Francesca Santucci
L’ODORE DELLA NOTTE
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(dall'antologia AA.VV., Le città invivibili. Bulli ed eroi nella
filmografia di Caligari e Mainetti , Efesto Edizioni 2017, presentata Il
4 settembre 2017 nello Spazio della Regione Veneto presso
l'Hotel Excelsior al Lido di Venezia, per l’XI Edizione della
rassegna promossa dal Centro Studi di Psicologia dell'Arte e Psicoterapie
Espressive dedicata alla filmografia internazionale a cura di Paola Dei.)
Comunicato stampa
Omicidi, rapine, rapimenti, stragi, crimini nelle più disparate forme,
perpetrati da singoli o da gruppi organizzati, con conseguenti scontri a
fuoco fra malviventi e poliziotti, con feriti e morti, spesso anche fra
innocenti malcapitati la cui sventura è quella di trovarsi per caso nei
luoghi dei conflitti: in ogni stato del mondo civilizzato, anche in
Italia, tragica realtà è la criminalità. Fenomeno purtroppo sempre in
aumento, oggi avviene indifferentemente a tutte le ore, ma un tempo era
specifico della notte, tanto che si ha notizia che già nel 1274 nella
Repubblica di Venezia era stata istituita una particolare magistratura con
compiti di polizia (prima due, poi sei patrizi chiamati “Il Collegio dei
signori della notte al Criminal”), che si occupava proprio dei vari reati
commessi durante la notte (furto, assassinio, stupro, percosse,
meretricio, etc.) con arresti, interrogatori, processi, anche il supplizio
della corda, prevalentemente tenuti al tramonto o durante le ore notturne
nella Camera del Tormento, una sala del Palazzo Ducale. Claudio
Caligari, regista che, per invitare a riflettere su temi importanti come
la droga e la delinquenza, sempre amò documentare storie dolorose
fortemente legate al contesto storico nel quale si muoveva, trasportando
in maniera realistica, lontano dalla finzione, la cronaca dalla strada
allo schermo, per il suo secondo lungometraggio s’ispirò, appunto, ad una
tragica vicenda criminale “notturna”, realizzando, nel 1998 (a ben
quindici anni di distanza dal suo esordio con “Amore tossico”, a
testimonianza delle difficoltà a trovare finanziatori per i suoi film non
da botteghino), un altro lungometraggio di qualità presentato fuori
concorso alla 46ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia,
nella selezione della
“Settimana della critica”:
“L’odore della notte”.
Il film fu liberamente ispirato al romanzo poliziesco “Le notti di Arancia
meccanica” di Dido Sacchettoni,
giornalista, collaboratore di Repubblica, scrittore e autore per la Rai di
numerose inchieste televisive che, da un'indagine sulla malavita romana,
aveva tratto il suo romanzo verità, ricostruzione delle gesta della
famigerata banda di delinquenti formata da Agostino Panetta (più volte
intervistato in carcere dal giornalista per raccoglierne la testimonianza)
e dai suoi compari (svariati, in ordine di tempo gli ultimi furono
Giuseppe Leoncavallo e Maurizio Verbena), che, fra il 1979 e il 1983, agì
fra Torino e, soprattutto, Roma.
La banda si muoveva di sera, dalle borgate verso i quartieri bene della
capitale, per depredare i ricchi borghesi, aggredendoli fisicamente e
psicologicamente, violando la loro intimità irrompendo nelle loro case,
minacciandoli (le donne di stupro), terrorizzandoli, picchiandoli,
legandoli (quasi sempre con delle cravatte), non esitando, per
costringerli ad aprire i loro nascondigli e le loro casseforti, a
ricorrere anche a sevizie: ad un uomo venne immersa la testa in un
lavandino pieno d’acqua, a un ragazzino, che non voleva rivelare dove
fossero conservati i beni di famiglia, venne tagliato il pigiama addosso
sotto gli occhi del padre per far capire cosa gli sarebbe accaduto se non
avesse parlato, e sette donne furono costrette a subire violenza carnale.
