Francesca Santucci
L’amore
è un cane
Accadde quel giorno: la follia e la morte insieme…
Quella mattina, prima di aprirgli la porta, aveva provato
sgomento rimirandosi allo specchio e, finalmente, aveva
compreso perché le acque, i mari, i laghi, i fiumi, fossero
stati creati limpidi, perché riflettevano le immagini, perché
Narciso fosse rimasto affascinato dal suo volto nel tentativo
di rimirarsi, e perché l’uomo avesse desiderato emulare le
acque inventandosi gli specchi: per guardare bene in faccia
l’altro se stesso ben annidato, per scovare quel doppio che
sempre, prima o poi, nei momenti meno attesi, sarebbe riemerso
Si era guardata a lungo ed aveva avuto la netta percezione
che, dall’altra parte, non ci fosse il suo riflesso, ma
un’altra se stessa, che le causava disgusto e le imprimeva sul
volto una smorfia cattiva: era cambiata, sì, era cambiata
dentro, e il cambiamento si rifletteva fuori.
Ma no, ma no, non era cambiata affatto, solo che non lo era
più nell’interezza, ora si rivelava nella doppiezza, palesava
a sé l’altra se stessa che sempre era stata in lei, solo
occultata, e che qualcosa/qualcuno erano riusciti a far
riemergere.
Eccola lì, l’altra se stessa, poteva ben guardarla negli
occhi, ora! Dall’altra parte dello specchio articolava suoni,
gesticolava, sorrideva, ora ironica, ora beffarda, talvolta
sembrava pure burlarsi di sé, ma non era più lei, non era più
quella della sera precedente.
Di scatto, con moto stizzoso del capo, s’allontanò, si ravviò
i lunghi capelli con entrambe le mani, poi crollò su una sedia
ciondolando la testa.
Pensava al suo cambiamento. Era stato lui a cambiarla,
trascinandola in una relazione che l’aveva avvilita, non
nobilitata, e pensare che fino ad allora il suo credo era
stato: migliorarsi!
Con modi garbati e gentili, senza mai palesemente forzarla,
era riuscito a farle fare tutto ciò che voleva, guidandola,
attraverso l’abiezione del corpo, ad abbrutire anche la mente,
traendo fuori la sua parte sotterranea, trasformandola da
donna, comunque, in qualche modo, libera, a schiava.
Ma era stata colpa del primo se si era lasciata trascinare in
quella squallida storia alla quale, ormai, più non riusciva a
sottrarsi, non perché obbligata, ma perché volontariamente
legata, soggiogata per debolezza, per gioco che, inizialmente
scherzoso, si era, poi, trasformato in masochistico e sadico.
Lui era bello, sensibile, colto, romantico, talvolta anche
brusco e aggressivo, ma maschio fragile.
L’altro non era bello, ma aveva fascino; era intelligente,
colto, educato, deciso, era maschio dominante.
Il primo aveva fatto scaturire in lei la poesia, il secondo la
sensualità. Il primo coltivava i sentimenti, il secondo
assecondava e guidava soltanto gli istinti.
Non amava il secondo, molto aveva amato il primo; con lui
aveva persino contratto il patto d’amore
dopo che, solenne, le aveva assicurato: -Ora siamo della
stessa natura, siamo dello stesso sangue, vita natural durante
legati dalla fedeltà, solo la morte estinguerà questo fra
noi.-
Ed avevano consumato l’amore, con profonda passione… poi era
sparito.
Lo aveva aspettato lunghi giorni, lunghe notti, ma non era più
tornato. Stupido sogno romantico era stato il suo: credere
alle parole di un uomo!
Poi un giorno aveva incontrato l’altro. Pioveva anche quel
giorno, d’una pioggia silenziosa e lenta. Lei si sporgeva dal
parapetto, libera per una frazione di secondo dal bastone che
aiutava sin dall’infanzia la sua deambulazione, guardava in
basso il fiume correre piano, gonfio d’acqua grigia, simile al
suo cuore oppresso, gonfio di dolore e di rancore.
Improvvisamente le si era affiancato quello sconosciuto ed era
tornato il sole.
Si erano allontanati insieme, lui con le mani affondate nelle
tasche del soprabito riscaldato dal sole, lei zoppicando con
le spalle strette, estranei vicini per chissà quale scherzo
curioso del destino: era cominciata così fra loro.
Avevano parlato, parlato, parlato di arte, di letteratura, di
mostre e di concerti e di progetti da poter insieme
realizzare; lui era fin troppo garbato, amabile, gentile,
premuroso, attento, non bello ma attraente, con ammalianti
occhi obliqui ed una fossetta sul mento che gl’illuminava il
sorriso furbo. Un giorno, poi, le aveva dichiarato il suo
amore (ma era un amore malato il suo!), ma lei, delusa,
disillusa, non gli aveva creduto, però gli aveva confidato la
sua sfortuna con l’altro e il suo disincanto.
Lui parve comprendere le sue resistenze, fu paziente e seppe
attendere.
Un giorno le disse:
-Quando hai il cuore oppresso, qual conforto migliore di me?-
Ed un altro:
-Chiedimi una prova d’amore, ti dimostrerò la forza del mio
sentimento!-
Allora lei aveva cominciato a chiedere, quasi per gioco, forse
per sfida, piccole dolcezze, piccole attenzioni, un
cioccolatino, un fiore, un bacio sulla mano. Lui sempre
esaudiva i suoi desideri.
Cominciò così: credette al suo amore e quasi credette
d’amarlo.
