Francesca Santucci

IN SIFFATTO MODO S’INIZIÒ IL MIO TORMENTO

(dall'antologia AA.VV., “Racconti storici”, edizioni  Historica 2018)

Presunto ritratto di Beatrice attribuito a Guido Reni, ma più probabilmente opera di Elisabetta Sirani.

 

 

Aver volontà di togliersi dall'ingiustizia é delitto o giustizia?

(Beatrice Cenci)

 

Sono di quei tempi i pochi ricordi sereni che mi ha dato la vita, trascorsi, orfana di madre, insieme a mia sorella, come educanda nel monastero romano di Santa Croce, apprendendo dalle suore, come si conveniva al mio rango di nobildonna, l’arte del ricamo e del cucito, imparando le buone maniere, passeggiando fuori le mura e chiacchierando con la mia maestra preferita, suor Ippolita, finché poi il barone mio padre, uomo non probo, che conduceva una vita disordinata e licenziosa (ma allora io l’ignoravo), nel marzo 1592 venne a reclamarci: allora avevo quindici anni.
Mia sorella ed io lasciammo il convento per andare a vivere con lui a malincuore, tuttavia speranzose di maritarci, di avere una famiglia tutta nostra, ma un senso di mestizia mi pervase al momento del congedo, e a suor Ippolita così confidai:
-Mi sta in dispetto separarmi da voi… eppure ciò che m’attende m’apre il cuore alla letizia.-
Poi l’abbracciai sorridendo, trattenendo il pianto in gola.
Lasciata per sempre la pace del convento, mi ritrovai in un ambiente squallido e corrotto, con un genitore vizioso, gretto, privo di qualsiasi senso morale, e fratelli la cui sola legge era la violenza. Soffrii molto di questa situazione, e a consolarmi non bastavano nemmeno le parole di pace della cara suor Ippolita, la mia vecchia maestra alla quale di tanto in tanto andavo a fare visita.
Mio padre palesò sin dal nostro arrivo in casa quale fosse la sua natura, era prepotente, violento, dispotico, arrogante, tirannico, vizioso e depravato, e trovava qualsiasi pretesto per infliggere punizioni durissime a me e ai miei fratelli.
Con il mio carattere indomabile e fiero sopportavo tutte le umiliazioni, alle quali reagivo trincerandomi nel silenzio più assoluto: ma i miei tormenti erano solo agli inizi.
Sposatasi mia sorella, rimasi ancora più sola, in un mondo di egoismi e crudeltà nel quale non mi ritrovavo.
Nell'aprile 1595 il mio scellerato padre, che passava spesso da un carcere all’altro per i suoi misfatti, risposatosi, per allontanarsi da Roma, ora che aveva ottenuto la libertà su cauzione, ma anche temendo che un mio matrimonio potesse costringerlo all’esborso di una cospicua dote e che potessi allearmi contro di lui con i miei fratelli, con i quali già numerosi erano i contrasti, condusse via dalla città me e Lucrezia, la seconda moglie, e ci confinò a Petrella Salto, in un piccolo castello detto la “Rocca”.
Il castello era tetro e malinconico, arroccato su di un picco isolato tra i monti dell’'Appennino, nascosto da una fitta vegetazione, fra faggeti e castagneti, boschi di querce, cerri, carpini, frassini, robinie e aceri, immerso in un paesaggio aspro, con prati in alta quota ravvivati solo in primavera dalla fioritura di orchidee, genziane, cardi, gigli, asfodeli, crochi e viole: qui per più di due anni ci tenne segregate, in una lunga esasperante reclusione, senza poter mai uscire, nemmeno per la Messa, che veniva celebrata a turno da due canonici di Santa Maria della Petrella, nella cappella della Rocca, costringendoci a vivere in miseria, con panni laceri addosso, in quattro locali trasformati in carcere, con le imposte delle finestre inchiodate, tranne un piccolo sportello praticato in alto per lasciar filtrare un po’ d’aria e di luce.
Questo triste edificio divenne ben presto il muto testimone di una lunga esasperante prigionia.
Costrette a vivere segregate, in un'atmosfera da incubo, la mia matrigna ed io cominciammo a covare un odio cupo e disperato nei riguardi di mio padre, che ci trattava in modo così crudele.  Gli unici volti umani in quella solitudine erano quelli di un vecchio vassallo della mia famiglia che, praticamente, fungeva da carceriere, e quello giovanile di Olimpio, dal passato assai torbido, ma attraente e con modi da gentiluomo, che aveva il compito di acquistare i cibi per noi.
Ero una bella ragazza. Capelli neri incorniciavano il mio volto regolare illuminato da vivaci occhi scuri, il corpo era snello ma formoso, e la mia indole era insieme dolce (come quella della mia povera madre) e orgogliosa (come quella di mio padre). Non so se furono queste mie attrattive a scatenare maggiormente gli appetiti del mio già depravato padre che, non pago delle violenze psicologiche alle quali mi sottoponeva, passò anche a quelle fisiche, tentando numerose volte nei miei confronti persino la violenza carnale, una prima volta a Roma, un pomeriggio del 13 marzo 1593.
