, il vibrante omaggio di Maddalena De Leo a
Maria Branwell, perché contribuisce ad arricchire le conoscenze sul
mondo brontëano e perché aggiunge un importante tassello al mosaico
dell’universo femminile perciò, superfluo dirlo, è vivamente da
apprezzare e caldamente consigliare in lettura, non solo agli
appassionati del mondo Brontë.
Francesca Santucci