Carlo Perindani (Milano 1899 - Capri
1986), Marina di Capri.
Breve era il tratto di mare che separava il borgo in cui
vivevo dall’ isola dalle rupi rosee contro il cielo azzurro,
meravigliosa con le ripide scogliere a picco sull’acqua
cristallina, le piccole baie, le grotte suggestive dalle
strane forme assunte dalle stalattiti e stalagmiti nel corso
dei secoli, le spiagge incastonate nel paesaggio
d’incomparabile fascino, ed ogni anno attendevo con ansia il
momento magico in cui avrei potuto raggiungerla e godere della
sua selvaggia bellezza. Vi arrivavo in barca, accompagnata dal
pescatore più anziano del luogo -che mi avrebbe attesa al
largo, calando le reti in attesa della pesca fruttuosa- e poi
a nuoto quando, giunta in prossimità, distante solo pochi
metri la riva, mi sarei tuffata e, a larghe bracciate, sarei
approdata su una piccola spiaggia solitaria. Seduta sulla sabbia bianchissima, investita da una luce
abbagliante che, insinuandosi fra grotte e insenature,
riverberava argentea sulle acque increspate, sostavo qualche
istante per riprendere fiato, intanto che il mare s’avvolgeva
d’un silenzio irreale, interrotto soltanto dal ritmico ansare
della risacca. Poi mi prendeva il bisogno di andare in esplorazione e,
accompagnata dai dolci voli e dai rauchi stridii dei gabbiani, ogni volta l’isola
rinnovava il suo incanto, attraverso i suoi colori,
i profumi, gli odori: il bianco del mirto, il giallo dei
limoni, il verde del basilico, il pastello degli oleandri, il
rosso del lentisco, il violetto dell’erica, l’oro della
ginestra.
Salivo fin sulla cima dove, a
dominare il paesaggio, svettava un antico castello normanno,
dalle cui torri spettacolare era il colpo d’occhio sul mare
turchino: qui, per un tempo interminabile, sostavo rapita in
contemplazione della bellezza del luogo, e a fatica mi
allontanavo per rifare il cammino all’inverso. Ritornata sulla spiaggia, lentamente i piedi affondando
nell’umida rena, frugavo con lo sguardo e scovavo legnetti,
alghe, frammenti di vuoti gusci calcarei, residui delle
miriadi di conchiglie provenienti dalle profondità degli
abissi, che le onde del mare, con il loro moto incessante,
avevano ridotto in granelli sbattendole contro gli scogli.
Spesso, poi, ero più fortunata, quando, fra i resti delle
morte conchiglie e delle alghe fradice, m’imbattevo in quello
che consideravo il tesoro prezioso dell’isola, afflosciate e
inerti vesciche che un tempo erano state splendidi globi
iridescenti, saliti a fior d’acqua dalle profondità,
pericolosi al tocco anche quando ormai spiaggiati: le meduse.
Lì, su quell’isola, in solitudine, ma non sola, fra le voci
dei gabbiani e lo sciabordio ritmico delle onde del mare che,
come in un abbraccio, la circondava, s’accendeva la mia
immaginazione e, se chiudevo gli occhi, mi pareva che quegli
esseri inerti, fra i più lievi ed evanescenti che il mare
produca, si rianimassero e assumessero forma di eteree
danzatrici, e, prendendomi per mano, mi guidassero in uno
spensierato giro di valzer che mi faceva dimenticare ogni
affanno… Ma il fischio in lontananza del
pescatore che veniva a riprendermi mi riportava alla realtà:
era tempo di abbandonare la mia isola e, insieme, la me stessa
mistica e spirituale che ero stata in libertà ed armonia.
Domani, sarei ritornata di nuovo domani, a riviverne l’eterno
incanto.
|