Francesca
Santucci
Giuditta e Oloferne
(
Francesca Santucci, Messaggi
dall'antichità,
Kimerik , settembre 2005
estratto dal libro)
Giuditta disse: “Dammi forza, Signore Dio d’Israele, in questo
momento”.
E con tutta la forza di cui era capace lo colpì due volte al collo e
gli staccò la testa”.
Gt.13, 7-8
Caravaggio, Giuditta e Oloferne
È
giudizio comune che, insieme al pensiero greco e al diritto romano, la
Bibbia, libro di fede, abbia avuto un ruolo fondamentale nella
formazione della civiltà occidentale, permeando profondamente le
strutture sociali ed il costume. Perenne fonte d’ispirazione, evidente
è il suo influsso nelle arti; basti pensare alle miniature dei
manoscritti medievali, ai dipinti, alle sculture, alle opere
letterarie e musicali, che s’ispirano appunto a fatti e personaggi
biblici. E non sono poche le storie narrate nella Bibbia che, a
prescindere dal significato religioso e dalla realtà storica, possono
essere lette come belle pagine di romanzo; una delle più avvincenti,
che tanta fortuna ha avuto in pittura, è quella di Giuditta, vanto
d’Israele, la cui vicenda piace qui ricordare.
Durante il regno assiro di Nabucodonosor, uno dei suoi nemici, Arfaxad,
re dei Medi, gli mosse guerra, e molte popolazioni soggette all’Assiria
gli si affiancarono; tra i ribelli ci furono anche i Giudei, che non
stimavano il sovrano assiro e rifiutavano la sua religione.
Il re
rimandò la vendetta contro i Giudei, affrontando prima i Medi, che
sterminò, poi, a guerra conclusa, mandò contro di loro le truppe
comandate dal generale Oloferne, che iniziò la sua marcia vittoriosa
attraversando la pianura di Bectilet, passando per i monti
occidentali della Cilicia, prendendo la regione, superando l’Eufrate e
la Mesopotamia, saccheggiando Damasco, seminando ovunque morte e
devastazione, distruggendo anche gli idoli ed i luoghi sacri per
proclamare il culto di Nabucodonosor come quello dell’unico vero Dio.
Quando i Giudei furono informati di ciò, dal momento che mai si
sarebbero piegati ad adorare Nabucodonosor, compresero che, per
difendere il tempio del Signore, e le loro stesse vite, avrebbero
dovuto combattere; allora il sommo sacerdote di Gerusalemme, Joachim,
scrisse agli abitanti di Betulia e di Bet-Omestaim ordinando di
occupare tutti i valichi dei monti d’accesso alla Giudea.
Ovunque si preparavano fortificazioni e scorte di viveri e gli
Israeliti digiunavano, portavano cilici ai fianchi e non smettevano di
pregare il loro Dio affinché fossero risparmiati.
Intanto Oloferne, accompagnato presso Dotain, davanti alla grande
pianura della Palestina, informato della resistenza di quel piccolo
popolo, s’indignò ma pure molto si meravigliò, e chiamò a sé tutti i
capi dei Moabiti, degli Ammoniti e delle popolazioni litoranee per
avere informazioni sugli Ebrei.
Parlò
Achior, capo degli Ammoniti, che ne raccontò la storia ed aggiunse
anche che, se Dio fosse stato con loro, nessuno sarebbe riuscito a
sconfiggerli.
Ad
Oloferne non piacque il discorso di Achior, perciò lo fece legare ai
piedi della montagna su cui sorgeva la città di Betulia, e qui
l’abbandonò, promettendogli la morte, ma gli uomini di Betulia, che
dall’alto avevano visto la scena, quando il prigioniero fu lasciato
solo corsero a liberarlo.
L’indomani l’esercito babilonese si avvicinò a Betulia, occupò tutti
gli accessi alle montagne e sistemò un vasto accampamento ai piedi
della valle.
