Erbe ingiallite, alberi ormai spogli. Chissà dove vanno a
morire le foglie gialle, rossicce, marroni, che il vento
dell’autunno stacca dagli alberi e spinge lontano. Per un po’
fluttuano nell’aria, volteggiano come leggiadre farfalle, poi
si disperdono nel brusio del vento, nel fitto velo di nebbia
che ruba i colori alle cose e ne dissolve i contorni, tanto
che sembra di camminare in un mare di nuvole, ma poi, dove
vanno a morire?
Ora siamo in novembre. La temperatura è rigida.
Stanotte è anche caduto un leggero strato di neve che,
sciogliendosi, stamattina è diventato fanghiglia che ha
imbrattato i viali e le strade imprimendo alla città un
aspetto squallido e desolato.
Osservo un albero spoglio fuori della mia finestra; solitario,
contro il cielo freddo allunga i suoi rami bruni. Penso che lo
percuoteranno la neve e il gelo, ma poi i suoi rami secchi
rinverdiranno a primavera.
In genere, pensare al verde che tornerà, riesce a scacciare da
me la malinconia, ma non oggi.
Solo pochi giorni fa ho saputo della morte di Silvia. È
accaduto quasi un anno fa, il 10 gennaio. Ha riportato i figli
a casa da scuola, è uscita di nuovo, per qualche ora ha vagato
in auto da sola, poi si è tolta la vita andando a schiantarsi
contro un albero. È accaduto fuori, in campagna,
mentre imbruniva.
Me la ricordo bene al liceo, per qualche tempo studiammo
insieme e ci frequentammo anche conclusi gli studi, poi la
vita ci allontanò.
Alta, sottile, lunghi capelli ramati, occhi cangianti fra il
verde e l’azzurro, nasino alla francese, bella ma noncurante
del fascino che esercitava sui ragazzi. Tutti ci provavano a
corteggiarla, ma senza successo, lei non era superba o altera,
solo indifferente, ad altro interessata, e il suo
atteggiamento distaccato portò ben presto a farla definire
“bella ma gelida come un iceberg” e questo divenne il suo
soprannome: “iceberg”.
Silvia era l’unica fra noi compagne di classe a portare
dall’autunno fin quasi al principio della primavera un
cappello (ma nella nostra città il clima è mite anche a
gennaio, dunque era altro, non necessità, indossarlo), di
colore rosso, sotto il quale la sua testa era attraversata da
pensieri diversi dai nostri.
Tutte vivevamo con gioia i nostri studi, al termine dei quali
avremmo scelto di frequentare chi la facoltà di Lettere e
Filosofia, chi quella di Medicina, chi d’Ingegneria, chi di
Scienze Biologiche.
In quegli anni agitati da venti di libertà, ora che più nessun
pregiudizio discriminava le donne, le opportunità più
disparate e pari a quelle dell’uomo offriva il mondo del
lavoro, che ci sembrava pieno di lusinghe e con possibilità
sia di guadagno sia di emancipazione, ma Silvia non
condivideva il nostro entusiasmo, a lei poco interessava il
futuro lavorativo, molto disegnare e dipingere, tanto che, pur
conseguendo buoni risultati in tutte le materie, i professori
spesso sottolineavano che aveva sbagliato indirizzo
scolastico, non gli studi classici, ma quelli artistici le
sarebbero stato più congeniali.
Noi altre, quando non eravamo prese dagli impegni scolastici,
dalle ansie per le interrogazioni, per i compiti in classe,
trascorrevamo il tempo a sognare l’amore, magari già
interessate a qualche ragazzo adocchiato a scuola o in chiesa
o nel quartiere, ripetendo scherzose l’ossessiva cantilena
appresa da bambine,
toccandoci le dita una alla volta, tirandole fino a sentirle
scrocchiare al nome del ragazzo dal quale volevamo sapere se
ricambiava il nostro interesse:
Hai
tu penna e calamaio?
Hai
qualcuno che ti ama?
Sai
tu dir come si chiama?
Se …
ti amerà,
questo dito scrocchierà.
Silvia amava disegnare e dipingere qualsiasi cosa, fiori,
paesaggi, marine, animali, ma, soprattutto, volti di donne,
belli come il suo, con grandi occhi chiari, rosee labbra
carnose, chiome fluenti. Purtroppo non poté coltivare la sua
passione, la vita dispose diversamente per lei. Terminato il
liceo non ci fu l’Università, ma subito un impiego per aiutare
economicamente la famiglia dopo la morte del padre, e poi il
matrimonio e poi la nascita dei figli. Chiusa nel cerchio di
moglie-madre-lavoratrice, stretta in quei ruoli che pure
svolgeva egregiamente, costretta a rinunciare al suo sogno,
imparò a rubare qualche ora alla notte per non abbandonare del
tutto l’antica passione, che continuava a coltivare
segretamente anche per distrarsi dal suo dolore. Qual era il
dolore di Silvia? Suo marito, che, dopo il matrimonio, si era
rivelato ben diverso da come si era mostrato agli inizi della
loro conoscenza.
