Francesca Santucci
IL POSTINO:
IL COMMOSSO COMMIATO DI MASSIMO TROISI
(dall'antologia AA.VV., “Napoli
è...”,
Montegrappa
Edizioni, novembre 2018)
Riflessivo, crepuscolare, popolare e pulcinellesco, triste ed
ironico, spesso paragonato a Eduardo del quale era stato
considerato l’erede, legato alla tradizione della commedia
napoletana ma con una maschera improntata alla moderna
napoletanità, in rivolta contro i modi di dire e fare
quotidiani lesivi più della morte stessa (era riuscito persino
a svecchiare il cliché del meridionale emigrante e vittima!),
in continua ridiscussione di tutto e di tutto, Massimo Troisi
seppe dare un volto al disagio.
Esplose cinematograficamente nel 1981 con “Ricomincio da tre”,
si congedò nel 1994 con “Il postino”, girato insieme al
regista inglese Michael Radford tra Salina, Procida e
Cinecittà.
Era da tempo che volevo scrivere sul film “Il postino”, ma
rimandavo sempre per una sorta di pudore e di rispetto verso
Massimo Troisi, perché quest’ultimo lavoro rappresenta il suo
testamento spirituale, il suo commiato, forse presagito, dalla
vita, ma non si può parlarne senza accennare anche alla sua
morte, poiché le due cose sono estremamente legate, dal
momento che riversò tutte le sue ultime energie in questo film
nel quale aveva fortemente creduto (affaticandosi a tal punto
che, per molte riprese, fu necessario ricorrere ad una
controfigura), e che forse non ricevette il meritato
riconoscimento che gli sarebbe stato dovuto, a partire
dall’Oscar mancato al mancato apprezzamento unanime dei
critici.
Ricordo bene il giorno in cui mancò: era il 4 giugno del 1994,
un sabato pomeriggio. A sera il giornalista Maurizio Mannoni
al Tg3 esordì con voce sconsolata dicendo che stava per dare
una di quelle notizie che mai avrebbe voluto dare: la morte di
Massimo.
Per il riserbo che lo contrassegnava erano in pochi a
conoscere la fragilità del suo cuore, dell’intervento già
sostenuto a Houston e della nuova operazione che l’attendeva a
Londra, perciò fu un vero e proprio choc la notizia della sua
morte. Ricordo anche che a Rai 2, prima di dare la notizia,
mandarono in onda, in apertura di telegiornale, cinque minuti
del film “Scusate il ritardo”, con in sovrimpressione la
scritta ci mancherai, e l’indomani quasi tutti i
giornali riportarono come titolo quello del suo film più
popolare: “Non ci resta che piangere”.
Io credo che quel giorno tutti i suoi coetanei, ma in
particolare tutti i napoletani, quelli che avevano vissuto le
contraddizioni dei cambiamenti sociali dopo il ’68, che si
erano sempre sentiti in sospensione tra il nuovo incombente e
le vecchie tradizioni popolari, quelli che mescolavano
all’antico idioma partenopeo il vezzo linguistico del "cioè",
quelli che “naturalmente”, per eredità cromosomica, avevano
nel sangue la vocazione alla teatralità ma rifiutavano gli
eccessi della sceneggiata, quelli che volevano viaggiare per
conoscere il mondo perché un napoletano, un meridionale in
generale, non doveva necessariamente essere un emigrante se si
spostava, quelli che respiravano aria di liberazione e poi
continuavano ad essere pudichi ed impacciati nell’esprimere i
propri sentimenti, quelli che proclamavano la loro
napoletanità ma si dimostravano critici verso il popolo
partenopeo, si siano sentiti defraudati, privati di qualcuno
che li rispecchiava e ne esprimeva gli stessi disagi. Perdere
Massimo fu davvero come perdere un amato fratello, un caro
amico!
Quando aveva letto il libro "Il postino di Neruda", dello
scrittore cileno Antonio Skàrmeta, Massimo si era subito
entusiasmato ed aveva pensato di farne un film: Voglio
raccontare questa storia, c’è un personaggio che assomiglia a
me.
Nell’imminenza del nuovo intervento di cuore, che prevedeva il
trapianto, al quale a breve si sarebbe dovuto sottoporre,
aveva chiesto consiglio ai medici, che gli avevano risposto di
girare il film in tranquillità, perché l’impegno lavorativo,
dosando, ovviamente, le energie, non avrebbe potuto che
giovargli distraendolo dall’assillo del pensiero del suo cuore
malato, e allora Massimo aveva deciso: chistu film’o voglio
fà c’‘o core mio!