I
Moabiti consigliarono ad Oloferne di conquistare la città con la sete,
occupando anche le sorgenti che si trovavano ai piedi del monte, in
tal modo avrebbe risparmiato i suoi uomini ed evitato le difficoltà
di un assalto in montagna.
Oloferne approvò il piano; cominciò così l’assedio a Betulia.
Trentacinque giorni dopo la città aveva esaurito le cisterne d’acqua e
i cittadini cominciavano a soffrire la sete e a scongiurare i loro
capi di cedere al nemico.
Ozia,
uno dei capi di Betulia, che comprendeva l’angoscia dei concittadini,
disposti a subire la schiavitù piuttosto che veder morire i loro
figli, promise che, se qualcosa non fosse accaduto entro cinque
giorni, la città sarebbe stata consegnata ad Oloferne.
V’era
in Betulia Giuditta, figlia di Merari, una coraggiosa donna, nobile
dama ancora giovane e di grande bellezza, ma soprattutto casta e
virtuosa 1, già duramente provata dalla vita per
la morte del marito, avvezza alle sofferenze dei digiuni e del cilicio
(la penitente ruvida veste, imposta dal suo stato vedovile, che non
mancava mai d’indossare), che il tormento della sete non poteva
intimorire.
Giuditta disapprovava le intenzioni di Ozia, e così mandò a chiamare
Cabri e Carmi, insieme ad Ozia capi della città, e propose loro un
audace piano che ella stessa avrebbe condotto a compimento; gli
anziani approvarono le sue sagge parole e, fidandosi di lei, le
accordarono il permesso di agire.
Congedati i due anziani, Giuditta chiamò una serva e si fece aiutare
ad abbigliarsi con le vesti più belle che aveva, si profumò d’unguenti
e s’ingioiellò; non più oppressa nell’aspetto dall’abito da vedova, la
sua bellezza si esaltò e sfolgorò, suscitando l’ammirazione di tutti.
Prima
di lasciare la casa ordinò alla serva di prendere una piccola scorta
di viveri, ed insieme si
avviarono. Alle porte della città le due donne incontrarono Cabri e
Carmi che, lodando la bellezza della nobile donna, la benedirono e le
augurarono buona fortuna.
Le
sentinelle assire la scorsero e la catturarono per interrogarla; ella
disse d’aver abbandonato il suo
popolo morituro per presentarsi ad Oloferne, al quale intendeva dare
delle indicazioni sulla miglior via
da seguire per vincere, e così fu scortata fin nella tenda del
generale, incantando tutti i soldati col suo fascino, ed anche il
generale Oloferne non restò insensibile alla sua bellezza.
Quando i soldati di guardia intravidero alla luce della luna la sua
grande bellezza, la portarono subito da Oloferne, che l’accolse con
gioia, perché era così bella. La fece sedere accanto a sé e apprezzò
molto il suo sapere, la bellezza e il portamento e, guardandola, si
era infuocato di desiderio per lei, e voleva possederla 2.
Oloferne, vedutala prostrata ai suoi piedi, ordinò che l’aiutassero a
risollevarsi e la incoraggiò a parlare promettendole la salvezza.
Giuditta fece un discorso che fu un capolavoro di astuzia, disse che
ormai Betulia era ridotta allo stremo, senza più viveri, e che i
comandanti della città avevano chiesto il permesso ai capi di
Gerusalemme di poter consumare le primizie del grano e le decime del
vino e dell’olio, riservate ai sacerdoti e che Dio proibiva di
toccare. Quando ciò sarebbe accaduto i Betulesi avrebbero commesso un
grande peccato e allora Dio non sarebbe stato più dalla loro parte, ma
li avrebbe abbandonati e consegnati in suo potere, perciò lei era
fuggita e chiedeva ad Oloferne di poter restare nel suo accampamento;
se glielo avesse permesso, ogni notte sarebbe uscita a pregare il suo
Dio e, così facendo, avrebbe saputo quando i Betulesi si sarebbero
macchiati del grave peccato, allora glielo avrebbe detto e lui li
avrebbe vinti senza combattere.
