Francesca Santucci
L'ULTIMA LETTERA
(dall'antologia AA.VV,. del Premio letterario De
Leo-
Brontë
2016)
Ellen Nussey a Charlotte
Brontë
Moor Lane, Gomersal, 2 novembre 1897
Mia cara Charlotte,
tace
questa notte del mese di novembre nella valle il vento, quel vento
freddo che fortemente temevi perché insidiavi la salute tua e delle tue
sorelle, ma
non svanisce il gelo, ed io sono qui che, insonne, attendo il mattino,
nel salottino che tu ben conosci, cercando di riscaldare il mio corpo al
fuoco allegro del caminetto e il mio cuore al ricordo del nostro affetto
di un tempo.
Curva sullo scrittoio, da dove tante volte la mia mano ha vergato per te
pagine che tu definivi cibo ed acqua, 2 pur sapendo
che i tuoi occhi mai la vedranno, ancora un’altra lettera, forse
l’ultima, ti scrivo.
Non c’è stato giorno della mia vita che non abbia pensato a te con
devozione, e sempre, dopo la tua dipartita, nei momenti di maggiore
afflizione, ho riletto le tue missive. Le conservo tutte gelosamente,
ordinatamente disposte in ordine cronologico, avvolte con cura in un
sottile nastro rosa tenue. Ora sono un poco ingiallite, e mute, ma se le
riprendo, e ad una ad una di nuovo le rileggo, riprendono i vividi
colori e mi gridano i tuoi dolori e le tue ansie, le tue angosce e le
tue speranze, e mi pare che tu ancora ci sia e vivi siano il nostro
affetto- prima attecchito come un seme nei nostri cuori, poi germogliato
in splendido fiore, infine irrobustitosi come un albero- e la nostra
tenera amicizia, durata fino alla fine dei tuoi giorni, iniziata in quel
lontano 1831, quando ci conoscemmo, tu,
Polly3 ed io,
alla scuola
di
Miss. Wooler a Roe Head.
Mi pare ancora di rivederti il tuo primo giorno di scuola, esile, con i
capelli scuri, il volto pallido, nel tuo abito di colore verde chiaro,
intimidita, spaurita: subito mi fosti cara!
Ripenso spesso a te, alle tue sorelle, al tuo sventurato fratello, alla
tua famiglia, al tuo reverendo padre che tanto approvava la nostra
amicizia, ad Emily e ad Anne che pure mi furono amiche, alle vostre
meste vicissitudini. Ogni
cosa fra noi rammento, ogni tuo avvenimento, slancio, entusiasmo, ogni
tua pena, perché
nulla dimentica la mente, i ricordi restano lì in un cantuccio, come
soldati disciplinati pronti ad eseguire l’assalto agli ordini del loro
capitano: così il mio cuore richiama i ricordi che affollano la mente in
quest’ora malinconica del mio declino, gravando sull’animo come
l’affanno ai polmoni.
Miei furono i tuoi dispiaceri, i tuoi dubbi, le tue malinconie, mie le
tue (poche) gioie e le tue soddisfazioni letterarie, mio il tuo dolore
quando perdesti l’inquieto fratello Branwell, mia la tua disperazione,
che per poco non ti spezzò il cuore, all’insensato strappo dalla vita di
Emily, della quale fino alla fine dei tuoi giorni parlasti e della cui
perdita sempre ti dolesti, mia la tua composta afflizione per la perdita
serena e spirituale di Anne, che, come mi scrivesti, sembrava che
fin dall’infanzia si preparasse ad una morte prematura.
Ricordo ancora come se fosse ieri le sue ultime ore a Scarboroug, quando
tu ed io, già alla sua morte rassegnate, le ci stringemmo intorno in
rispettoso silenzio: fu il tuo ultimo grande dolore la sua scomparsa! E il pensiero mi riconduce al
tuo triste ritorno a Scarborough, qualche anno dopo, spinta dal cruccio
che alla lapide della tua ultima sorella dipartita, lì seppellita nel
cimitero della vecchia chiesa del paese, non mancassero le cure
necessarie. Conservo anche quella tua lettera del 6 giugno 1852 in cui
mi parlavi della visita alla tomba di Anne, del tuo “pellegrinaggio”
(così lo definisti) necessario, doveroso da compiere e da sola,
muovendoti dalla Cliffe House di Filey, dove di nuovo avevi albergato,
anche se non proprio occupando le stesse camere, da Mr. Smith. Mi
scrivesti che spesso passeggiavi in malinconica solitudine sulla
spiaggia, oppressa dai tuoi pensieri gravi che, però, riuscivano ad
alleggerirsi con la consapevolezza di aver assolto ad un dovere che
fortemente sentivi di voler compiere, ma anche allora il tuo fragile
corpo permaneva afflitto dai mal di capo e dalle fitte al fianco dovute
(così credevi) al vento freddo: avresti lasciato questa terra solo tre
anni dopo.
