Che strano malessere quello che m’affliggeva: soffrivo di
chinetosi. M’assaliva subdolo,
altalenandomi fra disgusto, vertigini, ansia, pallore, sudori
freddi, nausea e vomito, quasi impedendomi di stare
in piedi. Era un autentico travaglio per me spostarmi in auto,
in autobus, in treno, ma ogni anno, nella bella stagione,
dovevo, categoricamente, tanto forte era il suo
richiamo, raggiungere il mare, che, però, distava, e la calura
era opprimente, e ogni volta era un po' come morire, tanto
stavo male, ma la (ri) nascita era tra la sofferenza dei due
viaggi: il viaggio di andata, il viaggio di ritorno. E, una
volta in acqua, anche le voci dei bagnanti e i gridolini
festosi dei bambini, suoni fastidiosi, divenuti quasi
indistinti, mi risultavano piacevoli quando, infine risanata,
a lunghe bracciate, raggiungevo il largo.
Due inverse onde quelle che m’investivano: la prima,
sgradevole, arrivava in auto, dallo stomaco risaliva alla
bocca e mi costringeva, giunta a destinazione, a non
assaporare subito il piacere di tuffarmi fra le onde, ma a
relegarmi, forzatamente, assentandomi dalla compagnia di
parenti ed amici, nello sgabuzzino dei pescatori dello
stabilimento balneare dove, puntualmente, ogni anno ci
recavamo, messomi a disposizione dai premurosi proprietari da
lungo tempo conoscenti dei miei genitori.
Qui, tra gli attrezzi da pesca, le reti da traino e a
strascico, i tramagli, i cordami, i palamiti, le nasse e le
lampare, su uno striminzito materasso adagiato su un lettino
d'emergenza, supina, mentre fuori la vita ferveva, confortata
solo dal volto di mia madre che, sollecita, veniva ad
accertarsi delle mie condizioni, smaltivo la nausea
interrogandomi sul mio mal di moto, che mi costringeva a
ricorrere alla xamamina instupidendomi per la sonnolenza.
La seconda onda, piacevole, mi raggiungeva in mare, mi entrava
dal naso mentre respiravo il profumo dell'aria salmastra,
penetrava dentro di me fino a raggiungere le gambe che,
d'incanto, sembravano congiungersi e convertirsi in coda,
consentendomi la nuotata liberatoria.
Intensamente amavo il mare, insieme alla leggerezza della
sabbia, al ritmico sciabordio delle onde illuminate dai mille
riverberi del disco solare, ai rauchi stridii dei rari
gabbiani in lontananza. Mi dava le vertigini l'immensa distesa
in movimento, l'enorme vastità ritmicamente rumoreggiante
delle acque verdi-azzurre, separate dal blu del cielo da un
lungo squarcio paglierino: solo qui potevo sentirmi libera
lungamente nuotando e lasciando galoppare la fantasia a
briglia sciolta.
Mi piaceva fingermi Bentesicima (la "sollevatrice di flutti"),
la figlia di Poseidone, il potente dio del mare e dei cavalli,
sovrano di tutte le acque ("il dio che racchiude e tiene
prigioniera la Terra"), e di Anfitrite, una Nereide, la più
bella delle cinquanta figlie di Nereo e Doride che abitavano
il mar Mediterraneo, splendide fanciulle dai capelli d’oro e
il volto bellissimo, gentili e benefiche assistenti della dea del mare,
Teti, sguazzanti fra le onde insieme ai Tritoni, i
favolosi esseri mezzo uomo e mezzo pesce, capaci di placare o
far agitare i flutti. Fantasticavo di vivere nelle profondità
marine con mio padre, mia madre, mio fratello Tritone e mia
sorella Roda, in un magnifico castello, con muri di cristallo
e madreperla, finestre d'ambra gialla, colonne di corallo
rosato decorate da perle e conchiglie, tra le quali si
ricorrevano fiori vivi dai magnifici colori e piante
flessibili dal fogliame diafano. Talvolta immaginavo di
accompagnare in superficie mio padre Poseidone, quando,
sbollite le ire che lo spingevano a scatenare mareggiate e
terremoti, si mostrava benevolo verso i naviganti, concedendo
un mare calmo e senza tempeste: allora emergevamo per
passeggiare sulla superficie delle acque, lui ritto in piedi
con il tridente stretto in una mano, sul carro a forma di
conchiglia guidato da Proteo, trainato da quattro cavalli
bianchi dalle criniere d’oro e dai sonanti zoccoli d'argento.