Le
parole di Giuditta piacquero ad Oloferne e ai suo aiutanti, tutti le
credettero senza sospettare il terribile disegno. Le offrirono da
mangiare e da bere, ma Giuditta rifiutò temendo di peccare e disse di
aver portato con sé cibo a sufficienza, allora l’accompagnarono in una
tenda dalla quale uscì solo sul finir della notte per recarsi a
pregare, così come aveva preannunciato.
Trascorsero tre giorni, e ad ogni aurora Giuditta si era recata alle
sorgenti di Betulia per lavarsi e purificarsi, e poi chiedere a Dio
con fervore di aiutarla nell’impresa.
Il
quarto giorno Oloferne fece imbandire un ricco banchetto (non volle
più attendere di andare a letto con la donna ebrea 3 ),
e la mandò a chiamare:
Ed
ecco, al quarto giorno, Oloferne fece preparare un rinfresco
riservato ai suoi servi, senza invitare a mensa alcuno degli
ufficiali, e disse a Bagoa, il funzionario incaricato di tutte le sue
cose: “Va’ e invita quella donna ebrea che è presso di te a venire
assieme a noi, poiché è cosa disonorevole alla
nostra reputazione se lasceremo andare una donna simile senza godere
della sua compagnia; se non sapremo conquistarla si farà beffe di
noi.” 4
Invitò anche Giuditta,
che si adornò incantando ancora una volta col suo fascino Oloferne,
che non smetteva di adularla e corteggiarla. Euforico, il generale
babilonese cominciò a bere smodatamente tanto che, verso la fine
del pranzo, era completamente ubriaco.
Congedati tutti i convitati, Giuditta accettò di rimanere ancora in
sua compagnia, ma ben presto lo vide addormentarsi d’un sonno
profondo, allora afferrò la scimitarra che pendeva al capo del letto e
vibrò due energici fondenti sul suo collo: senza un gemito la testa si
staccò di netto dal corpo.
Giuditta la raccolse ed uscì in fretta dalla tenda; fuori l’aspettava
la serva con una bisaccia aperta, pronta ad accogliere l’orribile
bottino.
Rimase solo Giuditta nella tenda e Oloferne buttato sul divano,
ubriaco fradicio. Allora Giuditta ordinò all’ancella di stare fuori
della sua tenda e di aspettare che uscisse…
Avvicinatasi alla colonna del letto che era dalla parte del capo di
Oloferne, ne staccò la scimitarra di lui; poi, accostatasi al letto,
afferrò la testa di lui per la chioma e disse: “Dammi forza, Signore
Dio d’Israele, in questo momento”. E con tutta la forza di cui era
capace lo colpì due volte al collo e gli staccò la testa. Indi ne fece
rotolare il corpo giù dal giaciglio e strappò via le cortine dai
sostegni. Poco dopo uscì e consegnò la testa di Oloferne alla sua
ancella, la quale la mise nella bisaccia dei viveri…5
Intanto albeggiava, e s’avvicinava l’ora in cui le due donne erano
solite recarsi alle fonti per lavarsi e pregare, perciò si avviarono
e il loro passaggio non destò alcun sospetto nei soldati (particolare,
questo, che pure era stato accuratamente preparato dall’abile donna),
ma, giuntevi, Giuditta e la serva le oltrepassarono e raggiunsero le
mura di Betulia, dove furono accolte da una gran folla in trepida
attesa.
Giuditta disse loro a gran voce: “Lodate Dio, lodatelo; lodate Dio,
perché non ha distolto la sua misericordia dalla casa d’Israele, ma ha
colpito i nostri nemici in questa notte per mano mia”. Estrasse allora
la testa di Oloferne, comandante supremo dell’esercito assiro; ecco le
cortine sotto le quali giaceva ubriaco; Dio l’ha colpito per mano di
donna. Viva dunque il Signore che mi ha protetto nella mia impresa,
perché costui si è lasciato ingannare dal mio volto a sua rovina, ma
non
ha potuto compiere
alcun male con me a mia contaminazione e vergogna”.6
Giuditta suggerì agli anziani di fingere una sortita perché al campo
si accorgessero della morte di Oloferne; intanto il macabro trofeo
veniva appeso alle mura di Betulia in gesto di disprezzo e
profanazione.
