Francesca Santucci

 

LA CRUENTA VICENDA DI PALAZZO MELOFIOCCOLO

(Antologia AA.VV., "Storie e tradizioni locali ",  Historica  Edizioni 2023)

 

foto di Bruno Brillante

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A causa dell’amore impossibile tra un giovane di condizioni modeste, ma d’animo gentile, e una giovane nobile non libera, in tempi lontanissimi, nella prima  metà del Settecento, accadde a Napoli un atroce fatto di sangue, che, però, fu messo subito a tacere: infatti nessuna cronaca del tempo lo menziona, e, addirittura, come in una sorta di damnatio memoriae, la famiglia della vittima cancellò del tutto la presenza di quest’ultima, come se non fosse mai esistita.
Se vi racconto di questo tragico accadimento è perché, passato di bocca in bocca nei secoli, è arrivato fino a me.
C’era un tempo in quel di Napoli, precisamente agli inizi del XVIII secolo, nella zona del porto, incastonato in una zona ricca di fertili orti e splendidi giardini, un palazzo  nobiliare, ancora oggi esistente ma in grave stato di degrado, chiamato Palazzo Melofioccolo, dal nome di un meraviglioso  albero allora assai comune in città, il melofioccolo (o’ milosciuòccolo in dialetto), cioè il  giuggiolo, per gli antichi romani simbolo del silenzio, perciò ne adornavano i templi della dea Prudenza.
L’albero aveva una fitta vegetazione, le ramificazioni fitte e intricate ricoperte di spine, le foglie seghettate e lucide, i fiorellini bianchi, i frutti maturi, di colore rosso porpora e bruni,  simili alle olive ma più grandi, di sapore alquanto dolce-acidulo che ricordava quello della mela.
Con la sua mastodontica mole, il melofioccolo dominava il cortile interno del Palazzo, poi divenuto vico omonimo,  aperto al transito per offrire un passaggio tra il centro della città e la zona del porto.
Il Palazzo, che affacciava direttamente sul mare, era abbellito da una splendida scala aperta, opera di un famoso artista del tempo, Ferdinando Sanfelice, aveva due sontuosi portali decorati con stucchi e sfarzosi motivi  barocchi, e una bella scultura rappresentante un leone. Nell'angolo tra i due portali si ergeva una fontana monumentale in piperno a forma di conchiglia, alimentata da una delle tantissime sorgenti della zona. 
In questo palazzo abitava la nobile famiglia dei  Melìa, conti di antiche origini medievali, proveniente dalla Toscana ma fiorita  con lustro a Napoli sin dal XIII secolo, ed iscritta al Sedile di Porto.
Bene non si sa quanti figli avessero il conte e la sua consorte, ma si sa che di una figlia cancellarono ogni traccia, come se non fosse mai nata. Il fatto è che lei si macchiò di una colpa intollerabile per il tempo, un’onta feroce all’onore, da lavare solo col sangue. Promessa sposa a un nobile e militare spagnolo, il marchese della Cerdas- uomo non più giovanissimo ma possente e prepotente, ben lieto di sposare la  giovane, garanzia della prole che gli avrebbe assicurato, non avendo avuto figli dalla prima moglie che lo aveva lasciato presto vedovo-gli fu infedele.
Maria, questo il suo nome, ogni notte, quando la luna era alta nel cielo, s’incontrava nascostamente con un giovane della sua età, un tale Giovanni, non del suo stesso lignaggio. L’innamorato si spingeva lungo un camminamento sotterraneo che sbucava all’interno del cortile, furtivamente raggiungeva la giovane in ansiosa attesa sotto l’albero di melofioccolo e qui, protetti dalla sua rigogliosa chioma, si scambiavano illusioni, sogni, promesse.
Al riparo sotto il meraviglioso albero, storditi dal suo profumo delicato ma inebriante, i due innamorati si saziavano dei suoi frutti dal sapore zuccherino  e dei loro dolci baci, per poi, a malincuore, separarsi, con nel cuore insieme la gioia e la tristezza per quell’amore clandestino e senza sbocchi.
Si arrivò al giorno del matrimonio. Era il mese di maggio. Il melofioccolo era nel pieno della sua fioritura. La sposa era bellissima, anche se sul suo volto brillava un sorriso non radioso ma di circostanza.
Per il suo abito nuziale l’entusiasta e generoso futuro marito aveva fatto arrivare direttamente dalla Spagna pregiate stoffe color crema e fiorate,  merletti della Galizia e una mantiglia di due metri adornata da una ricca bordatura in pizzo, da fissare sul capo con un pettinino di madreperla; dalla Francia raffinati pizzi di  Chantilly in seta soffice e delicata; da Venezia tessuti broccati e damascati; dai mari del sud preziosi fili di perle. E poi ancora aveva acquistato  gemme, cammei e spille a fiocco con diamanti e rubini per impreziosire le altre vesti della sua futura sposa, e per adornarne il collo e i lobi una collana e dei pendenti di corallo rosso. E pure  ricercati profumi distillati dai migliori maestri profumieri di Francia e d’Italia, tra cui il profumo  alla “rosa centifolia” di Grasse dall’effluvio inimitabile, soave, delicato e mieloso, e il “Neroli” di Firenze, ottenuto dall’essenza dei fiori dell’arancio amaro
