Francesca Santucci
LETTERA ALLA MADRE
(dall'antologia AA.VV., "Lettere
d'amore" ,
Kimerik 2022)
Bergamo,
dicembre, Anno Domini 1631
Cara madre,
in questo tempo cupo, flagellato dall’orribile pestilenza, che
non ha devastato soltanto la città nel cui monastero da tempo
dimoro, consacrata la mia esistenza al Signore, ma anche Milano,
Brescia, Mantova e quasi tutta le città del settentrione,
ringraziando Iddio, sono riuscita a scampare al morbo che, ho
appreso, miracolosamente,non ha toccato la città nella quale vivete. Qui
l’epidemia di peste bubbonica, arrivata, dopo una carestia,
dalla Valtellina, portata dai soldati alemanni dell’'imperatore
di Germania Ferdinando II, quando sono entrati nel territorio
del Ducato di Milano per assediare Mantova, sembrava
inarrestabile. Vani tutti i tentativi per respingerla,
trincerare le vie, chiudere le scuole, i mercati, le botteghe di
rigattieri e straccivendoli, vietare ogni commercio ambulante,
sbarrare le entrate delle chiese, istituire lazzaretti nei quali
isolare in quarantena i malati: avanzava furiosa come un fiume
in piena, ovunque s’insinuava, tutti insidiava o falciava.
Anche un evento religioso fu causa della sua diffusione. Lo
scorso anno, il 30 maggio, per celebrare la solennità del
“Corpus Domini” e san Nicolò, i frati di sant’ Agostino
organizzarono una processione alla quale partecipammo anche noi
suore. Grande fu l’afflusso del popolo, che ricevette dai frati
in dono pani benedetti con la virtù di preservare dalla peste.
Ebbene, tra le persone accorse alla processione, la sera stessa
sessanta fra uomini e donne si accorsero di aver contratto il
morbo. La pestilenza dilagava, ormai, non solo in città, ma quasi in
ogni zona del territorio bergamasco, in val Brembana, in val
Seriana, a Treviglio, Caravaggio, Palazzolo, Brembate di Sotto,
Carvico, Mapello, Villa d’'Adda, Seriate, Nembro, Alzano. I
morti venivano sepolti fuori dalle mura, i familiari malati
mandati al lazzaretto e le loro case segnate con una croce
bianca per indicare che erano infette.
Raccolta nel mio spirito, concentravo tutte le mie preghiere
acciocché Iddio ci liberasse da questa sciagura, mai
tralasciando lavoro, studio e carità, prodigandomi
concretamente, insieme alle mie consorelle, ad aiutare i poveri
sofferenti, che si contavano a centinaia, confortandoli con
scodelle di brodo caldo, quando ancora potevano trangugiarlo, o
con le parole. Le persone contraevano il morbo all’improvviso, il male si
manifestava in modo atroce, con febbre alta e forti mal di capo,
ai quali seguiva la comparsa di bubboni sul collo, sotto le
ascelle e all’inguine, e di vesciche purulente diffuse su tutto
il corpo.