Ad ogni tuo sconforto, che sempre mi confidavi e che io accoglievo con
una stretta al cuore, cercavo di spronarti a sopportarlo con fede,
esortandoti a guardare oltre le tempeste e i dolori terreni4
affinché potessi attingere nuove forze e trarre consolazione, e tu mi
davi ascolto, e tenace cercavi nuovi stimoli, proseguendo caparbia anche
la tua splendida attività letteraria, che tanto ho ammirato e che mai ho
mancato, dopo la tua scomparsa, di divulgare, tenendo viva, così, la tua
memoria.
Ripenso spesso a tutti voi, ma è soprattutto a te che va il mio
pensiero, il mio immutato affetto, la mia profonda ammirazione, amica e
sorella, con la quale avevo immaginato di invecchiare insieme, senza
mariti, perciò un poco mi dispiacque l’annuncio del tuo matrimonio, poi,
però, seppi gioirne ed esserti anche testimone dell’unione, ma ben
presto fosti travolta da un infelice destino e, fortemente intrecciati
vita e morte nella tua esistenza, come l’edera avviluppata al tronco,
come il caprifoglio al nocciolo, strappata via in modo crudele proprio
quando un raggio di luce, insinuatosi nel tuo grembo, avrebbe potuto
finalmente restituire nuova linfa alla tua esistenza.
Che gioia per me la tua felicità del tuo ultimo anno! Con tuo marito,
che un poco era geloso della nostra corrispondenza d’anime e dei nostri
intensi scambi epistolari- balsamo prezioso per entrambe- finalmente
avevi trovato l’amore tanto esaltato nei tuoi romanzi.
Dopo aver rifiutato diverse proposte di matrimonio, anche quella del mio
“noioso” (così lo trovavi) fratello Henry, infine ti eri decisa ad
accettare la proposta del reverendo Arthur Bell Nicholls, coadiutore di
tuo padre da diversi anni, che già da tempo nascostamente ti amava e
che, per l’emozione, ti aveva dichiarato il suo amore tremante come
una figlia, pallido come un cadavere5 (tue parole).
Dapprima, allontanatosi dalla canonica per l’ostilità di tuo padre, che
si era opposto al corteggiamento perché lo credeva in malafede, aveva
un’amara opinione del matrimonio e temeva per la tua fragile salute,
intrattenesti con lui una fitta corrispondenza che ti permise di
conoscere meglio le sue qualità e poi, convintosi della sua bontà anche
il tuo genitore,
lo sposasti.
Eri
radiosa il giorno del matrimonio, con le tue movenze aggraziate e i tuoi
occhi felici nel bianco abito da sposa di mussolina ricamata con
mantiglia di pizzo! Sui tuoi bei capelli bruni, elegantemente raccolti,
portavi un romantico cappello a cuffietta bordato di pizzo e fiorellini
bianchi, ingentilito da nastrini e da una fascia pallida di fiorellini
bianchi con foglioline verdi. Forse furono proprio le foglioline verdi
sull’abito candido ad accendere la fantasia della gente del posto
spingendola a paragonarti a un bucaneve, ma proprio come quel fiore a
campanella color latte con goccioline verdi all’apice di ogni petalo,
semplice e discreto, pudico e puro, simbolo di vita e di speranza, che
sopporta il gelo e, annuncio di primavera, magicamente riesce a bucare
la neve, che brevemente fiorisce e subito china il capo, anche tu presto
sfioristi, e proprio nel tempo in cui più eri aperta alla speranza, al
futuro.
Trascorresti la luna di miele in
Irlanda, dove conoscesti i tuoi parenti acquisiti e scopristi di tuo
marito nuove qualità che ti resero ancor più orgogliosa di lui e sicura
della tua scelta. Dopo tante amarezze e dispiaceri finalmente la vita
sembrava sorriderti al tepore del sacro focolare domestico, il
matrimonio ti rendeva felice, appagata, serena, ma,
puntuale, giunse la crudele beffa del destino: la morte venne a
reclamarti proprio ora che avevi scoperto le gioie coniugali accanto ad
un uomo buono e gentile che ti coinvolgeva anche nelle sue attività
parrocchiali.