Spuntava il giorno; quando il drappello di uomini uscì da Betulia,
come previsto da Giuditta le sentinelle si precipitarono a svegliare
Oloferne, ma ne trovarono solo il corpo orrendamente decapitato.
Un’ondata di terrore sconvolse il campo degli Assiri che, allo
sbaraglio senza il loro comandante, si diedero alla fuga nelle
direzioni più disparate, dando così la possibilità ai betulesi di fare
strage dei nemici, catturandoli o uccidendoli, e di devastare
l’accampamento per trenta giorni; a Giuditta andò la tenda di Oloferne
con tutte le suppellettili e gli oggetti preziosi, che consacrò a Dio
nel tempio di Gerusalemme.
Da
allora in poi Giuditta fu lodata per sempre nelle Sacre Scritture per
aver liberato il popolo di Dio dalle mani di Oloferne.
L’episodio di Giuditta e Oloferne in pittura è stato uno dei più
rappresentati dell’Antico testamento, perché l’immaginario dei
maggiori artisti di ogni secolo proprio non poteva non essere colpito
dalla drammaticità della storia della donna virtuosa che si macchia di
tirannicidio per salvare il suo popolo oppresso, oltre che dall’eterno
conflitto Bene/ Male.
Giuditta (il cui nome in ebraico significa “la giudea”), simboleggia
sia la fedeltà, sia l’astuzia del popolo ebraico (presso gli antichi
le furberie erano apprezzate nell’arte della guerra e, dunque, anche
le bugie e le parole ambigue di Giuditta) e, in generale, il Bene;
Oloferne, invece, la potenza pagana accecata dall’orgoglio, dunque il
Male.
Il
tema del tirannicidio, già di per sé drammatico, è stato intensamente
declinato ruotando sempre, come si evince già dai titoli delle
composizioni (Giuditta al banchetto di Oloferne, Giuditta che
uccide Oloferne, Giuditta insieme all’ancella, Il trionfo di Giuditta)
intorno ai tre personaggi principali, Giuditta, Oloferne e la serva,
ma la protagonista assoluta, anche se nell’iconografia tradizionale
sovente è affiancata dall’ancella, come se condividere la scena
potesse in qualche modo smorzare la violenza e l’orrore dell’efferato
delitto, resta l’ideatrice ed esecutrice del tremendo progetto.
Il
dipinto di Mantegna, Giuditta con la testa di Oloferne,
eseguito nel 1490, s’ispira perfettamente al passo biblico che
riferisce come, eseguita la missione, Giuditta (che, più che difendere
la sua città, difende Gerusalemme, il tempio e la fede del suo popolo,
mentre Oloferne, combattendo contro Issale, in realtà combatte contro
Dio) esca dalla tenda del generale e consegni la testa all’ancella,
che la pone nella bisaccia.
Costruita come una scena teatrale, immersa in un’atmosfera quasi
astratta, in cui le figure spiccano contro il fondo scurissimo, sul
quale s’intravedono il letto decorato (simbolo di ricchezza e
prestigio, perché allora il letto faceva parte del mobilio dei re e
dei ricchi, mentre i poveri dormivano per terra) ed un piede di
Oloferne, c’è la tenda, che costituisce una specie di sipario
simbolico attraversato da Giuditta che, livida in volto, terrea nelle
carni, in posa distaccata, depone nella sacca offerta dall’ancella il
capo del tiranno, volgendo il volto sul quale si staglia
un’espressione fra l’addolorata e l’inorridita.