Silvia lo aveva amato da subito, per quella sua aria tenebrosa
ma, soprattutto, perché timido, impacciato, fragile, a volte
simile a un bimbo sperduto nella notte oscura, bisognoso di
rassicurazione, di protezione: l’innato senso materno non
poteva che spingerlo verso di lui, che irruppe nel suo cuore.
Fu allora che ci allontanammo, quando lei lo conobbe. Silvia
si votò completamente al suo innamorato, ignara della
delusione che le si preparava.
Può accadere, infatti, che secoli di civilizzazione non
abbiano intaccato la primitiva barbarie del maschio, e che la
bestia umana, dopo essersi distaccata dalla posizione carponi
dei suoi scimmieschi progenitori, ed aver assunto la posizione
eretta sollevandosi sulle gambe, abbia soltanto imparato ad
usare con maggior astuzia il cervello, affinando le armi per
esercitare la sua aggressività sul più debole, soprattutto
sulla donna. La bestia umana, pur divenuta sociale, ripulita,
rivestita, odorosa, colta, pur diventata uomo affabile,
gentile, amorevole, eroico cavaliere, romantico poeta, esprima
il suo amore, che tale poi non è, in modo deviante: attraverso
la violenza.
Accadde anche a Silvia di conoscere l’altra faccia dell’amore.
Per un’immotivata gelosia lui vedeva ombre ovunque, allora si
trasformava, diveniva prepotente, violento, la picchiava e lei
nascondeva col trucco i lividi, inventandosi con chi le
chiedeva spiegazioni i più disparati incidenti domestici, e
taceva, come, purtroppo, fanno tante donne che subiscono in
silenzio e non denunciano, assurdamente ostinandosi ad avere
fiducia in un cambiamento che, sperano, avverrà, nell’uomo
amato-deviato, ma che, poi, quasi mai arriva.
Ma Silvia a lungo non resse alle botte e alle percosse, non
solo fisiche: poteva nascondere i lividi sotto gli abiti o con
il trucco, ma ben incise dentro di sé restavano le cicatrici
di quelle violenze. Chissà, forse se avesse avuto la forza di
denunciare non avrebbe prematuramente e in quel modo finito i
suoi giorni ... ma lei, caparbia, fino all’ultimo sperò in un
cambiamento nel marito … fino a quel giorno in cui,
miseramente, crollò e andò a schiantarsi.
Ho saputo delle violenze che subiva solo dopo la sua morte,
dalla madre, che ho cercato per le condoglianze, che si è
ricordata di me e mi ha accolta come fossi una figlia:
chissà, forse in me ha rivisto la sua Silvia.
Come una pentola piena d’acqua che, al forte ribollire
trabocca, mi ha raccontato tutto. Solo con lei Silvia si era
confidata, rifiutando qualsiasi aiuto, ignorando le sue
continue esortazioni di andare a denunciare il marito o,
almeno, di lasciarlo, ma non le aveva dato ascolto, perché
comunque lo amava e perché non voleva privare i figli della
famiglia, perciò medicava i segni delle violenze e soffriva
in silenzio, subendo, non denunciando, credendo che quello
fosse comunque amore, ed invece era un sentimento morboso,
malsano, malato.
Da sua madre ho saputo anche che, dopo la morte di Silvia, fra
le sue carte, insieme ad una pagina di diario, in cui,
quindicenne, aveva annotato Ho paura di crescere. Non
voglio sposarmi, voglio essere libera. Non voglio lavorare,
voglio dipingere, sono stati ritrovati moltissimi disegni
e schizzi a matita: rappresentano tutti dei cavalli, sempre
nella postura della corsa. L’ultimo ritratto, invece, l’unico
eseguito a colori, che porta la data del giorno prima della
sua morte, raffigura un bel volto di donna, dagli occhi
chiari, labbra a cuore, gote rosate: sopra la bella
capigliatura ramata c’è dipinto un cappello rosso.
(racconto presente anche nell'antologia
AA.VV., " I Cannibali Questioni di famiglia nel cinema,
nell'arte nella letteratura",
Efesto 2019)
Antologia presentata all'evento collaterale
della Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia
2019, dedicata dal Centro Studi di Psicologia
dell'Arte e Psicoterapie quest'anno alla famiglia.