Poi un giorno fu lui a chiedere:
-Faresti una cosa per me?-
Lei rispose di sì.
-Scrivi 100 volte su un foglio di quaderno che mi ami.-
-Ma non so se ti amo davvero… forse sì, forse no!-
-Scrivilo lo stesso!-
Lei scrisse.
Poi ancora:
-Per un mese non dovrai scrivere nulla, nemmeno il tuo
nome.-
Lei lo accontentò.
Ora erano sempre più vicini, ma ancora tra loro l’amore non
era stato consumato.
E un giorno (ormai l’uno ad un passo dal cuore dell’altro):
-Lascia che stringa la tua scarpina di seta nera intorno al
tuo collo bianco, candido, sottile, come quello dei cigni che
sempre ci fermiamo a guardare al parco.-
Lei aveva sgranato gli occhi, ma subito la voce mielata di lui
aveva assicurato:
-Voglio vedere se hai davvero fiducia in me…Non crederai di
certo che voglia ammazzarti?-
Allora lei gli aveva teso decisa la sciarpina nera, aveva
sollevato il volto in direzione del suo e, ad occhi chiusi, il
cuore palpitante come quello d’un condannato a morte, aveva
atteso; ma lui aveva ordinato:
-Voglio che tu
tenga gli occhi aperti, fissi nei miei.-
Si era avvicinato e, molto lentamente, aveva cominciato a
stringerle la sciarpa intorno al collo, intanto che fuori
splendeva il sole; il cuore di lei aveva accelerato sempre più
i battiti, sentimenti confusi fra il timore, l’ansia e
l’eccitazione crescevano, crescevano…intanto che subiva
l’evento come sotto una fascinazione…Ma lui non aveva stretto
troppo forte, no, e, abbandonata la sciarpa, afferratala fra
le sue braccia, l’aveva sollevata in alto, poi, adagiatala con
delicatezza sul divano, dopo averle dato piccoli morsi sulle
spalle, infine l’aveva presa.
Poi c’era stato un nuovo episodio.
Lui aveva sfilato la cinghia dai calzoni (come faceva suo
padre da bambina, aveva pensato con orrore!) e, intanto che,
con dolcezza, le accarezzava i capelli, e le sussurrava con
voce mielata, insistente, aveva cominciato a chiederle:
- Vuoi? Posso? Vuoi? Posso? -
Rapita dal suo sguardo, affascinata dalla cantilena, non aveva
risposto a parole, ma annuito, ed i colpi erano stati dapprima
lenti come carezze, poi duri come scudisciate, infine simili a
morbide cadenze che le avevano procurato, confusi al dolore,
un sottile piacere. Ma non era amore, quello, no, non era
amore…ben lo sapeva!
Però aveva cominciato a desiderare insieme le sue carezze e le
sue percosse… sempre pensando all’altro, alle romantiche
parole che le aveva prodigato, elargito, confondendole la
testa ed il cuore in quei pochi giorni d’amore, sempre
ripensando al patto di sangue stipulato, che lui non aveva
mantenuto, che lei aveva tradito, che l’altro ignorava.
Infine, un giorno, le percosse furono più violente; guardò le
sue candide carni lacerate a sangue, e ripensò all’altro
sangue versato, quello versato solo per gioia d’amore, e
quelle del nuovo uomo le apparvero in tutta la loro crudeltà,
e si guardò allo specchio, e si scoprì avvilita, offesa, e
miserabile.
E ricominciò più intensamente a pensare all’uomo che aveva
amato davvero, e all’abisso nel quale era caduta, forse
proprio perché, entrambi, erano venuti meno al patto, ma era
stato lui a spingerla in quel baratro, perché non era più
tornato.
… Quella mattina incontrò il suo volto riflesso nello
specchio, si vide tra le braccia di lui che la sovrastava;
pensò che nell’amore non c’era nulla di romantico, che aveva
ragione il poeta a chiamarlo un cane che viene dall’inferno:
decise in quell’istante che non voleva più esserne schiava.
Di scatto, distolse lo sguardo dallo specchio, si divincolò
dalla stretta, folle afferrò il bastone e colpì l’uomo con
tutte le sue forze, ripetutamente, ed era come colpire insieme
lui e l’altro. Si fermò solo quando ci fu silenzio, non più un
respiro di lui, non più rabbia dentro di lei.
Raccolse il suo bastone e lo ripulì del sangue, poi prese in
braccio l’unico spettatore dell’ultimo atto della vicenda, il
suo gatto spaventato, e lo rassicurò con parole e con carezze.
Tra un po’ sarebbe fuggita o avrebbe chiamato la polizia? – si
chiedeva accarezzando il gatto. Non lo sapeva; intanto, pero,
si godeva questo momento di delirio, affrancata, finalmente,
dalla schiavitù d’amore.
Francesca
Santucci
Francesca,
ho letto il tuo racconto che esprime una tragica realtà, sempre viva ed
attuale purtroppo.
Descrivi con toni forti, spietatamente veri quell'istinto rabbioso che si
annida dietro alle apparenze più belle.
Siamo doppi, sempre, ed e' sforzo sovrumano far prevalere la parte
nobile del cuore.
Quanta amarezza si prova nello sporcare e nel veder sporcato il
sentimento più nobile!
Quanta ambiguità e doppiezza nei rapporti !
La tua arte si fa sempre più attenta e perfezionata nell'indagine del
cuore e dell'anima.
Antonia Chimenti
Writer
Italian and French Teacher
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