Francesca Santucci

Il mio mondo

racconto I classificato al Premio Letterario De Leo-Brontë 2012

(pubblicato nell'antologia brontëana)

  

Era un giorno di fine aprile dell'anno 1820 quando arrivammo ad Haworth, un paesino situato su una ripida collina fra le brughiere. I curiosi che oziavano per le vie dovettero pensare che era una ben strana famiglia quella che scendeva da una carrozza polverosa! Mio padre, che aveva avuto un beneficio ecclesiastico a vita, era il nuovo pastore del paese; con la sua aria burbera incuteva soggezione al primo sguardo. Mia madre a malapena si reggeva sulle gambe stringendo fra le braccia l'ultima nata; io procedevo attaccata alle gonne materne guardandomi intorno spaurita. Un’altra mia sorella avanzava dando la mano al mio unico fratello, più avanti si affrettavano le mie due sorelle maggiori. Andavamo tutti a passo svelto, in silenzio, senza chiacchiere e risatine di gioia, di tanto in tanto lanciando timide occhiate a nostro padre, o accarezzando una mano alla nostra sofferente madre.

Ben presto giungemmo alla casa parrocchiale, una grande costruzione squadrata, oblunga, di pietra giallo-bruna, triste, squallida e abbandonata, posta su un’altura isolata, al limitare della sconfinata brughiera. Soffiava un vento impetuoso che ci costrinse a entrare subito per ripararci. Appena entrati corremmo ad affacciarci alle finestre e la prima cosa che vedemmo, in fondo al giardino, fu una lugubre fila di croci bianche, quasi sommerse dalle erbacce: era il cimitero che confinava con la nostra nuova abitazione.

Iniziò, così, sotto un cielo livido, fra l'imperversare di una bufera, la nostra nuova vita ad Haworth, in una casa circondata per tre lati dal cimitero, per il quarto sulla brughiera, e, forse, la lugubre fila di croci bianche era un triste presagio: il segno dello sventurato destino che attendeva noi, fragili e malate creature piegate come tremuli steli al passaggio della tempesta.

Ben presto perdemmo nostra madre, troppo presto anche le sorelle maggiori; per la delicata costituzione, ma anche per la mancanza di un vitto sano e per la disciplina troppo rigida della scuola che frequentavano (nella quale era scoppiata anche un’epidemia di tifo), si ammalarono e la tisi se le portò via, ancora fanciulle, l'una dopo l'altra.
Restammo a vivere un’esistenza appartata, sotto la ferrea disciplina paterna, in quattro figli, tre sorelle ed un fratello, con il nostro severo padre, una zia molto religiosa, austera, ma non severa (che, pur non amando, rispettavamo), con la quale molte ore felici, in grande intimità, trascorremmo nella cucina della nostra casa, apprendendo da lei,
fonte inesauribile di storie del folklore locale, tante leggende che nutrirono l’immaginario di noi bambini.

