Aver volontà di togliersi dall'ingiustizia é delitto o
giustizia?
(Beatrice Cenci)
Sono di quei tempi i pochi ricordi sereni che mi ha dato la
vita, trascorsi, orfana di madre, insieme a mia sorella, come
educanda nel monastero romano di Santa Croce, apprendendo
dalle suore, come si conveniva al mio rango di nobildonna,
l’arte del ricamo e del cucito, imparando le buone maniere,
passeggiando fuori le mura e chiacchierando con la mia maestra
preferita, suor Ippolita, finché poi il barone mio padre, uomo
non probo, che conduceva una vita disordinata e licenziosa (ma
allora io l’ignoravo), nel marzo 1592 venne a reclamarci:
allora avevo quindici anni.
Mia sorella ed io lasciammo il convento per andare a vivere
con lui a malincuore, tuttavia speranzose di maritarci, di
avere una famiglia tutta nostra, ma un senso di mestizia mi
pervase al momento del congedo, e a suor Ippolita così
confidai:
-Mi sta in dispetto separarmi da voi… eppure ciò che
m’attende m’apre il cuore alla letizia.-
Poi l’abbracciai sorridendo, trattenendo il pianto in gola.
Lasciata per sempre la pace del convento, mi ritrovai in un
ambiente squallido e corrotto, con un genitore vizioso,
gretto, privo di qualsiasi senso morale, e fratelli la cui
sola legge era la violenza. Soffrii molto di questa
situazione, e a consolarmi non bastavano nemmeno le parole di
pace della cara suor Ippolita, la mia vecchia maestra alla
quale di tanto in tanto andavo a fare visita.
Mio padre palesò sin dal nostro arrivo in casa quale fosse la
sua natura, era prepotente, violento, dispotico, arrogante,
tirannico, vizioso e depravato, e trovava qualsiasi pretesto
per infliggere punizioni durissime a me e ai miei fratelli.
Con il mio carattere indomabile e fiero sopportavo tutte le
umiliazioni, alle quali reagivo trincerandomi nel silenzio più
assoluto: ma i miei tormenti erano solo agli inizi.
Sposatasi mia sorella, rimasi ancora più sola, in un mondo di
egoismi e crudeltà nel quale non mi ritrovavo.
Nell'aprile 1595 il mio scellerato padre, che passava spesso
da un carcere all’altro per i suoi misfatti, risposatosi, per
allontanarsi da Roma, ora che aveva ottenuto la libertà su
cauzione, ma anche temendo che un mio matrimonio potesse
costringerlo all’esborso di una cospicua dote e che potessi
allearmi contro di lui con i miei fratelli, con i quali già
numerosi erano i contrasti, condusse via dalla città me e
Lucrezia, la seconda moglie, e ci confinò a Petrella Salto, in
un piccolo castello detto la “Rocca”.
Il castello era tetro e malinconico, arroccato su di un picco
isolato tra i monti dell’'Appennino, nascosto da una fitta
vegetazione, fra faggeti e castagneti, boschi di querce,
cerri, carpini, frassini, robinie e aceri, immerso in un
paesaggio aspro, con prati in alta quota ravvivati solo in
primavera dalla fioritura di orchidee, genziane, cardi, gigli,
asfodeli, crochi e viole: qui per più di due anni ci tenne
segregate, in una lunga esasperante reclusione, senza poter
mai uscire, nemmeno per la Messa, che veniva celebrata a turno
da due canonici di Santa Maria della Petrella, nella cappella
della Rocca, costringendoci a vivere in miseria, con panni
laceri addosso, in quattro locali trasformati in carcere, con
le imposte delle finestre inchiodate, tranne un piccolo
sportello praticato in alto per lasciar filtrare un po’ d’aria
e di luce.
Questo triste edificio divenne ben presto il muto testimone di
una lunga esasperante prigionia.
Costrette a vivere segregate, in un'atmosfera da incubo, la
mia matrigna ed io cominciammo a covare un odio cupo e
disperato nei riguardi di mio padre, che ci trattava in modo
così crudele. Gli unici volti umani in quella solitudine
erano quelli di un vecchio vassallo della mia famiglia che,
praticamente, fungeva da carceriere, e quello giovanile di
Olimpio, dal passato assai torbido, ma attraente e con modi da
gentiluomo, che aveva il compito di acquistare i cibi per noi.
Ero una bella ragazza. Capelli neri incorniciavano il mio
volto regolare illuminato da vivaci occhi scuri, il corpo era
snello ma formoso, e la mia indole era insieme dolce (come
quella della mia povera madre) e orgogliosa (come quella di
mio padre). Non so se furono queste mie attrattive a scatenare
maggiormente gli appetiti del mio già depravato padre che, non
pago delle violenze psicologiche alle quali mi sottoponeva,
passò anche a quelle fisiche, tentando numerose volte nei miei
confronti persino la violenza carnale, una prima volta a Roma,
un pomeriggio del 13 marzo 1593.