Le modalità adottate erano sempre le stesse: i rapinatori seguivano le
persone adocchiate fin sotto la loro abitazione, poi, armi in pugno, le
minacciavano e le costringevano a farli entrare in casa, dove le
derubavano di soldi, gioielli e oggetti preziosi, ma non andavano via
subito, aspettavano che facesse l’alba, costringendo i rapinati a
preparare per loro la cena, infine, quando la città si rianimava e
avveniva il cambio dei turni delle pattuglie di poliziotti e carabinieri,
dopo aver legato e imbavagliato le vittime, a bordo di una potentissima
auto fuggivano in direzione del Raccordo Anulare, tornando velocemente
alla loro "base”, un bar a Torre Maura di proprietà dell’ex poliziotto,
subito preoccupandosi di vendere ai ricettatori il bottino per non essere
scoperti dalla polizia.
Tra le vittime di quelle terribili notti- più di settecento rapinati- vi
furono anche personaggi “eccellenti”, del mondo dello spettacolo,
industriali, giornalisti, professionisti, politici, come il cantante
Peppino Di Capri, l’attore Fabio Testi, l’attrice Zeudi Araya, il
produttore Franco Cristaldi, l’ex calciatore della Lazio Carlo Perrone,
l’arbitro Massimo Ciulli, il parlamentare della Dc Camillo Federico.
La banda, che per molto tempo seminò il terrore, rubando, razziando,
picchiando, umiliando, violentando, fu, poi, sgominata nel 1984. Al
processo tenuto nell’ex palestra del Foro italico furono quasi duecento le
vittime che si presentarono per reclamare non vendetta ma giustizia. Per
tutti vale ricordare la dichiarazione rilasciata a un cronista da Fabio
Testi: "Perchè sono qui? Perchè non voglio che accada ad altri quello che è
accaduto a mio figlio che doveva ancora nascere: per sei ore è stato con
la pistola puntata addosso”.
Così, invece, dichiarò al giudice il capo della banda, Agostino Panetta: "Io so di dover pagare. Ne ho fatte tante... io che non ho mai sopportato
la prepotenza sono stato un prepotente: ho colpito vittime senza colpa,
seguito la via più trucida e più brutta per dimostrare la mia
pericolosità. Quella che, allora, mi sembrò una conquista, una
rivalutazione di me stesso. Mi sentivo quasi inviolabile e, lo ammetto,
nel ’79 se avessi dovuto uccidere lo avrei fatto. Due anni dopo, non più.
Iniziavo già il percorso inverso". Liberamente ispirandosi al romanzo, Claudio Caligari realizzò un film
ambientato fra gli anni settanta e ottanta (novembre 1979- febbraio 1983),
gli anni di piombo, del terrorismo, che riprendeva il genere poliziottesco,
declinandolo, ovviamente alla sua maniera, fra ricerca sociale e ironia,
proponendo allo spettatore le
vicende di un’efferata
banda dell’estrema periferia romana (“la
banda delle case”) guidata da Remo Guerra,
un giovane borgataro
dalla doppia vita, di giorno poliziotto, di notte rapinatore, una sorta di
“Rambo” di quartiere che, con
livore, in odio di classe,
sentendosi forte e inviolabile
solo esercitando
il male,
in nome di un riscatto sociale non conquistato nemmeno schierandosi dalla
parte della legalità come tutore della legge,
si ribella allo Stato nell’unico modo appreso nel mondo della borgata:
divenendo un rapinatore seriale, seminando il terrore nei quartieri alti
attraverso un’efficace tecnica criminale, in un crescendo di violenza,
prima agganciando le vittime per strada, poi seguendole in macchina,
infine introducendosi nelle loro case.
Dopo aver fatto moltissime rapine, Remo, insofferente alle regole e alla
continua sorveglianza dei suoi superiori, lascerà la polizia, continuerà
le sue violente scorribande, verrà arrestato dopo una rapina, tornato
libero riprenderà la sua vita di terrore col suo gruppo di compagni, sarà
ferito, andrà in carcere, poi sarà tenuto agli arresti domiciliari, infine
tenterà il cambiamento aprendo in periferia un bar con i suoi complici, ma
lui e i suoi cominceranno a mostrare segni di stanchezza (Remo che
s’addormenta durante una rapina, oppresso dal pensiero dei debiti per
l’apertura, non tanto convinto, del bar, e sorvegliato dalla polizia; il
“Rozzo” che non vuole più essere chiamato col suo soprannome; Massimo che
perde i proiettili dalla pistola).
