In paese tutti conoscevano Franz, il vecchio dal buffo
pizzetto bianco sotto il mento e gli spessi occhialini da
miope. Per circa quarant’anni era stato il maestro del paese,
ma quelli che lo avevano conosciuto giovane o erano troppo
vecchi per ricordarselo o non potevano più raccontarlo perché
già da tempo riposavano sotto le bianche croci. Da quando
aveva smesso d’insegnare viveva da solo subito fuori al
villaggio, in una casetta con le tegole rosse scolorite dal
sole, sbiadite dal tempo, che guardava il fiume da lontano. La vegetazione circostante era costituita prevalentemente da
tigli e acacie, soprattutto queste ultime abbondavano, coperte
in primavera di teneri fiorellini che esplodevano in profumi
meravigliosi e nutrivano con il loro dolce nettare le api
allevate dal vecchio, che riusciva, così, a produrre un miele
davvero squisito. Per questo motivo la gente, dimentica della
sua attività, ormai lo identificava con quegli alberi e lo
chiamava “il vecchio delle acacie”, e solo qualcuno ricordava
che un tempo era stato un maestro. Simone, un bambino curioso, era affascinato dall’idea che quel
vecchio canuto vestito da contadino un giorno avesse insegnato
l’aritmetica e la grammatica, la storia dei Romani e dei
Longobardi, la geografia e la scala musicale, proprio come ora
faceva la sua maestra, per questo talvolta, eludendo la
sorveglianza della sua mamma, riusciva a spingersi fino alla
sua casa. E al vecchio non dispiaceva la compagnia di questo
ragazzino un po’ svogliato, ma d’intelligenza pronta, che, di
tanto in tanto, lo sottraeva alla solitudine cui si era votato
in età avanzata. Da parte sua Simone era ben felice di poter
curiosare tra i libri impolverati, le carte ingiallite, e pure
di poter guadagnare delle lezioni supplementari a quelle
scolastiche, chiarimenti su argomenti che bene non aveva
compreso a scuola o che a scuola non s’insegnavano. E fu con
lui che, finalmente, comprese la magia delle divisioni (così
ostiche!), e sempre da lui apprese le cause della decadenza
dell’Impero romano e dell’estinzione dei dinosauri, ed anche
il significato delle mirabili elaborazioni umane come la
Poesia, la Pittura, la Musica. D’estate, al fresco d’un tiglio fronzuto collocato nel cortile
della cascina, il capo poggiato sulle gambe del maestro,
Simone chiedeva: -Maestro, cos’è la Fantasia?- Il vecchio indicava il cielo e rispondeva: - È la nuvola rosa, quando dimentichi che è una nuvola e ti
sembra che assomigli ad un fiore.- -E la Poesia? Maestro, cos’è la Poesia?- -La Poesia è l’armonico pensierino che scrivi sul tuo
quaderno, dettato dalla sensazione che la visione di quella
nuvola e di quel fiore ha fatto scaturire nel tuo cuore.- -E la Pittura, cos’è la Pittura?- - È quel pensierino scritto non sul foglio ma sulla tela
bianca mescolando i colori sulla tavolozza in meravigliose
sfumature.- -E l’Amore? - L’Amore è un miracolo, una magia, è un sentimento
disinteressato in cui si vuole solo il bene dell’altro, e si
può provarlo per tutti gli esseri del Creato, ma attento, può
essere anche dolore straziante, come quando si perde una
persona cara. Ricorda, però, che nessuno muore mai tutto se
resta nel cuore di chi ci ama.- -E la Musica?-incalzava allora il bambino. Il maestro restava qualche istante pensieroso e poi, agitando
la mano nell’aria come se l’accarezzasse, rispondeva: -Il vento che senti stormire fra gli alberi è la voce di
Dio, e quella è la Musica!-Simone, soddisfatto delle spiegazioni, si scuoteva dal torpore
assorto con cui aveva seguito la lezione, rialzava la testa,
baciava la guancia del vecchio e scappava via, soffermandosi,
lungo la strada che lo riportava a casa, a guardare le nuvole,
i fiori, e ad ascoltare la voce del vento. Qualcuno per strada, vedendolo così distratto, lo ammoniva. -Non guardare per aria, fissa la strada oppure inciamperai!- E il bambino, fiero e baldanzoso, rispondeva: -Questa non è una strada, è un piccolo fiume che scorre
tranquillo, e questi non sono i miei piedi, ma una barchetta
che mi condurrà alla foce dov’è la mia casa, e lungo il
tragitto m’accompagna la voce di Dio!- Ben presto la mamma scoprì la meta delle fughe del figlio, ma
non ne fu contrariata, anzi, e cominciò a mandare al vecchio
dei piccoli doni, come un pezzo di formaggio, una fetta di
torta, della frutta, che l’uomo ricambiava col suo prezioso
miele d’acacia. Trascorse qualche anno e Simone diventò il più bravo della
scuola, e anche se ora erano subentrate delle distrazioni,
come le corse in bicicletta e le partite al pallone, le sue
visite al maestro continuavano con regolarità. Con voce ogni volta sempre più tremolante lui gli diceva: -Ragazzo, perché ti ostini a tornare? Ormai non ho più
nulla da insegnarti!- Ma Simone scuoteva con decisione la testa, sorrideva e sempre
ritornava perché gli voleva bene, perché al maestro le sue
visite erano gradite, ed anche perché sentiva che aveva ancora
bisogno dei suoi insegnamenti. Un pomeriggio, però, tardò all’appuntamento e, come animato da
uno strano presentimento, in prossimità della casetta affrettò
il passo. Vi giunse con le gote rosse, i capelli in disordine,
le ginocchia ferite perché due volte aveva inciampato. Il suo
maestro era là, seduto sotto il tiglio, con la testa reclinata
sul petto, un libro aperto sulle ginocchia: sembrava dormisse. Simone gli si avvicinò, lo chiamò adagio, lo scosse
lievemente: il capo del maestro si chinò ancor più in avanti.
Gli sollevò la testa e gli tolse gli occhiali e vide due occhi
celesti e immobili che fissavano un punto indefinibilmente
lontano: chissà cosa guardavano, pensò per un istante il
ragazzo realizzando che era morto! Allora, all’idea della perdita, per un istante un dolore
violento sembrò squarciargli il petto, ma subito lo represse
perché si ricordò di una spiegazione che un giorno l’uomo gli
aveva dell’Amore e della Poesia, e si disse che il vecchio
sembrava morto, ma che in realtà era vivo, come la nuvola che
se sembra un fiore tale diventa. E fu così che scrisse la sua prima poesia, una ballata che
intitolò: “Il vecchio delle acacie”.
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