Nostro padre voleva che crescessimo con una sorta di stoicismo, in rigido pauperismo, considerando peccaminoso anche il più innocente piacere, lesinandoci il cibo, nutrendoci esclusivamente con pane e patate, considerando indebito piacere la concessione di altro (e forse fu proprio quest’alimentazione scarna a minare gravemente la salute di noi figli!), esigendo che studiassimo per ore al lume della candela, senza fuoco, privi di svago, vietando a noi fanciulle vestiti che gli sembrassero troppo lussuosi (in realtà poveri abiti senza civetteria!).
Nei giorni di bufera il vento del nord, subdolo, s’insinuava nei camini, e nel buio della notte lugubremente fischiava e faceva sbattere le imposte, mutandosi in gemiti e scricchiolii,  simili a sinistre voci dell’oltretomba,  che trattenevano nei letti, paralizzate dal terrore, le mie sorelle e me, osando appena bisbigliare per farci coraggio.
Noi tre (sempre un po’ in disparte nostro fratello), legate da una profonda tenerezza, vivevamo l'una per l'altra e, in assenza di nostro padre, facevamo risuonare la casa di allegre risa, di corse, di giochi. Studiavamo molto e leggevano moltissimo; infatti l'unica concessione di nostro padre erano i libri, delle librerie circolanti e della sua biblioteca, e spesso ne arrivavano di nuovi da Londra. Con ansia e gioia aprivamo le casse, prendevamo d’assalto i volumi e li leggevamo avide, strappandoci alla nostra vita solitaria popolata soltanto dai nostri sogni: La Bibbia, i classici greci e latini, Le favole di Esopo, racconti scelti dalle Mille e una notte, la Storia degli uccelli inglesi con le illustrazioni di Thomas Bewick, e poi classici in poesia e prosa della letteratura inglese e scritti di autori contemporanei come Scott, Byron, Coleridge, Wordsworth. Quei libri nutrivano di continuo le nostre fantasie e ci consentivano di vivere costantemente in una dimensione irreale, facendo elaborare alle nostre menti, stimolate anche dai racconti popolari della brughiera narrati dalla nostra domestica, mondi immaginari nei quali rifugiarci evadendo dalla realtà cruda, povera e isolata. Ma poi dall'isolamento forzato sapemmo trarre le risorse migliori per guardare in noi se stesse ed imparare a conoscere e ad analizzare ogni moto dei nostri cuori, e cominciammo a scrivere anche noi, su vecchi quaderni (in fittissima calligrafia per ridurre il consumo della carta, nostro padre sempre attento ad economizzare!), versi dolci e malinconici, un diario nel quale annotare pensieri ed episodi del quotidiano, e, quasi per gioco, anche racconti.
Nella nostra casa isolata soprattutto l’inverno era duro da passare, significava la segregazione, interminabile successione di notti gelide, che erano un lungo tormento fra l'urlo continuo del
le bufere di neve, che ammantavano la terra di bianco come un immenso velo da sposa, ma con la primavera ritornava la vita: compivamo lunghe passeggiate nella brughiera, ricoperta come per incanto da un morbido tappeto verde, fra la gioia musicale degli uccelli e i profumi dei crochi, dei biancospini e delle eriche novelle, in libero contatto con la natura. Ci rincorrevano e cantavano, pazze di felicità, coi capelli scompigliati dallo zèfiro, simili a creature nate dal grembo della terra: tornavamo, allora, ad amare il nostro piccolo angolo di mondo, dal quale pure, poi, nel tempo, in periodi diversi, cercammo di allontanarci, per studiare e lavorare, e per sottrarci al giogo paterno, sempre, poi, qui ritornando.
Io, più delle mie sorelle, fortemente ho amato il mio paese, la mia casa, la brughiera, non riuscendo a viverne lontana; me ne sono allontanata di rado, ma mi sono ammalata ogni volta di nostalgia e sono stata costretta a ritornarvi: è tutto il mio mondo.
Amo Haworth, dove giunsi quando avevo solo due anni; amo la semplicità della mia casa, impastare il pane per i miei cari, prendermi cura di loro, suonare il pianoforte e ritrarre i miei animali domestici; amo la brughiera (che si stende per miglia e miglia alle spalle del villaggio
, punteggiata d’infinite macchie di erica rosa e viola), il senso di libertà, soffio della mia vita, priva della quale mi sentirei morire, che mi offre la natura, e la solitudine in cui la mia ardente immaginazione può meglio dispiegarsi consentendomi di spaziare con la fantasia, vagando in ricerca dell’assoluto, allontanando da me la realtà, vivendo come in sogno la vita, riversando nella scrittura, parte importante di me, le mie più recondite pulsioni.

La brughiera spazzata dai venti, paesaggio austero di una bellezza selvaggia, luogo lontano da ogni rumore molesto, dove meglio il pensiero in se stesso può dolcemente affondare, è sempre stata la meta quotidiana delle mie lunghe passeggiate.

 Accompagnata nei miei solitari vagabondaggi (divertendomi talvolta anche a vestirmi da ragazzo) dal mio cane, feroce con tutti e mite soltanto con me, e da uno sgabello di quercia dove mi siedo per riposare, scrivere, disegnare o semplicemente osservare, libera vago nel folto dei mirtilli e dell'erica, il mio fiore preferito, il fiore della solitudine, ma anche della speranza perché cresce e fiorisce là dove un altro fiore non fiorirebbe. Bella e caparbia, puntualmente ogni anno spunta e oltre ogni attesa lungamente fiorisce, nella sua varietà fra il rosa e il violetto, ma anche in bianco, molto rara a trovarsi, addirittura si può camminare per ore nei campi prima di trovarne una e, forse, proprio perché è così rara la credenza vuole che sia un amuleto che protegga da tutti i pericoli e che serva ad esaudire i più reconditi desideri, perciò, se ci s’imbatte in una fioritura bianca e si esprime un desiderio, quello di certo si realizzerà. Ma l’erica bianca è anche il simbolo dell’amore fedele, ricordando l’antica leggenda che narra del valoroso Oscar, figlio del bardo Ossian, che quando era moribondo in Ulster, dopo il suo duello con Cairbar, affidò ad un uomo del suo seguito un ramo di erica violetta con la preghiera di portarlo a Malvina, la sua diletta, come segno del suo amore. L'uomo eseguì l'incarico, e quando Malvina seppe della morte di Oscar versò sul ramo lacrime amare, cosi che i fiori scolorirono e divennero interamente bianchi. Allora Malvina guardò il fiore ed esclamò: Che l'erica bianca, simbolo del mio dolore, porti fortuna a chiunque la trovi!