Nella composizione
spiccano gli elementi macabri, il piede del cadavere, la testa recisa,
la spada impugnata da Giuditta, ma è lo sguardo malinconico
dell’eroina ad imprimere alla rappresentazione alta drammaticità.
Nel 1472 Sandro Botticelli compose sul tema due tempere su tavola:
Il ritorno di Giuditta a Betulia e
Oloferne trovato ucciso.
Nella prima è rappresentata Giuditta,
giovane, bella e malinconica, la scimitarra nella mano destra, un
ramoscello d’ulivo, simbolo di pace, nella sinistra, che,
seguita dall’ancella con la bisaccia contenente la testa di
Oloferne adagiata sul capo, ritorna vittoriosa verso la città natale,
mentre sullo sfondo i suoi concittadini preparano l’attacco
all’esercito nemico.
In
Oloferne trovato ucciso la scena è ambientata all’interno della
tenda del generale, dove, collocato in primo piano, c’è il corpo
decapitato, che viene ritrovato dai soldati sconvolti, il mattino
dopo l’uccisione, avvenuta eccezionalmente di notte, durante il sonno,
poiché gli antichi semiti evitavano di uccidere di notte, ritenendola
sacra.
Nel 1530 Cranach il Vecchio, nel quadro Giuditta con la
testa di Oloferne, raffigurò, contro un fondo nero, Giuditta
sfarzosamente abbigliata secondo la moda del tempo, con un elegante
cappello piumato. La raffinata fisionomia della donna contrasta
con l’orrore destato dalla testa recisa del nemico, dipinta con
macabro realismo sia nei tratti irregolari del volto dal livido
pallore, sia nella descrizione del collo reciso.
Agostino Carracci, fratello del più famoso fratello Annibale e cugino
di Ludovico, con i quali spesso lavorò, compose, fra il 1557 e
il 1662, Ritratto di donna in veste di Giuditta, una
sorprendente tela in cui l’eroina biblica è ritratta con la testa
dell’uomo ucciso, rappresentazione questa che in pittura, soprattutto
in ambito veneto, intendeva alludere alle pene d’amore inflitte dalla
donna all’innamorato.
Secondo le argomentazioni di J. Anderson, questo dipinto
potrebbe essere, però, il Ritratto di Olimpia Luna Zoppi
(la veste nel quadro ha tante piccole lune che alluderebbero, appunto,
al nome della donna), moglie del letterato Melchiorre Zoppi, eseguito
da Agostino dopo la morte avvenuta nel 1592; il capo che la donna
tiene fra le mani sarebbe proprio il ritratto del marito.
Nel 1581
il Veronese dipinse una tela pure intitolata Giuditta e Oloferne
in cui, contro uno sfondo scuro, risaltano, in forte contrasto,
quasi a voler far dimenticare l’orrendo soggetto, la bella e
giovane Giuditta, bionda, dalla carnagione chiara, elegantemente
vestita, che regge fra le mani il capo reciso del tiranno, e la
schiava dalla pelle scura.
Nel settembre del 1599 un’esecuzione
turbò il popolo di Roma; di fronte a Ponte Sant’Angelo, dopo
essere stata torturata dagli sbirri di papa Clemente che l’avevano
arrestata, venne decapitata una ragazza di sedici anni, una giovane
patrizia romana, Beatrice Cenci, accusata di aver ucciso il padre, il
ricco e potente Francesco Cenci, uomo violento e dissoluto, per
vendicarsi delle violenze fisiche, psicologiche e sessuali da lui
subite. La sua testa venne esposta pubblicamente in segno di ludibrio,
ma i romani, solidali con la fanciulla, affollarono commossi le strade
fino a tarda notte, piangendo e deponendo fiori e candele davanti al
cadavere.