Precedeva il corteo Tritone, sino ai fianchi uomo, il resto
del corpo, ricoperto di alghe, terminante in coda di pesce.
Per placare il moto irrequieto dei flutti suonava la buccina,
una conchiglia dalla forma ritorta, seguìto tra le bianche
spume dai delfini festosi e da un corteo di divinità marine:
le Oceanine (le ninfe dell’oceano), i Centauri di mare, che
portavano sul dorso le Nereidi (le ninfe degli abissi),
protettrici dei naviganti, che vivevano nelle profondità del
mare in una grotta d’oro assise su troni pure d’oro, ma
salivano in superficie per cavalcare i delfini, e le fascinose
Sirene, terribili creature che intonavano armoniche melodie
per la regina e per il re delle acque.
Altre volte mi piaceva fantasticare di essere proprio una
sirena nel corteo delle sirene, le seducenti creature dalle
lunghe chiome fluenti, come le Nereidi ibride, per metà
animali, per metà umane, sulle quali si favoleggiava
credendole demoni della morte, anime che venivano mandate a
catturare altre anime, ammaliando con il loro irresistibile
canto i marinai, facendoli naufragare contro gli scogli e
perire. Mi fingevo la sventurata Parthenope che non era
riuscita ad incantare Ulisse con le sue dolcissime melodie e
che, perciò, si era lasciata morire, o, ancòra, la sirenetta
della fiaba di Andersen che, innamoratasi del principe,
ottenuto dalla strega del mare di avere le gambe al posto
della coda, sacrificando la sua dolcissima voce, muore, poi,
sconvolta dal dolore, quando non riesce a conquistare il suo
amore e lui sposa un'altra.
Ma la mia fantasia più bella, luccicante il sole obliquo del
tramonto, era quella di sognarmi medusa, grossa bolla
iridescente, meraviglioso fiore marino color dell'opale,
lieve, evanescente, fragile, che sembra fatto dell’impalpabile
essenza della spuma marina, piccola coppa di tenue cristallo
soffiata da un ignoto artefice nelle profondità verdi-azzurre,
creatura "velata" che si contrae ritmicamente muovendosi in
strana andatura fluttuante, bella, ma crudele, capace di
uccidere con il suo segreto liquido urticante, mobile,
fosforescente, che spesso naviga insieme a migliaia di altre
creature della sua specie, specialmente al crepuscolo o di
notte, illuminando il mare di una fantasmagoria di luci, di
scintille argentee, con la prodigiosa sua luminescenza, come
se un magico chiarore lunare sorgesse dalle acque. Allora la
mia immaginazione ancor più s'accendeva, in quei momenti più
intenso si rinnovava in me l'eterno incanto del mare, mi
nasceva in cuore il desiderio di esplorare i fondali, e
m'inabissavo.
Nel mio viaggio sott'acqua incontravo le più disparate
creature. Già pochi metri sotto la superficie il mare mi
offriva lo spettacolo dei suoi segreti gioielli; là, dove la
luce del sole ancòra vivamente rischiarava arbusti e speroni
rocciosi, davanti ai miei occhi appariva, visione splendida e
irreale d'incomparabile bellezza, una foresta bianco-rosata,
ove i rami e i tronchi immobili s'intersecavano come marmoree
smerlature gotiche nel silenzio turchese: erano i coralli che,
in meravigliosa efflorescenza, con il loro colore dal bianco
al rosa al rosso cupo, si allargavano nel silenzio sottomarino
con fiori simili a fini ricami, con flessuose arborescenze,
delicate trine calcaree, palpitanti al passaggio di sciami
luccicanti di pesci iridati o di pallide meduse che
scivolavano come sogni nell'arboreo arabesco d'ombre e
riflessi.