Nessun angolo ha per me segreto la brughiera, così mite in primavera, così calda in estate, così fresca e piovosa, vero acquitrino, nell’autunno brumoso, così tempestosa e fredda d’inverno, landa ghiacciata. Passeggio lunghe ore insinuandomi nei suoi più oscuri luoghi, correndo su per le colline, fra i boschi solcati dai ruscelli che si snodano, quali argentei nastri, tra i verdi pendii pennellati dalle profumate eriche, cullate nella bella stagione dal vento dell’ovest, festeggiate d’intorno dalle api ronzanti, fra le melodie delle allodole, piccoli uccelli insignificanti dotati d’un canto meraviglioso, e dei tordi, cantori straordinari che annunciano la primavera, fra le dolci armonie dei fanelli, i sorprendenti versi dei cuculi (il maschio che canta la tipica canzone dell’orologio, la femmina dal borbottio chiocciante) che così bene il loro nome ripetono, e i volteggi delle pavoncelle, che si lasciano conquistare dalle piroette eseguite nell’aria dal compagno durante la parata nuziale.

Sdraiata su di una ripa d'erica, avida succhiando dolci mirtilli rosso cupo, mentre il sole bacia il mio viso nei tiepidi giorni illuminati da un cielo splendente d’azzurro, lascio che i miei pensieri si perdano, e fuggo in mondi fantastici.

Amo la brughiera quando un tuono improvviso ruggisce e scuote l’aria e le piogge di primavera si precipitano a bagnare le zolle inaridite facendo rinascere le erbe ed aprire le timide gemme dei giacinti selvatici, la amo quando al tramonto i vapori estivi la scaldano, tra le fresche vallette ombrose, chiuse tra le colline, occhieggiano le ritrose campanule candide, blu e violette e i poggi sporgenti si ricoprono di erica nella piena fioritura. La amo quando in autunno le foglie secche e fruscianti assumono i colori degli ori, i pomeriggi diventano sempre più freschi e l’orizzonte è reso terso dal vento, che allora geme, ma che d’inverno tremendo urla rompendo l’argenteo silenzio, scuotendo gli alberi dai rami rinsecchiti protesi come divinità infernali che dal sottosuolo protendano le adunche falangi verso il cielo livido: allora, quando più violento avanza a percuotere abeti e roveti in vana attesa dei caldi abbracci, più mi perdo in cupe fantasticherie che riverso nei miei scritti, inventandomi storie appassionate, violente e selvagge come la landa, che mi spezzano il cuore eppure vivificavano il mio animo inquieto.
È stato questo luogo romantico e fiabesco ad ispirarmi la stesura di una storia ove s’intrecciassero la violenza e la forza esplosiva della natura e dell'uomo, i tumulti atmosferici e le passioni travolgenti, la brughiera battuta dai venti, implacabilmente sferzata dal crudele vento dell’est (così irritante per il suo spirare di continuo, così dannoso per i miei deboli polmoni, che tanto amo e poco temo- come si ama e poco si teme la morte quando è invocata in liberazione di un grande affanno
!), il vento impetuoso che implacabile piega anche i più robusti alberi. Ma mi hanno ispirata anche una vecchia fattoria solitaria, Top Withens, raggiungibile solo attraverso un sentiero solitario, e Ponden Kirk, una cornice di roccia sul fianco della parete. E poi le croci bianche del cimitero confinante con la mia casa e i ricordi delle notti di terrore, trascorse in forzato isolamento, quando erano di conforto a noi, povere orfane di madre, solo le nostre risa infantili ed i libri, che offrivano spiragli fantastici alla nostra semplice vita. Fu in una di quelle notti angoscianti che cominciai a dare ascolto al silenzio e a trovare nelle voci della natura mistiche e soprannaturali corrispondenze, a cogliere nei grigi avvenimenti dei miei giorni vibrazioni metafisiche e demoniache, a scoprire, nel vero cuore della solitudine e della malinconia, mute estasi di gioia, e a tramutarle in parola scritta.
Forse già in quel tempo nella mia immaginazione nacque la romantica figura di un principe travestito, figlio di una regina indiana e di un imperatore della Cina, 1 celato sotto le mentite spoglie di un uomo selvaggio e tenebroso, ardente e un po’ crudele, che conquistava il cuore della mia eroina d’amore tanto intenso da non finire nella tomba, ma durare oltre la morte, perché è così che, io che l’ho conosciuto solo nei sogni, ho sempre immaginato questo sentimento: raro a trovarsi come l’erica bianca, ma anche appassionato, violento, fedele e trascendente. Elaborai, poi, la storia, e dilatai la mia anima in due diverse creature letterarie, simili a me e fra di loro, entrambi forti e ribelli, lei mutevole e libera come il vento, lui aspro personaggio per il quale, incrociando due vocaboli, inventai un nome che evocasse la natura selvaggia a me così cara: lo chiamai Heathcliff, Heath come l’incolto terreno, e cliff, come la ripida rupe della mia brughiera.
Non c'è antro di questa landa o poggio di erica che io non conosca, né cespuglio di umili mirtilli o rami di felci sorvolate da allodole e fanelli; ogni suo più remoto angolo mi è familiare, anche il più buio per me è luminoso, ai miei occhi un’oscura grotta si muta in una luminosa collina, semplici steli diventano splendidi fiori, e solo qui la mia solitudine si converte in libertà.