Infine, rendendosi conto dell’impossibilità di continuare quella doppia
vita, cominciando a prendere le distanze dall’ansia di vendetta sociale
che lo ingabbia e che, ormai, lo sta opprimendo, come un cappio che si
stringa intorno al collo di un condannato, dopo una rapina in un
appartamento di alto livello, dove la banda si troverà di fronte i
rappresentanti dei poteri della società, quello politico e quello
religioso che, con forza, ne difendono l'esistenza, e che cercheranno di
ricondurre tutti alla ragionevolezza (il politico della Democrazia
cristiana promettendo un posto di lavoro, il sacerdote spingendo al
ravvedimento), Remo, quasi come una sorta di liberazione, insieme ai suoi
si arrenderà alla cattura.
Il cancello della villa dove avranno fatto l’ultima rapina che si chiuderà
alle sue spalle sancirà la fine di quel modo di vivere. Straordinario il cast del film, con interpreti tutti di altissimo livello.
Per il personaggio di Remo,
che rapina prima per il brivido che per i soldi,
in fondo già rassegnato alla sconfitta, Claudio Caligari scelse
Valerio Mastandrea,
attore di teatro, cinema e televisione (candidato otto volte ai David di
Donatello, vincendo per ben tre volte il premio), anche produttore
dell’ultimo film di Caligari, “Non essere cattivo”. Già
abbastanza conosciuto all’epoca, ma qui alla sua prima prova drammatica,
convinse il regista a sceglierlo “la sua
fisionomia, quel viso scavato e quell'aria proletaria" (come ebbe a
dichiarare lo stesso Caligari), rivelandosi perfetto
per il ruolo, calandosi subito nel personaggio e offrendo una delle sue
prove migliori,
occupando carismatico la scena, con una recitazione convincente, nervosa,
ma non esasperata durante le azioni violente, malinconica nei momenti
delle riflessioni e dei ripensamenti sulla sua esistenza. Valerio Mastandrea fu
affiancato da ottimi interpreti ancora agli esordi come Marco Giallini,
allora già
attore di teatro e di cinema di alto livello ma non molto noto, nella
parte
di
Maurizio Leggeri, il coatto amante della bella vita senza lavorare,
Giorgio Tirabassi, perfetto nel personaggio di Roberto Salvo, che vive in
una baracca con la moglie e il figlio, rapinatore per bisogno
(che,
dopo aver guardato Remo lavar via il sangue dalla catenina d’oro, che ha
strappato poco prima con inaudita ferocia ad una donna, decide di
abbandonare il gruppo)
e
Emanuel Bevilacqua (Marco
Lorusso, il "Rozzo"), scelto dal regista dalla strada,
per la sua faccia da borgataro, quando ormai “disperava di trovare un attore
che avesse le caratteristiche fisiche estreme del personaggio” (parole del
regista!), dopo che era stato visto girare in moto intorno al set
dove si stava girando. Ruoli cameo anche quello tragicomico di Little Tony, interprete di se
stesso, quello di “Mezzalira” (l’ottimo Federico Pacifici, versatile
attore teatrale, cinematografico e televisivo, regista, scrittore e
sceneggiatore), il ricettatore che accetta ogni tipo di bottino, anche il
“fumo” offertogli dal “Rozzo” (“Certo che me
lo
pijo!
Me pijo
tutto io!”) e quello di Attilio (Giampiero Lisarelli, attore di cinema,
teatro e televisione), il malvivente che si presenta per la rapina
profumato di “Àzzaro” e che fuma una “canna” in casa di una vittima
suscitando lo sconcerto dei suoi compagni e di Mezzalira, che caldamente
lo aveva raccomandato a Remo. Cupo e spavaldo, sordido e ironico, anche malinconico, come ben sottolinea
l’accompagnamento musicale di
Pivio e Aldo De Scalzi, soprattutto con le trombe e i flicorni jazzy nelle
atmosfere “notturne”
(ma il film è arricchito anche dalla celebre canzone “Cuore matto” di
Little Tony, che accompagna i titoli di coda del film, e da
"Ma il cielo è sempre più blu" e "Aida",
due splendide canzoni del compianto Rino Gaetano,
cantautore nei cui brani - apparentemente disimpegnati, ad un’attenta
lettura di denuncia sociale- sempre convivevano
verità e sarcasmo),
il film
si snoda in modo concitato e veloce, consentendo un’immersione totale
nella storia
tutta improntata alla violenza (ma anche al suo ripensamento), all’
asprezza della vita e al disprezzo del pericolo e del rischio, motivata
dalla voglia del protagonista di non piegarsi, nella propria esistenza, a
fare un mestiere normale e omologato,
attraverso espressivi dialoghi in romanesco.
