La farfalla è un fiore in volo,
il fiore una farfalla ancorata a terra.
Ponce Denis
Écouchard Lebrun
C’era una volta una Vanessa Atalanta, una di quelle farfalle che, viste
nell’aria, sembrano fiamme viventi tanto splendono le strisce e le macchie
di fuoco che portano sulle loro ali, nere e bianche di sopra, variopinte
nel lato inferiore.
Un giorno, sul finire della primavera, mentre tornava
a casa, nella valle delle farfalle dove abitava insieme alle sue colorate
sorelle, un’improvvisa raffica di vento la spinse lontano, facendola
atterrare malamente su un pendio erboso in un boschetto. Qui, timida e
riservata, viveva un tenero fiore: era una Viola dalle larghe foglie
lobate di un bel verde, prolungate a forma di sperone, i grandi petali
vellutati bianchi striati di violetto, un cuore color oro ricco del
prezioso nettare tanto ricercato dagli insetti come nutrimento.
La Viola, accortasi che la farfalla, che non aveva mai visto prima nella
zona, era in difficoltà, sollecita le chiese come stesse, e quella,
sconsolata, le rispose di aver smarrito la strada di casa e che,
purtroppo, non poteva rimettersi in viaggio perché, durante la caduta,
aveva perso dalle ali molta di quella polverina magica che le consentiva
di bilanciare il volo, ma aveva urgenza di trovare un posto sicuro dove
poter deporre l’uovo che custodiva in sé, dal quale sarebbe nata la sua
creatura.
Inoltre, con la voce prossima alle lacrime, le confidò, di temere non per
la propria vita, ma per quella che stava per dare alla luce. Brevissimo,
infatti, è il ciclo di splendore delle farfalle, fugace il periodo della
loro vita alata, muoiono subito dopo aver deposto le uova (qualche giorno
o qualche mese), e anche a lei sarebbe toccato lo stesso destino, perciò
si fece promettere dalla Viola che, alla sua morte, non avrebbe
abbandonato la sua creatura, ma avrebbe vegliato su di lei per tutto il
tempo necessario alla sua crescita, finché non fosse stata capace di
dispiegare le ali e involarsi.
La Viola, commossa, la invitò a ripararsi fra le sue ombrose foglie e le
promise solennemente che non avrebbe fatto mai mancare all’orfanella le
sue cure e le sue premure.
E quando accadde che la bella Vanessa, dopo aver deposto il suo
piccolissimo uovo, chinò il capo, ripiegò miseramente le ali su se stessa,
ed emise l’ultimo respiro, il fiore compassionevole non dimenticò la
promessa fatta, e nemmeno per un istante abbandonò l’uovo, dal quale,
però, non uscì subito l’insetto alato, ma una larva simile a un verme, un
bruco peloso e bruttino che si muoveva strisciando, sul quale vegliò con
sollecitudine, preoccupandosi che stesse ben riparato e che, per nutrirsi,
avesse sempre a sufficienza i cibi preferiti, cioè foglie fresche di
ortica o di erba parietaria.
La piccola larva crebbe rapidamente, mutando quattro o cinque volte la
propria pelle, e quando, poi, ebbe completato il suo sviluppo, non si
nutrì più e andò in cerca di un luogo adatto per trasformarsi in
crisalide, l’ultimo stadio della metamorfosi che precede la nascita.
Perché questo accadesse, si sospese a un ramo mediante un filo, avvolta in
un involucro tessuto con fili di seta emessi dalla bocca, sprofondando in
una morte apparente che durò per alcune settimane: anche in questo momento
delicato il tenero fiore non mancò di vegliare amorevolmente su di lei.
Per tutto il tempo in cui l’uovo si trasformò da bruco a crisalide fino a
diventare una bellissima farfalla, la dolce Viola le fu accanto, mai
abbandonandola, facendole ombra con i suoi petali vellutati perché il sole
non la bruciasse, agitando le foglie per spaventare qualche animale che
potesse ghermirla o solo disturbarla, attenta a ogni segnale di pericolo,
sorvegliando il suo respiro per essere certa che dormisse. Infatti la
crisalide, anche se pareva morta, poiché non vedeva, non udiva, non
mangiava, era viva, giacché palpitava e si contraeva quando la si toccava,
semplicemente ora era in letargo, al riparo nel suo bozzolo, immobile e
rigida, nell’ombra, in attesa della rinascita.