Da
sempre fragile di costituzione, debilitata come le tue sorelle dalla
malattia polmonare contro la quale pure avevi lottato, costretta a letto
per disturbi legati alla tua nuova condizione di donna in dolce attesa,
dopo aver a lungo sofferto, indebolita, nauseata dalla vista del cibo
che poi, negli ultimi giorni, avidamente avevi cercato in un ultimo
disperato sussulto di vita, non in eroica sfida al destino come Emily,
non rassegnata alla fine come Anne, infine prostrata, dopo soli nove
mesi di matrimonio, mancasti, prima di riuscire a dare alla luce il
figlio che attendevi, nella tua Haworth, nella casa che avevi condiviso
con le tue amate sorelle, con tuo fratello, con tuo padre, con tuo
marito, in quella brughiera tanto amata che per tutti voi Brontë fu
insieme vita e morte. Era il 31 marzo del 1855 quando i tuoi due uomini,
riappacificati e in concordia, rimasero soli nella canonica grigia.
Dal
tuo letto di morte, debole, eri riuscita a scrivere un ultimo biglietto
alla tua Nell5 concludendo Possa Dio confortarti e
aiutarti.6 E Dio solo sa quanto nei mesi, negli anni a
venire ebbi bisogno del Suo conforto e del Suo aiuto per sopportare lo
schianto della tua perdita! Fu come un temporale paventato
che, quando arriva, sorprende per l’inaudita violenza la notizia della
tua morte, che mi raggiunse attraverso un biglietto di Mr. Nicholls: al
solo ricordare ancora adesso mi si gela il cuore!
In questo periodo la natura è triste e silenziosa, il paesaggio è di un
colore pallido uniforme, e le colline sepolte in oceani di nebbia
sembrano defunti avvolti in un velo funerario. Sono triste anch’io
perché penso che il tempo è inclemente e che vano è ricordare il
passato: mai più torneranno i giorni andati.
Prima, insieme alla preghiera, consolava i miei affanni contemplare la
natura, rasserenava il mio animo ascoltare la voce delle foglie fra gli
alberi del bosco, il mormorio del ruscello, guardare il lento andare
delle nuvole nel cielo, la luna sospesa sulle cime dei Pennini, 7
ora mi immalinconisce e mi commuove perché, inevitabilmente, mi riporta
alla mente quando venivo da te, attraversando malamente in carrozza la
ripida e stretta via di Haworth ansiosa di rivederti e di passeggiare
serenamente con le tue sorelle e con te- sia quando il cielo era limpido
e soave, sia quando si mostrava plumbeo- fra le lande selvatiche e le
ampie distese delle eriche porporine in fiore contro le rocce scure di
arenaria. In quel vostro angolo di mondo, ai confini di un regno del
silenzio interrotto solo dai voli dei fanelli e delle allodole, ero
felice.
Io che ho sempre sostenuto te,
ora che la solitudine
e il rimpianto sono i compagni di questi miei severi anni,
quanto avrei bisogno del tuo sostegno,
ma da tempo, ormai, sprofondata
nel buio della notte senza sogni, sotto quel lembo benedetto di terra,
in quella piccola chiesa, immobile giaci.
I
miei pensieri, nelle mie ultime ore, nei miei ultimi giorni, sono
rivolti a te, cara amica del cuore per l’intera mia lunga esistenza,
quest’ultima lettera è un congedo, dalla vita e da te.
Addio, anima eletta e pura! Come vorrei che in qualche modo, per vie
sconosciute agli umani, queste mie parole potessero ugualmente
arrivarti, la loro eco riverberando oltre il tempo e lo spazio, guidata
dalla profonda comunione di anime che v’era fra noi e che ancora io
sento, ma, se a Dio piacerà, ci sarà concesso di ritrovarci, spiriti di
luce, fra le sfere alte del Cielo risonanti delle melodie della Grazia
divina.
Ora
non mi rimane che attendere che sia fatta la Sua volontà.
tua Nell
1)
Ellen Nussey morì il 26 novembre 1897. La lettera s’immagina scritta
nell’ultimo suo mese di vita.