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Bruno Brillante
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A causa dell’amore impossibile tra un giovane di condizioni modeste, ma
d’animo gentile, e una giovane nobile non libera, in tempi lontanissimi,
nella prima metà del Settecento, accadde a Napoli un atroce fatto di
sangue, che, però, fu messo subito a tacere: infatti nessuna cronaca del
tempo lo menziona, e, addirittura, come in una sorta di damnatio
memoriae, la famiglia della vittima cancellò del tutto la presenza
di quest’ultima, come se non fosse mai esistita.
Se vi racconto di questo tragico accadimento è perché, passato di bocca
in bocca nei secoli, è arrivato fino a me.
C’era un tempo in quel di Napoli, precisamente agli inizi del XVIII
secolo, nella zona del porto, incastonato in una zona ricca di
fertili orti e splendidi giardini, un palazzo nobiliare,
ancora oggi esistente ma in grave stato di degrado, chiamato Palazzo
Melofioccolo, dal nome di un meraviglioso albero allora assai comune in
città, il melofioccolo (o’ milosciuòccolo in
dialetto), cioè il giuggiolo, per gli antichi romani simbolo del
silenzio, perciò ne adornavano i templi della dea Prudenza.
L’albero aveva una fitta vegetazione, le ramificazioni fitte e intricate
ricoperte di spine, le foglie seghettate e lucide, i fiorellini bianchi,
i frutti maturi, di colore rosso porpora e bruni, simili alle olive ma
più grandi, di sapore alquanto dolce-acidulo che ricordava quello della
mela.
Con la sua mastodontica mole, il melofioccolo dominava il cortile
interno del Palazzo, poi divenuto vico
omonimo,
aperto al transito per offrire un passaggio tra il centro della città e
la zona del porto.
Il Palazzo, che affacciava direttamente sul mare, era abbellito da una
splendida scala aperta, opera di un famoso artista del tempo,
Ferdinando Sanfelice,
aveva
due sontuosi portali decorati con stucchi e sfarzosi motivi barocchi, e
una bella scultura rappresentante un leone. Nell'angolo tra i due
portali si ergeva una fontana monumentale
in piperno
a forma di conchiglia,
alimentata da una delle tantissime sorgenti della zona.
In questo palazzo abitava la nobile famiglia dei Melìa, conti di
antiche origini medievali, proveniente dalla Toscana ma fiorita con
lustro a Napoli sin dal XIII secolo, ed iscritta al Sedile di Porto.
Bene non si sa quanti figli avessero il conte e la sua consorte, ma si
sa che di una figlia cancellarono ogni traccia, come se non fosse mai
nata. Il fatto è che lei si macchiò di una colpa intollerabile per il
tempo, un’onta feroce all’onore, da lavare solo col sangue. Promessa
sposa a un nobile e militare spagnolo, il marchese della Cerdas- uomo
non più giovanissimo ma possente e prepotente, ben lieto di sposare la
giovane, garanzia della prole che gli avrebbe assicurato, non avendo
avuto figli dalla prima moglie che lo aveva lasciato presto vedovo-gli
fu infedele.
Maria, questo il suo nome, ogni notte, quando la luna era alta nel
cielo, s’incontrava nascostamente con un giovane della sua età, un tale
Giovanni, non del suo stesso lignaggio. L’innamorato si spingeva lungo
un camminamento sotterraneo che sbucava all’interno del cortile,
furtivamente raggiungeva la giovane in ansiosa attesa sotto l’albero di melofioccolo e qui, protetti dalla sua rigogliosa chioma, si scambiavano
illusioni, sogni, promesse.
Al riparo sotto il meraviglioso albero, storditi dal suo profumo
delicato ma inebriante, i due innamorati si saziavano dei suoi frutti
dal sapore zuccherino e dei loro dolci baci, per poi, a malincuore,
separarsi, con nel cuore insieme la gioia e la tristezza per quell’amore
clandestino e senza sbocchi.
Si arrivò al giorno del matrimonio. Era il mese di maggio. Il
melofioccolo era nel pieno della sua fioritura. La sposa era bellissima,
anche se sul suo volto brillava un sorriso non radioso ma di
circostanza.
Per il suo abito nuziale l’entusiasta e generoso futuro marito aveva
fatto arrivare direttamente dalla Spagna pregiate stoffe color crema e
fiorate, merletti della Galizia e una mantiglia di due metri
adornata da una ricca bordatura in
pizzo, da fissare sul capo con un pettinino di
madreperla; dalla Francia raffinati pizzi di Chantilly in seta soffice
e delicata; da Venezia tessuti broccati e damascati; dai mari del sud
preziosi fili di perle. E poi ancora aveva acquistato gemme, cammei e
spille a fiocco con diamanti e rubini per impreziosire le altre vesti
della sua futura sposa, e per adornarne il collo e i lobi una collana e
dei pendenti di corallo rosso. E pure ricercati profumi distillati dai
migliori maestri profumieri di Francia e d’Italia, tra cui il profumo
alla “rosa centifolia” di Grasse dall’effluvio inimitabile, soave,
delicato e mieloso, e il “Neroli” di Firenze, ottenuto dall’essenza dei
fiori dell’arancio amaro,
così chiamato in onore alla città di Nerola e alla nobildonna francese
Anna-Maria de la Trémoille-Noirmoutiers, seconda moglie di Flavio Orsini,
principe di Nerola e duca di Bracciano, che, affascinata da questa
essenza fiorita e fresca, dalle note lievemente amare, la utilizzava
largamente per profumare se stessa, l’acqua del suo bagno, le sue
vesti, i suoi guanti, le sue epistole e gli ambienti.
