Francesca Santucci

CARAVAGGIO:

IL MARTIRIO DI SANT’ORSOLA


Francesca Santucci,  “Virgo virago”, Akkuaria, gennaio 2008 (estratto)

 

Particolarmente rilevante nell’arte, e nel suo percorso di artista e di uomo, fu l’interpretazione del martirio di Sant’Orsola offerta da Caravaggio, che rivoluzionò la pittura con un’intuizione fondamentale, la nuova dualità luce-ombra, la luce che squarcia la scena come un lampo, che irrompe come una sciabolata nella materia pittorica ed illumina anche l’angolo più buio, un volto, una ruga, un panneggio, la piega d’una veste, proprio come il divino può illuminare la vita dei diseredati così spesso da lui ritratti, portando nell’arte il momento preciso in cui la violenza si attua, immortalando l’attimo esatto in cui si consuma la tragedia, narratore della violenza presentata e testimone della violenza, personal- mente sperimentata, del suo tempo.
E, forse, fu proprio la sua vita maledetta, irrequieta, disperata, trasgressiva fino all'assassinio, a condurlo alla rappresentazione di tanti soggetti sacri raffigurati come poveri uomini miseramente vestiti, dalle unghie sporche e dai piedi infangati, rendendolo, paradossalmente, profondamente religioso, in bisogno di cercare ed affermare la necessità della Grazia nella vita del peccatore e la presenza del divino nel ceto più umile. E, curiosamente, è da un pittore vissuto così ai margini, tanto lontano dalla Fede, che ritroviamo anche la più significativa espressione pittorica della presenza di Dio, attraverso vere e proprie istantanee della Storia del Cristianesimo.
Nel “Martirio di Sant’Orsola”, opera estrema, collocata fra le ultime di Caravaggio, probabilmente l’ultima in assoluto (in cui è presente anche il suo autoritratto), dipinta a Napoli due mesi prima della morte, nella tarda primavera del 1610, per il principe Marcantonio Doria, figlio del doge Agostino (“Sant’Orsola confitta dal tiranno“, appare intitolato il quadro nel 1620 in un inventario dei beni di Casa Doria), come sempre ignorò ogni precedente iconografia del tema, presentando i personaggi, in coinvolgimento emotivo totale di protagonisti, autore e spettatore, insolitamente ravvicinati fra loro e verso l’osservatore, come a volerlo rendere partecipe in prima persona del tragico accadimento, interessato, mai con tanta evidenza come in questo suo ultimo dipinto, a fissare il momento conclusivo della storia offerta: l’attimo d’eternità.
Nel dipinto (in cui un intenso raggio di luce che arriva da sinistra a destra della tela, ripercorrendo la stessa traiettoria della freccia scoccata, evidenzia suggestivamente e drammaticamente gli elementi essenziali della scena, ponendo in collegamento i due gruppi nel quadro, il tiranno da un lato e la Santa con i soldati dall’altro), contro lo sfondo scuro, attraversato da lunghi tocchi di luce e colore, in cui le uniche due figure a essere rilevate con il rosso sono i due protagonisti (lui in forte opposizione alla giovane donna per il gesto evidenziato e l’espressione accentuata), risalta, per il variare dell’incarnato in luce, Sant’Orsola che, a testa bassa, guarda la ferita contro cui tiene giunte le mani; il volto pallido, in contrasto con il sangue rosso vivo che sprizza dal suo petto, non tradisce alcuna espressione di dolore, solo rassegnata consapevole lucidità del martirio.
Sant’Orsola è presentata nel momento esatto in cui è stata colpita dalla freccia scagliata dal feroce capo dei barbari, che ancora tiene la mano sulla corda dell’arco dal quale l’ha appena scoccata. Il volto della giovane ha impresso lo stupore, non il dolore e la morte che ancora devono giungere: è il ritratto dell’esatto momento in cui la tragedia si compie.
Questa tela, in cui apparentemente quasi non esiste lo spazio, dato dal movimento del tiranno che scocca la freccia (nella realtà sarebbe stato impossibile scagliare il colpo mortale a distanza così ravvicinata), dalla donna ferita, dalla mano di un uomo che cerca di bloccare il dardo senza riuscirci (perché nemmeno un gesto compassionevole può fermare il destino, nemmeno l’amore può fermare la morte), costituì l’approdo finale di un lungo tragitto espressivo che aveva condotto Caravaggio ad allontanarsi dall’esplosione della violenza, come quella del dipinto “La decapitazione di Oloferne” (1597-1600), in cui aveva spinto ogni elemento della composizione all’eccesso (un viaggiatore inglese, nel 1779, guardando la tela che raffigurava la scena biblica, disse di provare un disagio che si poteva avvertire soltanto di fronte ad una vera esecuzione) o come quella del “Martirio di San Matteo” (1600-1601), a favore di una narrazione che privilegiava l’essenzialità.
Infine interessò a Caravaggio dipingere non i suoi risultati ma l’atto mentre si avvera, isolandone la sofferenza e la morte in esaltazione della drammaticità dell’evento, concentrandola nel rapporto esclusivo fra la vittima e il carnefice, in sentita partecipazione della lotta fra bene e male, fra persecutori e vittime, schierato, come sempre, dalla parte degli oppressi, in appassionata difesa della libertà individuale.

 

Francesca Santucci

 

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