Nello stesso anno Caravaggio eseguì Giuditta e
Oloferne, un olio su tela oggi conservato a Roma, alla
Galleria Nazionale d’Arte antica, Palazzo Barberini; la precisione
realistica della terribile decapitazione, corretta dal punto di vista
anatomico e fisiologico fin nei minimi particolari, compresa la
violenza degli schizzi del sangue, ha fatto ipotizzare che il dipinto
sia stato realizzato sotto l'impressione delle esecuzioni romane di
fine secolo, e che probabilmente, trovandosi in quel tempo nell’Urbe,
abbia assistito proprio alla decapitazione di Beatrice Cenci e
riportato l’orrore nel suo dipinto.
Fino ad allora nell’iconografia
tradizionale l’eroina ebrea era stata generalmente raffigurata
con in mano il capo reciso di Oloferne, ma Caravaggio, in
approfondimento degli studi leonardeschi e della tradizione lombarda,
investigò su “ i moti dell’animo”, cioè sulle deformazioni delle
espressioni causate da sentimenti estremi come la paura, il dolore,
l’ira, la gioia, catturando l’istantanea dell’azione.
Con questo
primo quadro d’azione cruenta, in cui avviava la composizione di
una lunga serie di temi nei quali approfondire il significato
tragico della vita ed il rapporto fra oppressori e vittime, cogliendo,
in ricerca dell’attimo, l’acme dell’azione violenta, inaugurò il
genere più emozionante del risveglio di Oloferne mentre la scimitarra
gli reseca il collo, preferendo rappresentare l’orrore diretto della
morte violenta con la raffigurazione del momento dell’uccisione.
In
questo quadro tutto l’orrore della decapitazione è sul volto e sulla
bocca del tiranno, che ha la bocca spalancata nell’urlo, e sullo
sforzo fisico di Giuditta accigliata, concentrata nel
tremendo gesto, sotto lo sguardo attento della serva (dipinta, in
opposizione fra giovinezza e vecchiaia, vecchia e rugosa, contro
la bellezza della giovane per la cui rappresentazione l’artista si
servì della modella Fillide Pelandroni, cortigiana spesso presente nei
quadri di Caravaggio, sia nelle vesti di eroina che di santa) che,
con il volto terrorizzato, assiste, tenendo fra le mani la bisaccia
nella quale è pronta ad accogliere la testa mozzata.
La
scena, che colpisce per l’impatto immediato e volutamente brutale,
è intrisa di acceso realismo, fra sangue e terrore, illuminata da una
luce precisa e ferma che mette in evidenza ogni più macabro
particolare.
Sul volto dell’uomo decapitato (testa mozzata e sangue
erano temi costanti nella produzione caravaggesca, con effetti di alta
tragedia) è impressa una smorfia di dolore, gli occhi sono dilatati,
per lo stupore e la sofferenza, dalla bocca semiaperta
s’intravedono gli incisivi superiori, il braccio destro è appoggiato
sul letto, il corpo è nell’atteggiamento di chi si ritrae,
copioso è il fiotto di sangue.
Altri artisti ebbero un temperamento impetuoso come quello di
Caravaggio, ma nessuno seppe imprimere come lui un’espressività così
intensa, che poté esplicitarsi al massimo nella trattazione di
soggetti biblici poiché la sua arte andava ad innestarsi su una certa
tradizione del pensiero estetico nell’ambito della Controriforma;
infatti, in base ai principi didattici propugnati dalla Chiesa
post-tridentina, per favorire al massimo la partecipazione dei
fedeli si preferiva la raffigurazione delle storie evangeliche il più
possibile realistica, ed in ciò l’artista seppe raggiungere vette
eccezionali.
Estesa fu la schiera di seguaci del Caravaggio, che influenzò anche la
pittrice Artemisia Gentileschi. Attratta, come altri caravaggisti
napoletani, dalla violenza espressiva del maestro, predilesse in
particolare proprio il tema biblico di Giuditta e Oloferne, che
rappresentò nel 1620 con cruda intensità. Probabilmente l’ossessivo
interesse, e la crudezza con cui lo espresse pittoricamente, si
possono far risalire ad una sorta di vendetta contro la prepotenza
maschile, avendo subito, quando aveva 19 anni, una violenza personale:
lo stupro da parte del pittore Agostino Tassi.