Ricordo che quel giorno giacevo a letto semivestita, lui s’introdusse inaspettato nella mia stanza, ma riuscii a sfuggirgli, lesta scappando fra i canneti, lungo il Tevere, volevo correre dai miei fratelli maggiori a Monte dei Cenci, ed anche se, poi, non vi giunsi, perché mio padre, raggiuntami a cavallo, mi ricondusse a casa, tuttavia quella volta riuscii a sottrarmi alle sue sozze brame. Da allora cercai di evitarlo, limitando le occasioni di contatto, spesso nemmeno sedendomi a tavola, desinando con le cameriere in cucina, ma reclusa alla Petrella non potevo sottrarmi alle sue angherie quando, saltuariamente, veniva a trovarci, ed ero costretta a subire le sue violenze e le sue volgarità.
In questa situazione da incubo mi legai ad Olimpio, pure persona non retta, ma gradevole d’aspetto e dai modi garbati. Tra noi nacque simpatia e fiducia che mi aiutarono a sopportare meglio quell’orrenda reclusione.
Trascorsero, così, due anni, fino a quando  mio padre, oberato dai debiti, sempre più afflitto dai suoi mali, la rogna e la podagra, decise di stabilirsi al castello: la sua venuta rese ancora più tremende le sofferenze mie e della mia matrigna. Da quel momento fummo costrette a sopportare i trattamenti più ignobili,  le sue urla, le imprecazioni, i ghigni beffardi, io fui obbligata a grattargli le ripugnanti pustole della rogna  (contratta in carcere, quando vi era stato rinchiuso con l’accusa di sodomia) che aveva su tutta la parte inferiore del corpo, organi genitali compresi, costretta ad assistere alla sua eccitazione sessuale, persino a presenziare, insieme alla mia matrigna, all’espletamento dei suoi bisogni fisiologici  e a ripulirlo subito dopo: la vita divenne un vero inferno!
Disperata, scrissi ai miei fratelli a Roma per avere aiuto, ma non riuscii ad ottenerlo, e quando mio padre venne a saperlo mi fustigò a sangue, senza pietà, e mi costrinse a vivere nella sua stanza torturandomi in mille maniere diverse, non più sua figlia, ma sua schiava.
E fu in quest’atmosfera che l’odio, che la mia matrigna ed io già da tempo covavamo nei suoi confronti, s’ingigantì. E fu in quest’atmosfera che, esasperata dalle sue angherie,  nel mio animo s’insinuò il demone  della vendetta: giurai a me stessa che si sarebbe pentito di tutto il male che mi aveva fatto.
Con Olimpo, confidente e consolatore delle mie pene, cominciai ad intrecciare fitti colloqui, di notte, attraverso un foro praticato nel solaio, nel quale l'argomento era sempre lo stesso: la soppressione di mio padre, come eliminarlo dalle nostre vite e trovare un po’ di pace.  E quando mio fratello Giacomo, venuto alla Petrella, fu messo  al corrente del progetto criminale, non si oppose, anzi, approvò, sollecitò, ci consigliò e si pose a capo dell’azione, guidandola a distanza: eravamo tutti d’accordo, la mia matrigna, i miei fratelli, pure da lui tiranneggiati, ed io, a portare avanti il nostro scellerato piano.
Dopo diversi maldestri tentativi falliti, la notte del 10 settembre 1598 Olimpio e Marzio, un cantore tuttofare del castello, dopo averlo stordito con l’oppio, uccisero mio padre colpendolo ripetutamente alla testa e alle ginocchia, poi fecero precipitare il suo corpo giù dal terrazzino nell’orto per simulare una disgrazia: furono esecutori precisi e insensibili.
Quando vidi con i miei occhi l’effetto del delitto ristetti come ubriaca e non serbo a mente alcunché di quel che mi passò nell’animo.
Fu subito celebrato il funerale, e tutti  sembrarono credere alla versione della caduta accidentale dal terrazzino da noi fornita.
Una volta tumulato il corpo di mio padre, Lucrezia ed io, accompagnate da Olimpio e Marzio, partimmo velocemente alla volta di Roma.
M’illusi, allora, di aver trovato, finalmente, la pace cui anelavo, ma ben presto i sospetti si fecero strada, le voci cominciarono a circolare con maggiore insistenza, la versione dell’incidente non risultò più credibile, troppo frettoloso apparve il funerale, troppo precipitoso il nostro allontanamento e, impaziente la Chiesa di appropriarsi del patrimonio lasciato in eredità da mio padre, furono avviate le inchieste. Dopo il sopralluogo effettuato dagli inviati del Papa,  il corpo di mio padre fu riesumato e venne a galla la verità.