Nella maggior parte dei casi la malattia era fulminante e
portava alla morte nel giro di tre o quattro giorni, dopo
sofferenze atroci, tra vomito e delirio, ma non di rado l’esito
letale sopraggiungeva dopo un tempo più lungo, e, spesso, i
malati non avevano nemmeno un medico accanto, perché scarsi
erano i medici, che
o negavano che il morbo esistesse o, per paura di contrarlo, si
nascondevano, e i pochi disponibili erano sconfortati. Contro
queste sostanze invisibili, causa del contagio, non altri rimedi
si sapevano adottare se non di tenersi lontani gli uni dagli
altri, vietare i contatti commerciali, cospargere le strade di
erbe e ortiche,
nelle vie accendere grandi fuochi di legno di cipresso, larice,
ginepro, in casa di tenere profumate le stanze con fumigazioni
di zolfo. Rarissimi erano i casi di guarigione. A causa del numero crescente di contagi, innumerevoli erano i
morti. I cadaveri venivano seppelliti fuori le mura della città,
tra i baluardi delle porte di san Lorenzo e di sant’Agostino,
nelle fosse comuni, i cosiddetti
“fopponi”", e, per coprire il lezzo, si provvedeva a ricoprire
la zona con calce viva e si bruciavano fronde di piante odorose. Nessun rimedio si rivelava utile per combattere il morbo, non
c’era alcun farmaco efficace per curarlo, e molti di noi si
affidavano a metodi improvvisati, come portare fra le mani una
palla di cipresso, di lauro, di ginepro, svuotata all’interno e
riempita di una spugna intrisa di aceto, ruta, maggiorana, rose
rosse e grani di canfora, o masticare cose aspre e acetose, o
ingerire olio di scorpione, e partecipare a processioni e riti
devozionali, con grande affluenza del popolo che credeva la
peste una punizione divina per i nostri peccati. Allora eravamo tutti come ciechi, ci muovevamo nel buio, non
sapendo cosa fare contro quella terribile pestilenza che
falciava senza pietà, ma io, come la santa di cui ho adottato il
nome entrando in monastero, ho sempre intravisto uno spiraglio
di Luce e mai nemmeno una volta ho pensato che il Signore
ci castigasse. Come potrebbe? Lui è dispensatore di Amore, e,
fra tanto male e devastazione, anche quando addolorato e
inorridito il mio sguardo si posava sui cumuli di cadaveri
giacenti per le vie, soprattutto su quelli che da giorni
giacevano ammucchiati sulle mura di san Lorenzo, sono riuscita
sempre a scorgere
uno spiraglio di Luce e d’Amore, fedele ai Suoi comandamenti:
“Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore e con tutta la
tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza.
Amerai il prossimo tuo come te stesso”.
Ho visto l’Amor di Dio, il Suo verso di noi nel darci la forza
di sopportare quest’orrenda sciagura e il nostro verso di Lui,
in tanti momenti: nella compassione di quanti, in quelle ore di
sventura, hanno soccorso i sofferenti; nella pietà verso i
cadaveri dei “nettezzini”, i becchini, muniti di un campanello
per segnalare il loro passaggio, pagati per trasportare i malati
sui carri al lazzaretto, dove li attendevano le celle per gli
appestati, e per condurre i cadaveri dalle case alle fosse;
negli occhi dei moribondi che, fiduciosi, si abbandonavano a Lui
nell’ora estrema. Negli occhi di tutti sempre ho letto la
profonda com-mozione per l’umana sventura collettiva, la pietà
verso l’altro. E sempre alle mie labbra sono salite parole di
fede e speranza e di rinnovato Amore per Dio, certa che ci
avrebbe liberato da quest’orribile sciagura. Fiduciosa nell’Opera Divina, ho pregato, pregato, sempre
pensando anche a voi, madre mia adorata, a voi che mi teneste
nel vostro grembo, a voi, mia prima fonte d’Amore, che mi deste
quella vita che pure nelle ore disperate dei mesi trascorsi mai
ho considerato supplizio, a voi, a me carissima quanto l’altra
Madre, quella celeste, alla quale pure ricorro nelle ore più
gravi, invocandola affinché anche Lei ci soccorra e ci protegga. E le mie preghiere sono state ascoltate, dopo il buio la luce,
l’Amore di Dio ha sconfitto le tenebre, la situazione è
migliorata e voi siete rimasta indenne. L’ agosto passato ci ha portato frequenti piogge, che hanno
abbattuto quasi del tutto i casi di pestilenza. Già a metà del
mese non si sono più verificati che due o tre casi al giorno, e
la virulenza del male è diminuita, cessando del tutto con
l’autunno. Ricorderò sempre il suono della pioggia nelle vie: mi sembrò un
canto d’Amore. Anche allora rivolsi al Signore e alla Madre
celeste le mie preghiere di ringraziamento per averci sollevato
dalla sventura.
Cara madre, termino questa lettera con il volto rigato di
lacrime, insieme di dolore e di gioia, ripensando all’infelice
periodo trascorso e pensando al più fausto tempo presente.
Conservatemi sempre il vostro affetto. Io conservo il vostro e
non manco mai di raccomandarvi nelle mie preghiere. Vostra affezionatissima figlia
Suor Lucia
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