Mentre la crisalide stava così racchiusa, avvenne l’ultima trasformazione
e, dopo un tempo più o meno lungo, rotto con il capino il suo involucro,
finalmente munita di ali, nacque: il brutto bruco peloso che strisciava
sul terreno era diventato una farfalla meravigliosa, bella come un fiore,
in tutto somigliante alla sua povera mamma, gli stessi colori brillanti,
gli stessi splendidi riflessi, sul capo due lunghe antenne, lateralmente
due grandi occhi composti, cioè formati da migliaia di minutissimi occhi
tubolari, la bocca succhiante fornita di una piccola proboscide per
aspirare dai fiori il nettare e dai frutti le sostanze zuccherine, ampie
ali nere, le anteriori, più grandi delle posteriori, macchiate di bianco e
solcate da larghe strisce rosse, le posteriori ampiamente bordate di
rosso, ricoperte da numerose piccole scaglie iridescenti e dai colori
cangianti.
Liberatasi dell’involucro, subito la leggiadra creatura allargò le sue ali
per volare e, librandosi leggera nell’aria, cominciò ad andare di fiore in
fiore e di frutto in frutto per suggere i dolci nutrimenti, poi,
d’improvviso, si allontanò di corsa verso l’alto, nel cielo azzurro.
La Viola la seguì con lo sguardo finché non scomparve alla sua vista.
Pensò a un volo di prova, per esercitare le belle ali appena dispiegate e,
con ansia, ne attese il ritorno per diversi giorni, ma la farfalla non
tornò. Delusa, chinò il capo e pianse. Aveva voluto tanto bene a quella
piccolina, si era preoccupata per lei come fa una mamma, e quella, invece,
ora se n’era andata via senza nemmeno salutarla: che tristezza!
Ma si sbagliava il tenero fiore, perché la farfalla non aveva affatto
dimenticato la sua protettrice. Quando era stata crisalide, chiusa nel suo
bozzolo, come morta, ma ben viva, aveva udito le dolci ninna nanne che lei
le aveva cantato, aveva inteso le parole amorevoli che le aveva sussurrato
perché non avesse paura li, al buio del suo riparo, e anche sentito quelle
imperiose rivolte agli animali che si avvicinavano e potevano costituire
un pericolo: tutto ricordava, ed era profondamente grata alla Viola, che
voleva ringraziare, ma non da sola.
Guidata dall’istinto, volò nella valle delle farfalle e andò a raccontare
alle altre farfalle di come fosse stata amata e protetta da quel piccolo
fiore e decisero di ringraziarla tutte insieme.
E così, una mattina, d’improvviso, proprio sopra la testa della Viola, si
udì un concerto di ali che fremevano all’unisono nel cielo terso: guidate
dalla giovane Vanessa, un corteo di aggraziate ed eleganti creaturine
alate di ogni forma e colore, rosse con macchie blu, bianche con fasce
nere, rosa o arancione, e verdi, turchese, marroni, bianche, volteggiavano
accompagnate dal cinguettio
degli uccellini.
A
lungo solcarono l’aria, sfrecciando rapidissime, alcune volteggiando più
in alto, altre più in basso, sfiorando foglie e fiori, incrociandosi in
volo, in larghi gioiosi girotondi intorno alla Viola felice perché non era
stata dimenticata. E solo quando le ombre della sera cominciarono a calare
le farfalle presero congedo dalla Viola per fare ritorno nella loro valle,
non prima, però, di averle promesso che sarebbero ritornate presto a farle
visita.
Dopo i giorni interminabili trascorsi nella tristezza perché pensava di
essere stata dimenticata, finalmente la Viola si rasserenò, e la sua gioia
fu così grande che più intenso fu il profumo che cominciò a emanare il suo
cuore d’oro ogni volta che il suo pensiero riandava alla giovane farfalla,
e fu per questo che l’Angelo dei Fiori decise che da allora in poi il suo
nome sarebbe stato: “Viola del pensiero”.