E così, costantemente seguito da un’équipe medica, sostenuto
da tutta la troupe, confortato dai parenti, dagli amici e
dalla fidanzata, l’attrice Nathalie Caldonazzo, girando non
più di tre ore al giorno, sostituito in alcune scene da una
controfigura, aveva affrontato l’avventura, ma dopo ogni
ripresa appariva sempre più stanco e stremato, fino al tragico
epilogo avvenuto subito dopo la fine delle riprese.
Il film si discosta in molti punti dal libro: il postino di
Skarmeta è un umile giovane di 17 anni, convertito alla poesia
e alla politica dal grande amico Pablo Neruda, e la storia
della sua amicizia col poeta si svolge in un’isola cilena tra
il ’69 e il ’73, con lo sfondo di eventi storici rilevanti
come la vittoria elettorale di Salvatore Allende. Nel film di
Troisi, invece, il postino, Mario Ruoppolo, ha molti più anni,
è un inetto ultratrentenne che diventa postino sfuggendo al
lavoro di pescatore quando l’arrivo del poeta nell’isola
gliene offre l’occasione; l’azione si svolge negli anni ’50 in
Italia, a Salina, mentre il vero esilio di Neruda fu a Capri,
e Mario muore ucciso in uno scontro con la polizia.
Costantemente immerso in una luce mediterranea che esalta e
che consola, il film è incentrato sulla poesia che Mario
scopre nel quotidiano contatto col poeta (interpretato
dall’ottimo Philippe Noiret), poesia che assimilerà e che a
sua volta restituirà a Neruda quando questi sarà tornato in
Cile, registrandogli i suoni dell’isola, come il rumore del
mare e quello delle reti tristi dei pescatori, il suono del
vento che soffia tra i cespugli e quello delle assordanti
campane del paese, persino il battito del cuore del bambino,
il piccolo Pablo, atteso da Beatrice (l’attrice allora
esordiente Maria Grazia Cucinotta), la donna che ama, divenuta
sua moglie, e che ha conquistato anche con l’aiuto dei versi
del poeta, spacciandoli per suoi.
Nel finale, con un salto temporale, è Beatrice, vedova, che
racconta al poeta ritornato sull’isola che Mario, che aveva
abbracciato la causa comunista, chiamato sul palco per
recitare una poesia di Pablo Neruda, era stato travolto da una
carica della polizia.
Commovente per la storia e per i retroscena della vicenda
personale di Massimo, esaltato dal leit-motiv della stupenda
musica composta da Luis Bakalov, il tango ("il pensiero triste
che si balla"), “Il postino” è qualcosa di più di una
trasposizione cinematografica di un libro e di una buona
regia, è una vera e propria lezione d’arte, di poesia e di
vita, sottolineata continuamente dalla mimica virtuosa ed
intensa di Massimo, il cui bel volto, scavato dalla sofferenza
della malattia, veramente era diventato ancor più somigliante
a quello del grande Eduardo.
Resta il rammarico per la morte precoce di qualcuno che era
qualcosa di più di un bravo attore e regista, un poeta della
recitazione, e vedere o rivedere “Il postino”, soprattutto in
considerazione della tragica fine, avvenuta il giorno dopo il
termine delle riprese, non può che commuovere e turbare,
offrendo nel contempo consolazione con la poesia del film, la
bellezza dei luoghi in cui fu girato, il fascino dei versi del
grande poeta e l’ultima intensa prova recitativa di Massimo,
un napoletano che seppe dare un volto al disagio, un “comico”
divenuto “maschera”, capace di far riflettere attraverso la
tristezza e l’ironia, dotato di profonda sensibilità, legato
alla tradizione della commedia napoletana, esploso, poi, nel
surreale, che ancora tanto avrebbe potuto dare al cinema, non
solo comico.
Indimenticabile permane il suo ricordo, scolpito nel cuore e
nella memoria soprattutto dei napoletani che, per omaggiarlo,
nel 2016 gli hanno dedicato una targa e a lui hanno intitolato
le scale
di via Mariconda, presso piazza Beneventano
del quartiere Chiaia, dove fu girata la memorabile scena di
“Scusate il ritardo” in cui l’amico e collega Lello Arena,
sotto la pioggia battente, gli confida le sue pene d’amore.
Alla cerimonia d’inaugurazione, presenti le massime autorità
napoletane, questo il commento di Rosaria, la sorella di
Massimo:
Essere qui è bellissimo. Massimo è vivo, palpitante, questo
luogo ci restituisce il suo respiro e testimonia la complicità
che c'è sempre stata tra Massimo e Napoli.