La brughiera mi parla, le sue voci sono i soffi delle brezze erranti della sera, le melodie degli uccelli, il mormorio delle eriche lambite dal vento, e pure il battito del mio cuore, perché anch’io sono una creatura della brughiera, appartengo a quest’organismo pulsante e vivente, della mia vita insieme scenario selvaggio e romantico, reale e fiabesco.
Dalla mia casa quotidianamente guardo le lapidi bianche sotto cui giacciono i miei cari, ci sono giorni in cui mi pare che invochino il mio nome e d’intorno aleggino i loro fantasmi, e sento che il mio tempo sta per scadere: già il male avanza a consumare anche me, già la morte il suo passo verso di me allunga.
Ora siamo in dicembre; m
entre fuori il vento tagliente urla, nella mia casa, che così tanti lutti ha sopportato, di recente anche la scomparsa del mio amato fratello (che fra le mie braccia ha esalato l’ultimo respiro), trascorro giorni e notti di sofferenza, il petto squassato da continui attacchi di tosse profonda, secca, persistente, il respiro affannoso, il fianco dolorante, indebolita, ma non piegata, perché il mio animo è forte come la roccia di Ponden Kirk, e non mi arrenderò, combatterò il mio male fino alla fine, a costo di non avere pietà di me stessa. E quando, poi, la morte giungerà, non avrò paura, no, non ne ho mai avuto paura, il suo pensiero non mi causa smarrimento, è sempre stata fortemente intrecciata alla mia vita, ne ho avuto familiarità sin da bambina, anche con i suoi simboli (le bianche croci intorno alla mia casa); insospettata altra cara sorella, sarà liberatrice di sofferenze, porto di pace, terra del riposo. Soltanto nell’ora estrema invocherò in silenzio le ombre di mia madre e dei miei cari perduti, perché mi siano accanto e mi aiutino nel trapasso; sarò come il pettirosso infreddolito che si posa solo un istante sul ramo per attingere forze e più lontano volare.

 

NOTA

 

1) Potresti benissimo essere un principe travestito, e chissà mai che tuo padre non sia stato imperatore della Cina, e tua madre una regina indiana, capaci di comperare con la rendita di una settimana Wuthering Heights e Thrushcross Grange tutt'in una volta?, “Wuthering Heights”, cap.V)

 

 Premio Letterario De Leo-Brontë 2012

1° classificato: IL MIO MONDO di Francesca Santucci (Bergamo)

Motivazione:

Lavoro pregevole in cui è evidente la perfetta empatia avvertita dall’autrice Francesca Santucci verso l’argomento trattato. Sostenuto da una prosa ricca, espressiva e quanto mai precisa, il testo è la confessione spirituale di Emily Brontë così come lei stessa l’avrebbe scritta nell’ultimo mese della sua vita. I ricordi della prima infanzia e di un’adolescenza povera danno spazio ben presto alla descrizione minuziosa e attenta di quella natura che fu davvero il mondo della Brontë. La pagina dedicata alla brughiera, sintetizzando perfettamente l’estro creativo che è alla base della sua poetica, costituisce di conseguenza il fulcro del racconto e lo rende verosimilmente pseudo-brontëano.

Maddalena De Leo

 

 

Cara Francesca ho letto ed ammirato il delicato racconto e le tre poesie. Ti riconosco in questa capacità prodigiosa di parlare con immagini che vanno diritte al cuore senza trascurare l'eleganza stilistica e soprattutto la verità.

Antonia Chimenti

 

 

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