Ricordo che quel giorno giacevo a letto semivestita, lui
s’introdusse inaspettato nella mia stanza, ma riuscii a
sfuggirgli, lesta scappando fra i canneti, lungo il Tevere,
volevo correre dai miei fratelli maggiori a Monte dei Cenci,
ed anche se, poi, non vi giunsi, perché mio padre, raggiuntami
a cavallo, mi ricondusse a casa, tuttavia quella volta riuscii
a sottrarmi alle sue sozze brame. Da allora cercai di
evitarlo, limitando le occasioni di contatto, spesso nemmeno
sedendomi a tavola, desinando con le cameriere in cucina, ma
reclusa alla Petrella non potevo sottrarmi alle sue angherie
quando, saltuariamente, veniva a trovarci, ed ero costretta a
subire le sue violenze e le sue volgarità.
In questa situazione da incubo mi legai ad Olimpio, pure
persona non retta, ma gradevole d’aspetto e dai modi garbati.
Tra noi nacque simpatia e fiducia che mi aiutarono a
sopportare meglio quell’orrenda reclusione.
Trascorsero, così, due anni, fino a quando mio padre, oberato
dai debiti, sempre più afflitto dai suoi mali, la rogna e la
podagra, decise di stabilirsi al castello: la sua venuta rese
ancora più tremende le sofferenze mie e della mia matrigna. Da
quel momento fummo costrette a sopportare i trattamenti più
ignobili, le sue urla, le imprecazioni, i ghigni beffardi, io
fui obbligata a grattargli le ripugnanti pustole della rogna
(contratta in carcere, quando vi era stato rinchiuso con
l’accusa di sodomia) che aveva su tutta la parte inferiore del
corpo, organi genitali compresi, costretta ad assistere alla
sua eccitazione sessuale, persino a presenziare, insieme alla
mia matrigna, all’espletamento dei suoi bisogni fisiologici e
a ripulirlo subito dopo: la vita divenne un vero inferno!
Disperata, scrissi ai miei fratelli a Roma per avere aiuto, ma
non riuscii ad ottenerlo, e quando mio padre venne a saperlo
mi fustigò a sangue, senza pietà, e mi costrinse a vivere
nella sua stanza torturandomi in mille maniere diverse, non
più sua figlia, ma sua schiava.
E fu in quest’atmosfera che l’odio, che la mia matrigna ed io
già da tempo covavamo nei suoi confronti, s’ingigantì. E fu in
quest’atmosfera che, esasperata dalle sue angherie, nel mio
animo s’insinuò il demone della vendetta: giurai a me stessa
che si sarebbe pentito di tutto il male che mi aveva fatto.
Con Olimpo, confidente e consolatore delle mie pene, cominciai
ad intrecciare fitti colloqui, di notte, attraverso un foro
praticato nel solaio, nel quale l'argomento era sempre lo
stesso: la soppressione di mio padre, come eliminarlo dalle
nostre vite e trovare un po’ di pace. E quando mio fratello
Giacomo, venuto alla Petrella, fu messo al corrente del
progetto criminale, non si oppose, anzi, approvò, sollecitò,
ci consigliò e si pose a capo dell’azione, guidandola a
distanza: eravamo tutti d’accordo, la mia matrigna, i miei
fratelli, pure da lui tiranneggiati, ed io, a portare avanti
il nostro scellerato piano.
Dopo diversi maldestri tentativi falliti, la notte del 10
settembre 1598 Olimpio e Marzio, un cantore tuttofare del
castello, dopo averlo stordito con l’oppio, uccisero mio padre
colpendolo ripetutamente alla testa e alle ginocchia, poi
fecero precipitare il suo corpo giù dal terrazzino nell’orto
per simulare una disgrazia: furono esecutori precisi e
insensibili.
Quando vidi con i miei occhi l’effetto del delitto ristetti
come ubriaca e non serbo a mente alcunché di quel che mi passò
nell’animo.
Fu subito celebrato il funerale, e tutti sembrarono credere
alla versione della caduta accidentale dal terrazzino da noi
fornita.
Una volta tumulato il corpo di mio padre, Lucrezia ed io,
accompagnate da Olimpio e Marzio, partimmo velocemente alla
volta di Roma.
M’illusi, allora, di aver trovato, finalmente, la pace cui
anelavo, ma ben presto i sospetti si fecero strada, le voci
cominciarono a circolare con maggiore insistenza, la versione
dell’incidente non risultò più credibile, troppo frettoloso
apparve il funerale, troppo precipitoso il nostro
allontanamento e, impaziente la Chiesa di appropriarsi del
patrimonio lasciato in eredità da mio padre, furono avviate le
inchieste. Dopo il sopralluogo effettuato dagli inviati del
Papa, il corpo di mio padre fu riesumato e venne a galla la
verità.