E, per “diletto” della giovane, le aveva donato anche una costosissima
bambola con la testa in cartapesta, il viso dipinto, il corpo in
legno, i capelli veri e le braccia mobili, corredata di una serie di
vestiti
pregiati.
Inoltre il marchese, con animo spagnoleggiante, aveva liberato dagli
oneri del banchetto il suocero, dal quale accettando unicamente la dote
e un’ala del Palazzo come abitazione, ordinando ai cuochi, senza badare
a spese, di preparare pasta, pasticci e zuppe nelle più svariate
declinazioni, arrosti, bolliti e cacciagioni con carni dai tagli più
pregiati, spigole e saraghi freschissimi su letti di alghe, dolci di
tutti i tipi, pasticcini leggeri come nuvole, torroni, marmellate,
confetti di gusti assortiti, cestini di frutti di bosco e frutta varia
scenograficamente apparecchiata, vini in gran quantità, anche speziati
con la cannella, e abbondante acqua profumata con petali di rosa,
affinché i convitati potessero lavarsi le mani tra una portata e
l’altra.
Nulla di tutto ciò, tuttavia, né vesti sontuose, né gemme splendenti, né
perle luminose, né profumi ricercati, né cibi appetitosi, poterono
lusingare il cuore di Maria, che continuava ad appartenere al suo
Giovanni.
Il matrimonio fu davvero sfarzoso e i festeggiamenti durarono una
settimana, durante i quali alla neo sposa, ora marchesa della Cerdas, e
al giovane innamorato fu impossibile vedersi, ma a lungo non riuscirono
ad evitare il richiamo dell’amore che, ancora più forte, li attirava.
L’amore guida sempre là dove si vuole essere, e
così i convegni sotto il
melofioccolo, muto testimone del loro intenso sentimento, ripresero.
Quasi ogni notte la giovane, quando era ben certa che nel Palazzo tutti
fossero sprofondati nel sonno, abbandonava il talamo nuziale e accorreva
da colui che nel suo cuore considerava il vero sposo. Lui, sempre,
puntuale, arrivava, ma una notte si giunse al tragico epilogo: il
marchese della Cerdas si svegliò proprio mentre la sua sposa si
allontanava furtivamente. Allertato, forse già insospettito, impugnò la
spada e in silenzio la seguì, fin quasi all’albero dove, distinguendo
nel buio una sagoma maschile, tutto comprese, ma attese che lei fosse
fra le braccia dell’uomo per compiere lo scellerato gesto. Piombò di
colpo su di loro e, con la sua mortale affilatissima lama di Toledo,
attuò la sua vendetta: con ferocia, prima colpì ripetutamente con la
spada il giovane e poi trafisse l’infedele sposa. A fiumi scorse il
sangue, di rosso si tinse il cortile. Richiamati dalle grida, accorsero
tutti gli occupanti del Palazzo, per primi i soldati di guardia, ai
quali il marchese furioso ordinò di portare via il corpo del giovane, di
squartarlo e poi buttarne i resti in mare. Per quanto riguarda la sua
sposa fu “pietoso”: intimò loro di darle un’anonima sepoltura, in un
luogo ignoto, senza nulla che potesse mai ricondurre a lei. E, con fare
minaccioso, intimò ai suoceri di dimenticare da quel giorno di avere mai
avuto una figlia. Poi rivolse tutta la sua rabbia anche contro l’albero
di melofioccolo che, fattosi portare un’ascia, abbatté impietosamente,
ramo dopo ramo, con incredibile forza e violenza. Terminarono l’opera i
suoi servitori, così bene che di quella meravigliosa incolpevole
creatura della natura non restò più nemmeno una foglia, un fiore, un
frutto, una spina. Ma traccia di quell’albero rimase nel nome del
Palazzo, ancora esistente, e traccia di quell’amore sventurato fra
Giovanni e Maria restò in una pergamena che lui le aveva donato tempo
addietro, che lei aveva conservato nascosta in fondo a un cassetto e
che, dopo la barbara uccisione, ritrovò una serva che, credo, essere
stata la prima a cominciare a tramandare oralmente la cruenta vicenda.
Come presago dell’infausto destino un giorno lui le aveva scritto:
Il mio cuore è il tuo cuore,
il mio respiro è il tuo respiro.
Quand’anche fermati i nostri cuori,
quand’anche smorzati i nostri respiri,
insieme noi saremo per l’eternità.
Leggenda vuole che nelle notti di maggio, quando c’è la luna piena, una
figura di donna vestita di bianco vaghi nel cortile di quel che resta
oggi del Palazzo, e pianga e si disperi ricercando invano il suo
innamorato, poiché più non ritrova né lui né l’albero sotto il quale un
tempo, trepidante, lo attendeva.