, così chiamato in onore alla città di Nerola e alla  nobildonna francese  Anna-Maria de la Trémoille-Noirmoutiers, seconda moglie di Flavio Orsini, principe di Nerola e duca di Bracciano, che, affascinata da questa essenza fiorita e fresca, dalle note lievemente amare,  la utilizzava largamente per profumare se stessa,  l’acqua del suo bagno, le sue vesti, i suoi  guanti, le sue epistole e gli ambienti. E, per “diletto” della giovane, le aveva donato anche una  costosissima bambola con la testa in cartapesta, il viso dipinto, il corpo in legno, i capelli veri e le braccia mobili, corredata di una serie di vestiti pregiati.
Inoltre il marchese, con animo spagnoleggiante, aveva liberato dagli oneri del banchetto il suocero, dal quale accettando unicamente la dote e un’ala del Palazzo come abitazione,  ordinando ai cuochi, senza badare a spese, di preparare pasta, pasticci e zuppe nelle più svariate declinazioni, arrosti, bolliti e cacciagioni con carni dai tagli più pregiati, spigole e saraghi freschissimi su letti di alghe, dolci di tutti i tipi, pasticcini leggeri come nuvole,  torroni, marmellate, confetti di gusti assortiti, cestini di frutti di bosco e frutta varia scenograficamente apparecchiata, vini in gran quantità, anche speziati con la cannella, e abbondante acqua profumata con petali di rosa, affinché i convitati potessero lavarsi le mani tra una portata e l’altra.
Nulla di tutto ciò, tuttavia, né vesti sontuose, né gemme splendenti, né perle luminose, né profumi ricercati, né cibi appetitosi, poterono lusingare il cuore di Maria, che continuava ad appartenere al suo Giovanni.
Il matrimonio fu davvero sfarzoso e i festeggiamenti durarono una settimana, durante i quali alla neo sposa, ora marchesa della Cerdas, e al giovane innamorato fu impossibile vedersi, ma a lungo non riuscirono ad evitare il richiamo dell’amore che, ancora più forte, li attirava.
L’amore guida sempre là dove si vuole essere, e così i convegni sotto il melofioccolo, muto testimone del loro intenso sentimento, ripresero.
Quasi ogni notte la giovane, quando era ben certa che nel Palazzo tutti fossero sprofondati nel sonno, abbandonava il talamo nuziale e accorreva da colui che nel suo cuore considerava il vero sposo. Lui, sempre, puntuale, arrivava, ma una notte si giunse al tragico epilogo: il marchese della Cerdas si svegliò proprio mentre la sua sposa si allontanava furtivamente. Allertato, forse già insospettito, impugnò la spada e in silenzio la seguì, fin quasi all’albero dove, distinguendo nel buio una sagoma maschile, tutto comprese, ma attese che lei fosse fra le braccia dell’uomo per compiere lo scellerato gesto. Piombò di colpo su di loro e, con la sua mortale affilatissima lama di Toledo, attuò la sua vendetta: con ferocia, prima colpì ripetutamente con la spada  il giovane e poi trafisse l’infedele sposa. A fiumi scorse il sangue, di rosso si tinse il cortile. Richiamati dalle grida, accorsero tutti gli occupanti del Palazzo, per primi i soldati di guardia, ai quali il marchese furioso ordinò di portare via il corpo del giovane, di squartarlo e poi buttarne i resti in mare. Per quanto riguarda la sua sposa fu “pietoso”: intimò loro di darle un’anonima sepoltura, in un luogo ignoto, senza nulla che potesse mai ricondurre a lei. E, con fare minaccioso, intimò ai suoceri di dimenticare da quel giorno di avere mai avuto una figlia. Poi rivolse tutta la sua rabbia anche contro l’albero di melofioccolo che, fattosi portare un’ascia, abbatté impietosamente, ramo dopo ramo, con incredibile forza e violenza. Terminarono l’opera  i suoi servitori, così bene che di quella meravigliosa incolpevole creatura della natura non  restò più nemmeno una foglia, un fiore, un frutto, una spina. Ma traccia di quell’albero rimase nel nome del Palazzo, ancora esistente, e traccia di quell’amore sventurato fra Giovanni e Maria restò in una pergamena che lui le aveva donato tempo addietro, che lei aveva conservato nascosta in fondo a un cassetto e che, dopo la barbara uccisione, ritrovò una serva che, credo, essere stata la prima a cominciare a tramandare oralmente la cruenta vicenda. Come presago dell’infausto destino un giorno lui le aveva scritto:
Il mio cuore è il tuo cuore,
il mio respiro è il tuo respiro.
Quand’anche fermati i nostri cuori,
quand’anche smorzati i nostri respiri,
insieme noi saremo per l’eternità.
Leggenda vuole che nelle notti di maggio, quando c’è la luna piena, una figura di donna vestita di bianco vaghi nel cortile di quel che resta oggi del Palazzo, e pianga e si disperi ricercando invano il suo innamorato, poiché più non ritrova né lui né l’albero sotto il quale un tempo, trepidante, lo attendeva.

 

 


 

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