Francesca Santucci

 

 

GIUDITTA CHE DECAPITA OLOFERNE DI ARTEMISIA GENTILESCHI

(AA.VV., "Arte e artisti  d' Italia", Apollo edizioni 2022)

 

 

Giuditta disse: “Dammi forza, Signore Dio d’Israele, in questo momento”.

E con tutta la forza di cui era capace lo colpì due volte al collo e gli staccò la testa”.

( Gt.13, 7-8)

Artemisia Gentileschi- figlia di Orazio, pittore tardo manierista, amico di Caravaggio- personalità indipendente e di grande incisività, fu  artista di talento, nota soprattutto per i ritratti di figure femminili fiere e appassionate. Di chiara impronta caravaggesca, convinta seguace dell’artista lombardo, da lui ereditò anche l’interesse per le situazioni psicologiche di grande tensione emotiva. Attiva a Roma, a Firenze e a Napoli,  ebbe contatti con pittori famosi come Van Dick e Rubens, oltre che con Caravaggio, e  committenti illustri come il granduca Cosimo II de’ Medici e il re Carlo I.

Nata  a Roma nel 1593,  fin da piccola  mostrò straordinarie capacità pittoriche, per questo fu avviata agli studi. Nel 1605, a soli dodici anni, restò orfana della madre e dovette occuparsi dei fratelli e della gestione della casa, nell' ambiente rozzo e grossolano dei quartieri popolari di Roma, ma continuò a frequentare la bottega paterna.

Quando aveva diciotto anni fu violentata da Agostino Tassi, pittore paesaggista suo maestro di prospettiva e amico del padre,  equivoco personaggio chiamato “lo smargiasso”, già coinvolto in atti di libidine e processi per stupro, che, infine, fu dichiarato colpevole per “sverginamento” e punito con l’esilio, sentenza mai applicata in quanto protetto del Papa per le sue qualità artistiche, mentre Artemisia che, durante il processo, per accertare più rapidamente la verità,  era stata sottoposta a umilianti visite ginecologiche   e alla tortura dei cosiddetti "sibilli"-  piccole corde che, mediante un legno,  serravano fortemente i pollici- fu bollata come una puttana bugiarda che va a letto con tutti.

In seguito all'umiliazione subita  fu costretta ad  abbandonare Roma, ad accettare il matrimonio riparatore con   Pietro Antonio di Vincenzo Stiattesi, un uomo più anziano di lei,  e a trasferirsi a Firenze, dove fu introdotta alla corte di Cosimo II e iniziò subito a lavorare accettando varie committenze, assumendo il cognome toscano paterno dello zio pittore, Aurelio Lomi.

Ben presto, però, riuscì a liberarsi del marito e ad affrontare in modo indipendente il resto della vita. Libera e orgogliosa, cominciò a viaggiare. Fu a Genova, a Roma, a Napoli, a Londra e poi nuovamente a Napoli, dove morì nel 1656, probabilmente durante la devastante peste che colpì la città.

Mai smettendo di dipingere, Artemisia fu attiva soprattutto a Napoli, dove entrò in contatto con i massimi interpreti del barocco napoletano, come José de Ribeira, Massimo Stanzione, Domenichino e Giovanni Lanfranco.

Grande interprete  del caravaggismo napoletano, fedele alla lezione del maestro, contribuì a diffonderne la tecnica del chiaroscuro e del realismo, prediligendo il tema biblico di Giuditta e Oloferne, che rappresentò con cruda intensità. Cruda, d'altronde,  era stata l'esperienza personale della violenza subita, il cui segno è ravvisabile non solo nella scelta di vita indipendente adottata, estremamente audace per una donna del Seicento, ma anche nelle figure femminili ritratte, donne forti,  potenti, orgogliose. Ed è probabile che rappresentare il tema di Giuditta- una vedova retta e pia che si offre di sedurre il nemico Oloferne per, poi, eliminarlo, durante un banchetto, decapitandolo, soggetto ispirato al racconto dell’Antico Testamento tra i più interpretati per la forza narrativa della vicenda- fosse per lei un modo simbolico  per vendicarsi della violenza maschile subita.

Artemisia Gentileschi rappresentò il soggetto in almeno sei diverse versioni e, sebbene la storia sia stata raffigurata anche da altre artiste dell’epoca, i suoi dipinti sono certamente i più cruenti.

La sua più avvincente interpretazione è quella offerta in “Giuditta che decapita Oloferne”, dipinto eseguito fra il 1612 e il 1613, un olio su tela conservato al  Museo nazionale di Capodimonte, a Napoli, opera veemente, di forte impatto emotivo, in cui l’eroina biblica  è rappresentata-immersa la scena in un buio profondo- con espressione fredda, decisa, determinata, priva di pietà,  mentre, come un vero e proprio carnefice, compie il brutale gesto della decapitazione.

Giuditta, non in vesti vedovili, ma in un seducente abito da festa scollato e i capelli raccolti che evidenziano la seduzione del décolleté, le maniche del vestito sollevate oltre i gomiti, si trova all’interno della camera di Oloferne, disteso sul letto di traverso, nudo sotto un lenzuolo, ebbro dopo il banchetto, in attesa di giacere con lei. Ma Giuditta, con  braccia robuste e muscolose, impugnata la daga del generale assiro- mentre l’ancella, in evidente complicità, con la stessa espressione determinata e decisa sul volto, gli tiene bloccate le mani-  afferrati i capelli dell’uomo con la sinistra, fermandogli la testa, con l’arma saldamente impugnata nella mano destra gli taglia la gola con un colpo netto. Il generale  spalanca gli occhi terrorizzato, dalle lenzuola scompigliate si comprende che tenta di reagire, ma non ha il tempo di farlo: già colano sul letto rivoli di sangue che arrossano i bianchi teli.
Mai dimenticando il crudele oltraggio subito in gioventù, lo stupro e il vile pubblico processo, Artemisia Gentileschi, oltre all’ episodio biblico che le offrì la possibilità di raccontare la sua drammatica vicenda personale, amò sempre dipingere eroine storiche, sia vittime che carnefici, vendicative e capaci di gesti audaci ed estremi, forti e coraggiose nei confronti delle prepotenze maschili. Nel tempo è divenuta, così, simbolo di femminismo, emancipazione e libertà.

 

 

 

 

 

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