In
Giuditta e Oloferne Artemisia compose una scena dominata
dall’audacia di Giuditta; giovane e avvenente, non vestita da
vedova, ma in sfolgoranti e seducenti abiti da festa, aiutata
nella missione dall’ancella, che insieme a lei tiene fermo l’uomo, con
un colpo di scimitarra gli taglia la testa.
Nel 1620 Giovanni
Francesco Guerrieri, nella tela pure intitolata
Giuditta e Oloferne, rappresentò Oloferne che rotea gli occhi, le
braccia annaspanti nel vuoto, sotto il colpo di scimitarra
infertogli da Giuditta (anche qui assistita dalla vecchia serva),
dipinta come una ragazza prosperosa, in linea con il gusto dell’ età
barocca che esaltava le forme femminili generose.
Mattia Preti, altro pittore influenzato dal Caravaggio, nel 1656
dipinse Giuditta e Oloferne in cui Giuditta ha già mozzato il
capo ad Oloferne. In primo piano c’è il corpo dell’uomo, di cui
sono magistralmente descritte le vene delle mani e le vigorose membra,
privo della testa, sanguinante dal collo, sul lenzuolo bianco; in
secondo piano c’è la donna, che tiene in mano la testa recisa e prega
il Cielo per essere riuscita a portare a termine la sua missione,
quella di liberare la città dal nemico; s’intravede appena, quasi
confusa col fondo, la serva pronta ad accogliere il capo dell’uomo.
Fra il 1730 e il 1740 la pittrice veneziana Giulia Lama, amante del
chiaroscuro, memore della lezione caravaggesca sull’uso del contrasto
fra luce ed ombra, illuminando le figure con raggi diagonali
proiettanti ombre molto cupe, sicché i personaggi che emergono dalla
tenebra risaltano con un effetto ancora più incisivo,
rappresentò l’episodio biblico non nel momento dell’azione o a
dramma concluso, bensì nell’istante precedente l’evento sanguinario,
lasciando drammaticamente emergere dal fondo scuro i personaggi.
Giuditta, con le mani giunte, gli occhi verso l’alto, rivolge la
preghiera al Signore affinché le dia la forza per portare a termine la
sua missione, sotto lo sguardo dell’ancella, quasi interamente
nell’ombra, che l’aiuterà nell’impresa, mentre Oloferne giace
addormentato, intorpidito dall’ebbrezza, illuminato da una luce
estremamente intensa come a voler sottolineare la drammaticità
dell’azione imminente.
Ben diversa dalle altre fu l’interpretazione
di Giuditta offerta da Gustave Klimt, il più noto pittore della Vienna
fin de siécle, l’interprete più significativo della Secessione,
finissimo ritrattista di donne, in particolare dalle ricche e colte
signore della borghesia industriale viennese che, proseguendo nella
sperimentazione e nella ricerca di nuove soluzioni pittoriche, seppe
ritrarre in piena libertà stilistica, in modo elegante e raffinato,
con immagini stilizzate e languide, in quadri estremamente
ornamentali, simili a preziosi lavori di orafi che, ad un’attenta
lettura, rivelano un erotismo quasi morboso, causa, non di rado, di
vivaci reazioni nei suoi contemporanei.
La sua vita coincise con il
periodo più interessante ed intenso della cultura viennese, e cioè con
gli studi di Freud, lo sviluppo delle nuove teorie sulla psicoanalisi,
sulla sessualità e sull’estetica, che rivoluzionarono i costumi,
spostando l’interesse del mondo intellettuale, ma anche di quello
artistico, sulla psiche e sull’eros.
Klimt, già sensibile alla
bellezza fisica, assimilò tutte queste suggestioni che, insieme
all’interesse innato verso la donna, alimentarono il suo immaginario e
confluirono nelle sue creazioni.