Fummo tutti arrestati, la mia matrigna ed io condotte nelle prigioni di Castel Sant’Angelo, suscitando da subito il delitto larga comprensione nei salotti e nel popolo, concordi nel pensare che non ero una feroce parricida, ma la vittima di un padre crudele e di un potere ingiusto. La giustizia pontificia, invece, fu implacabile, determinata ad impartire una condanna esemplare, soprattutto decisa a confiscare i beni della mia famiglia.
Da allora è trascorso un anno. Lunga e tormentosa è stata l’istruttoria, macchinoso il processo, diviso fra innocentisti e colpevolisti, vana la pur appassionata difesa del mio avvocato conclusa con queste parole:
Benché Beatrice Cenci abbia empiamente promosso la morte del suo padre Francesco, tuttavia é vero (come é creduto verissimo) che lo stesso Francesco, col tenere entro stanze oscure e chiuse a maniera di carcere la detta Beatrice, l'ha maltrattata e ha osato di violarne la pudicizia (...) Né il Fisco opponga che se Beatrice fu tentata dal padre allo stupro, doveva non uccidere, ma accusarlo come pare insinuato dalle leggi romane. Non solo erale infatti tolta dal padre la libertà e potere di accusarlo, mentre che la teneva chiusa nelle sue stanze e sotto chiave; ma spesse volte la stessa Beatrice mandò a Roma gli avvisi a' suoi parenti, e lettere nelle quali in genere si lagnava dei mali maltrattamenti del padre e chiedeva loro soccorso...
Infine, dopo la confessione, estorta con incredibili sofferenze a tutti noi- parte attiva, ispiratori, complici nell’assassinio- con ogni tipo di torture, persino la tortura della corda (sollevati da terra per le mani, precedentemente legate dietro la schiena, con una fune fatta passare per una carrucola appesa al soffitto, lasciati penzolare gravando tutto il peso del corpo sulle spalle), per la mia matrigna e per me identica la condanna: la decapitazione con la spada.
Sorte crudele, seppur diversamente, toccherà anche ai miei fratelli: Giacomo, il maggiore,  condannato ad essere decapitato, poi  squartato ed il suo cadavere esposto a Ponte Sant’Angelo, trattamento più mite per Bernardo il minore. Considerata la giovane età, la vita gli sarà risparmiata, ma dovrà assistere legato ad una sedia all’esecuzione di tutti noi,  prima di essere spedito a remare a vita sulle galee pontificie.
Così la sentenza:
Vogliamo, pronunziamo, sentenziamo, decretiamo e dichiariamo Giacomo, Bernardo e Beatrice de' Cenci e Lucrezia Petronia (...) colpevoli di aver fatto uccidere e trucidare nel proprio letto il fu Francesco Cenci, loro miserrimo padre ed effettivamente infelicissimo marito...
Domani, 11 settembre 1599, alla fioca luce delle lanterne, i confratelli della Misericordia, incappucciati di nero, mi accompagneranno in Chiesa, dove, insieme alla mia matrigna, mi confesserò e mi comunicherò. Alle 10,00 il corteo si muoverà, seguito da una folla silenziosa. Si udrà solo il trapestio dei passi e il lento andare delle litanie: Ora pro eis
Sono rassegnata al mio crudele destino, mi sono preparata alla morte raccomandando l’anima al Signore. Ho già dettato le mie ultime volontà, chiedendo di essere seppellita a San Pietro in Montorio, e dato disposizioni testamentarie affinché della mia dote beneficino quanti mi sono stati vicini, anche i miei carcerieri.
Spero di non chinare invano, domani, il capo sul ceppo, spero di essere ricordata come una vittima, e che la mia vicenda nel tempo continui a turbare e a commuovere, perché di quanto accaduto davvero sento di non avere colpa, travolta da un assurdo destino: aver avuto in sorte un padre violento e dedito alle peggiori nefandezze, un aguzzino dalla vita costellata di violenze, delitti, turpitudini, che non ho potuto amare e rispettare come avrei dovuto e voluto. E pensare che un giorno, al vescovo in visita pastorale che mi aveva chiesto a quale tra i dieci comandamenti mi sentissi di ubbidire con maggior trasporto, avevo risposto:
-Al quarto, “onora il padre e la madre”. -
E il vescovo mi aveva elogiata:
-Brava, questo sentimento ti fa onore
.-
Ma come avrei potuto onorare un padre che quando io mi rifiutavo alle sue luride mani mi riempiva di colpi e mi diceva che quando un padre conosce carnalmente la propria figlia, i bambini che nascono sono dei santi, e che tutti i santi più grandi sono nati in questo modo, cioè che il loro nonno è stato il loro padre, conducendomi talvolta anche nel letto della mia matrigna, perché lei vedesse alla luce della lampada quello che mi faceva?
Continuo a chiedere a me stessa quanto ho già detto stamattina al prete confortatore:
-Aver volontà di togliersi dall'ingiustizia é delitto o giustizia?–

 

 

 

 

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