Straordinaria l'ultima inquadratura che vede Remo girarsi e, con aria di
sfida, aprire il fuoco del suo mitragliatore contro la camera, contro lo
spettatore, contro la notte.
La notte,
divinità primigenia figlia del Caos, sorgente di tutte le possibilità che
troveranno piena manifestazione soltanto alla luce del giorno, da tutti i
popoli adorata sin dall’antichità sotto forme e nomi diversi. Dai Greci
chiamata “Nyx”, dai Romani “Nox”, dal sanscrito “Nac”, che significa
“tempo nel quale sparisce la luce”, unitasi al fratello Erebo generò le
Erinni (le tre Divinità infernali): Aletto (il Turbamento), Tesifone (la
Vendicatrice), Megera (l’Odio). Col Caos, poi, ebbe il Destino e Hypnos,
da sola partorì le Moirai (le dee del Destino) e quelle nefaste divinità
che sono causa di sofferenza per l’umanità: la Fame, le Tenebre, i Lutti,
la Sventura, la Vecchiaia, la Malattia, la Morte. Nell’immaginario dell’antichità alla notte si legano disarmonie,
confusione,
risentimento, dolore, proprio
come nel film di Caligari, dove i protagonisti sembrano incarnare le
forze sotterranee del Male,
muovendosi col favore delle tenebre, causando, attraverso le loro azioni
violente, turbamento, disordine, sventura, sofferenza. Caligari li presenta da subito spavaldi, arroganti, volgari, la loro
strafottenza è nella parlata borgatara, nella mimica del corpo, in ogni
gesto, negli occhi, anche quando non si vedono perché celati dagli
occhiali, come nella scena in cui uno straordinario Giallini intima all’
incredulo Little Tony (“Ma io sono Little Tony!”), impaurito (infatti
nell’interpretare il suo brano stonerà) che vorrebbe capire, instaurare un
dialogo col rapinatore, di cantare “Cuore matto” minacciandolo con la
calibro 9: “A Tonino, ma invece de dì
cazzate, pecchè nun ce canti na canzone?” Per far comprendere da subito la personalità non solo della mente, ma
anche degli altri componenti della banda, di grande efficacia la scelta
del regista di affidarne la descrizione alla voce fuori campo di Remo,
amara, distaccata, ironica nella narrazione, che parla a se stessa prima
di parlare agli altri, immediatamente qualificando la natura criminosa dei
suoi atti, di sé raccontando: “L’illegalità era il mio mestiere uscivo spinto da qualcosa di curioso che
mi soffiava alle spalle, affamato di prede e violento come un animale che
non ha abbastanza spazio. Era come se caricassi la città.” Maurizio, invece, l’autista,
è
quello delle occasioni mancate. Sarebbe potuto diventare
un buon pilota di competizione, riuscendo, invece, a perfezionarsi solo
come ladro d’auto, arrivando a rubarne dieci al giorno. Esce dal gruppo,
si sposa, poi rientra nel gruppo, ma
con un problema di coca. Roberto, il più sensibile, commette i crimini per sfamare la famiglia e
con la costante cupa ossessione di andare in prigione: infatti per primo
lascerà il gruppo, costringendo Remo a comprare un bar e ad uscire
dall’attività criminale e poi, quando riprenderanno a fare rapine, sarà
sostituito dal “Rozzo”, con un passato alle spalle di miseria ed
emarginazione, appartenente ad una famiglia numerosa emigrata dalle Puglie
e stabilita in una baracca, tanto “grezzo” da non sapere cos’è “ un libbro”. Ma già dalle prime scene, nel clima concitato, di violenza, si palesa il
diverso atteggiamento, rispetto ai suoi compagni, di Remo, un solitario,
di poche parole,
insoddisfatto, in guerra contro il mondo, soprattutto
contro quelli che, secondo lui, hanno avuto un destino migliore, eccitato,
esaltato, mentre aggredisce furente i rapinati, aggressivo, violento anche
verbalmente (ma i suoi degni compari non sono da meno), con le mani
sporche del sangue delle vittime: eppure in lui balena un barlume di
ripensamento.