L’erotismo, la nascita, la morte, la presenza femminile, il ciclo
della vita, la donna incinta e la donna madre, furono questi i temi
che ripropose in maniera quasi ossessiva, palesando continuamente la
sua attrazione verso la donna, in un approccio, però, ambiguo: la
donna di Klimt fu, infatti, sempre in sospensione tra l’essere madonna
oppure femme fatal, perciò la scelta di ritrarla spesso in posa
frontale, icona da rispettare o da temere, dispensatrice di felicità,
come nel quadro Il bacio, oppure incarnazione del male,
come nel caso di Giuditta.
Certo, in tempi in cui acuta era la polemica sull’uguaglianza dei
diritti dei due sessi e fervida la lotta per l’emancipazione
femminile (risale proprio a quegli anni il movimento delle
“suffragette” inglesi, così chiamate perché chiedevano il diritto al
voto), può lasciare perplessi la considerazione che ne aveva Klimt,
chiuso nel cliché del demone e dell’angelo, ma indubbio resta il
valore artistico delle sue opere, ed unanime la considerazione di
capolavoro di entrambi i suoi quadri ispirati a Giuditta.
Quella che comunemente dagli Ebrei venne ritenuta un’eroina fu vista
da Klimt come il prototipo della femme fatal dei suoi tempi, causa di
distruzione per gli uomini attraverso un oscuro potere, perciò la
ritrasse nel quadro Judith I, del 1901, contro un
magnifico fondo in oro, ispirato ad un antico fregio assiro, come una
donna estremamente sensuale, con un’espressione, che unisce
l’estasi dei sensi ed il fantasma lugubre della morte, di crudele
trionfo dipinta sulle labbra semiaperte, gli occhi socchiusi in uno
sguardo rapito, distaccato e freddo, la gola cinta da un pesante
gioiello, chiaro riferimento indiretto alla decapitazione, con la
veste che scopre la nudità del busto per sottolinearne, appunto,
l’inquieta sensualità, una mano sottile, con dita lunghe e
affusolate, che pare quasi carezzare subdolamente la testa di Oloferne.
Tutto il quadro, ricco degli elementi ornamentali comunemente presenti
nelle opere del periodo aureo di Klimt, come l’oro, l’argento, le
pietre dure, testimonianze del suo interesse per l’arte decorativa
bizantina e della sua pratica giovanile del mosaico, e spesso maschere
dello scoperto erotismo di molti suoi soggetti, ha un’atmosfera
aggressiva, torbida e decadente, emanante suggestioni di morte e
sensualità, che non possono sfuggire all’osservatore e che sono le
caratteristiche che fin dalla prima apparizione hanno colpito il
pubblico.
Il geniale artista ritornò ancora sul tema di Giuditta
con un secondo quadro, Judith II, nel 1909, un ritratto a
grandezza naturale in cui esasperava ancor di più la crudeltà e la
freddezza della donna, rendendo scarna la figura femminile, con dita
adunche come artigli di rapace, trattenenti per i capelli il capo
mozzato del generale assiro.
Sebbene il titolo sia chiaramente indicato sul dipinto, all’epoca
Giuditta fu scambiata (ma ancora oggi talvolta s’incorre
nell’equivoco) con un altro personaggio biblico, con Salomé, che fece
decapitare Giovanni Battista per soddisfare lo spirito vendicativo
della madre, e molti contemporanei di Klimt preferirono ritenerla la
terribile tentatrice, rifiutando di credere che la sensuale donna
dipinta, insieme seducente e ripugnante, rappresentasse la pia e
virtuosa eroina delle Sacre Scritture.
1) Christine de Pizan,
Livre de la Cité des Dames, libro II, XXI,
Storia di Giuditta, la nobile vedova.
2) Ibidem.
3) Ibidem.
4) La Sacra Bibbia, Giuditta,
12.
5)
Ibidem,
13.
6)
Ibidem,
13.
Francesca Santucci