Fummo tutti arrestati, la mia matrigna ed io condotte nelle
prigioni di Castel Sant’Angelo, suscitando da subito il
delitto larga comprensione nei salotti e nel popolo, concordi
nel pensare che non ero una feroce parricida, ma la vittima di
un padre crudele e di un potere ingiusto. La giustizia
pontificia, invece, fu implacabile, determinata ad impartire
una condanna esemplare, soprattutto decisa a confiscare i beni
della mia famiglia.
Da allora è trascorso un anno. Lunga e tormentosa è stata
l’istruttoria, macchinoso il processo, diviso fra innocentisti
e colpevolisti, vana la pur appassionata difesa del mio
avvocato conclusa con queste parole:
Benché Beatrice Cenci abbia empiamente promosso la morte del
suo padre Francesco, tuttavia é vero (come é creduto
verissimo) che lo stesso Francesco, col tenere entro stanze
oscure e chiuse a maniera di carcere la detta Beatrice, l'ha
maltrattata e ha osato di violarne la pudicizia (...) Né il
Fisco opponga che se Beatrice fu tentata dal padre allo
stupro, doveva non uccidere, ma accusarlo come pare insinuato
dalle leggi romane. Non solo erale infatti tolta dal padre la
libertà e potere di accusarlo, mentre che la teneva chiusa
nelle sue stanze e sotto chiave; ma spesse volte la stessa
Beatrice mandò a Roma gli avvisi a' suoi parenti, e lettere
nelle quali in genere si lagnava dei mali maltrattamenti del
padre e chiedeva loro soccorso...
Infine, dopo la confessione, estorta con incredibili
sofferenze a tutti noi- parte attiva, ispiratori, complici
nell’assassinio- con ogni tipo di torture, persino la tortura
della corda (sollevati da
terra per le mani, precedentemente legate dietro la schiena,
con una fune fatta passare per una carrucola appesa al
soffitto, lasciati penzolare gravando tutto il peso del
corpo sulle spalle), per
la mia matrigna e per me identica la condanna: la
decapitazione con la spada.
Sorte crudele, seppur
diversamente, toccherà anche ai miei fratelli: Giacomo, il
maggiore, condannato ad essere decapitato, poi squartato ed
il suo cadavere esposto a Ponte Sant’Angelo, trattamento più
mite per Bernardo il minore. Considerata la giovane età, la
vita gli sarà risparmiata, ma dovrà assistere legato ad una
sedia all’esecuzione di tutti noi, prima di essere spedito a
remare a vita sulle galee pontificie.
Così la sentenza:
Vogliamo, pronunziamo, sentenziamo, decretiamo e dichiariamo
Giacomo, Bernardo e Beatrice de' Cenci e Lucrezia Petronia
(...) colpevoli di aver fatto uccidere e trucidare nel proprio
letto il fu Francesco Cenci, loro miserrimo padre ed
effettivamente infelicissimo marito...
Domani, 11 settembre 1599, alla fioca luce delle lanterne, i
confratelli della Misericordia, incappucciati di nero, mi
accompagneranno in Chiesa, dove, insieme alla mia matrigna, mi
confesserò e mi comunicherò. Alle 10,00 il corteo si muoverà,
seguito da una folla silenziosa. Si udrà solo il trapestio dei
passi e il lento andare delle litanie: Ora pro eis…
Sono rassegnata al mio crudele destino, mi sono preparata alla
morte raccomandando l’anima al Signore. Ho già dettato le mie
ultime volontà, chiedendo di essere seppellita a San Pietro in
Montorio, e dato disposizioni testamentarie affinché della mia
dote beneficino quanti mi sono stati vicini, anche i miei
carcerieri.
Spero di non chinare invano, domani, il capo sul ceppo,
spero di essere ricordata come una vittima, e che la mia
vicenda nel tempo continui a turbare e a commuovere, perché di
quanto accaduto davvero sento di non avere colpa, travolta da
un assurdo destino: aver avuto in sorte un padre violento e
dedito alle peggiori nefandezze, un aguzzino dalla vita
costellata di violenze, delitti, turpitudini, che non ho
potuto amare e rispettare come avrei dovuto e voluto. E
pensare che un giorno, al vescovo in visita pastorale che mi
aveva chiesto a quale tra i dieci comandamenti mi sentissi di
ubbidire con maggior trasporto, avevo risposto:
-Al quarto, “onora il padre e la madre”.
-
E il vescovo mi aveva elogiata:
-Brava, questo sentimento ti
fa onore.-
Ma come avrei potuto onorare un padre che quando io mi
rifiutavo alle sue luride mani mi riempiva di colpi e mi
diceva che quando un padre conosce carnalmente la propria
figlia, i bambini che nascono sono dei santi, e che tutti i
santi più grandi sono nati in questo modo, cioè che il loro
nonno è stato il loro padre,
conducendomi talvolta anche nel letto della mia matrigna,
perché lei vedesse alla luce della lampada quello che mi
faceva?
Continuo a chiedere a me stessa quanto ho già detto stamattina
al prete confortatore:
-Aver volontà di togliersi dall'ingiustizia é delitto o
giustizia?–