Nessuna luna romantica illumina le notti terribili del film, a dominare è
il nero dell’abisso, dei predatori che scendono sempre più in basso nel
baratro della violenza, è il nero della disperazione delle vittime. La
notte, che i poeti così spesso hanno invocato nei loro versi quale foriera
di pace, nel lungometraggio di Caligari non è quiete, pausa, riconquista
di energie per il nuovo giorno, è
teatro di nefandezze,
attività illegali, illecite, attentato all’ordine precostituito, violenza
al prossimo, priva di qualsiasi bellezza, ha odore, non profumo. Non un
raggio di luce la rischiara, è tenebrosa, tetra, oppressiva, paurosa, buia
come l’abiezione nella quale sono cadute le anime dei rapinatori,
vigliacchi che di notte scatenano le loro pulsioni aggressive verso gli
altri. Complice con il suo silenzio, falsamente è quieta: infatti è
turbata dalle grida e dai gemiti delle vittime, dai sussurri e dalle urla
della banda che terrorizza i rapinati, dai loro movimenti convulsi, dai
suoni taglienti dei click dei caricatori delle armi, dalle sirene della
polizia, dal rombo della loro auto che, per sfuggire alla cattura, si
lancia in folle corsa. Il film, mesto viaggio nella Roma degli anni bui per l’Italia, anni in cui
la polizia, impegnata a combattere il terrorismo, trascurava la lotta alla
criminalità comune, in crudo realismo, attraverso scene d’azione girate
con inquadrature frenetiche (come deve essere una pellicola del genere
poliziesco, tanto amato dal regista, che, però, seppe abilmente evitare
superflue esagerazioni), scivola rapido e scattante fin quasi alla fine,
per poi frenare nel disilluso e malinconico finale.
Tante le citazioni del regista al cinema del genere. Troviamo un omaggio a
“Taxi driver” di Martin Scorsese nella scena in cui Remo Guerra si allena
davanti allo specchio a puntare la pistola e quando con la gamba fa cadere
a terra il televisore (mentre scorrono le immagini della soubrette Heather
Parisi che canta e balla la popolarissima "Cicale").
E poi, durante la sequenza del furto in casa del presunto conoscitore
della malavita, quando Remo gli dice: "Hai visto, non succede solo nei
film, succede pure davero”, alle sue spalle si vede scorrere una scena di
"The Great Train Robbery" (La grande rapina al treno), pellicola
statunitense del 1903 del regista Edwin S. Porter, che tratta appunto di
una rapina. E Porter è citato anche nell'ultima inquadratura che precede i
titoli di coda, allorché Remo, proprio come accade nella scena finale del
film americano al capo dei banditi, ripreso a mezzo busto, punta la
pistola contro la macchina da presa e spara ripetutamente. Notevole in questo film, riconosciuto di “interesse culturale nazionale”
dal Dipartimento dello Spettacolo della Presidenza del Consiglio dei
Ministri”, la regia di Claudio Caligari, schietto, autentico, capace di
raccontare dal basso, ma con lucidità, storie di tragica attualità,
esplorando con occhio attento, carrellando con precisioni fin nei minimi
dettagli, le azioni dei personaggi,
mantenendo sempre un tono narrativo distaccato, impersonale,
senza mai né
emettere giudizi morali sui comportamenti trasgressivi
dei protagonisti
né ponendosi dalla loro parte, semplicemente riprendendo la loro verità,
premendogli mostrare, non giudicare, la natura sfaccettata dell’essere
umano, misto di bene e male, attraverso le azioni di anti-eroi, disperati
di estrazione sottoproletaria, evoluzione negativa dei personaggi
pasoliniani ai quali pure, come in “Amore tossico”, allude, predestinati
sin dall’inizio
all’autodistruttiva conclusione: la cattura. Rimane il rammarico che, per varie circostanze, non sia riuscito a portare
a termine i suoi numerosi progetti
restando, non per sua scelta, ai margini del cinema industriale, riuscendo
a realizzare solo tre, ma indimenticabili, lungometraggi, tutti
presentati a Venezia:
“Amore tossico” (1983), “L’odore della notte “ (1998) e “Non essere
cattivo” (2015). Piace ricordare Claudio Caligari,
patrimonio indiscusso della nostra cinematografia di "culto",
con le parole di Valerio Mastandrea nella lettera aperta sull’Espresso
scritta a Martin Scorsese
il 3 ottobre 2014,
sperando in un aiuto finanziario per la realizzazione di “Non essere
cattivo”, come un grande regista con “poche opportunità di poter
dimostrare il suo valore”, ma che “
Quando le ha avute, lo ha fatto”.
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