Li si credette, i coralli, per un certo tempo, ramoscelli
marini che indurivano appena tolti dall'acqua, finché un
naturalista francese, verso la metà del secolo XVIII, messo un
rametto di corallo in un secchio pieno di acqua di mare, lo
vide miracolosamente fiorire di piccole corolle e intuì che
quei fiori non appartenevano al regno vegetale, ma erano
animali marini. E tradizione volle che colei che tenesse in
seno un rametto di corallo, dopo averlo baciato, avrebbe reso
le proprie labbra soavi e rosse come il corallo stesso.
Scendevo, poi, ancòra più giù, nel profondo, nuotando fra le
sinuose alghe (probabilmente le progenitrici di tutte le forme
di vegetazioni terrestre), belle ed eleganti, ma anche utili,
come l'alga
Fucus vesiculosus
il cui tallo, pestato, produceva una cenere dalla quale si
ricavano varie sostanze usate per curare alcune malattie; o la
Plocamium coccineum,
che forniva il belletto comunemente usato dalle donne romane.
Incontravo, poi, i ricci di mare, raggruppati a centinaia,
come incrostati sulle pietre, per lo più affondati nella
sabbia, immobili; le stelle marine multicolori, di colore
rosso, arancio, giallo-bruno, verde-olivo, a macchie nere,
perennemente aggrappate con la faccia ventrale contro il fondo
marino. E poi le conchiglie, dalle originali forme e gli
svariati colori declinati in innumerevoli variazioni, colori
uniformi e modesti, grigie, brune, nerastre, o smaglianti, con
disegni screziati, elegantissime e fantasiose, striate o
macchiate come la pelle delle tigri e dei leopardi, o lisce
come marmo levigato, o irte di spaventosi spunzoni. Mille i
loro nomi fantasiosi: l'Orecchia di mare, una
conchiglia dai meravigliosi riflessi madreperlacei, così
chiamata dalla sua bellissima valva simile al padiglione
auricolare; l'Astrea o Trottola rugosa, a forma
di trottola, il cui opercolo calcareo, detto "occhio di Santa
Lucia", è da sempre considerato un portafortuna ed utilizzato
per la creazione di bellissimi monili; il Cannolo,
formato da due pezzi lunghi e stretti come una cannuccia; la
Tellina aurora, piccola, dalle iridescenze del cielo
quando è tinto dai primi raggi del sole, tutta sfumature
bianco-oro o rosate; la strana Gengiva rossa, che
sembra una bocca umana che mostra i denti e le gengive
sanguinanti; l'inspiegabile Voluta musicale, che reca
sulla conchiglia di colore giallo-bruno le linee di un
pentagramma con alcune note musicali; la Tonna galea,
dall'insolito nome latino perché ricorda la sua forma l'elmo.
E poi i pesci d'argento, d'oro, di vetro, di seta, di velluto,
neri, rossi, turchini, verdi, gialli, zebrati, macchiati,
fasciati dei colori più vivi, delle iridescenze più strane,
per ogni verso guizzanti nelle mille direzioni del magico
fondale.
Allora anch'io divenivo creatura d'acqua, quasi mi pareva di
ritornare a galleggiare nel mio primo elemento, il liquido
amniotico del ventre della mia mamma, e poi, sempre più
regredendo, mi pareva di divenire nulla, in dissolvenza
nell'elemento primordiale, ove non v'era affanno e non v'era
pena, non v'era angustia né dolore: lì si placava, infatti, il
mio dolore, lì s'acquietava il mio tormento, in un'estasi che
era insieme dei sensi e spirituale … ma giungeva il tempo
della risalita, incombeva il tempo del ritorno, dalla terra al
mare, dal mare di nuovo restituita alla terra.
Riemersa, malferma sulle gambe, i miei passi esitavano sulla
sabbia. Dopo le indimenticabili emozioni che mi aveva offerto
lo spettacolo della flora e della fauna marina, dopo i mille
colori delle profondità marine che, caleidoscopici, si erano
offerti ai miei occhi stupiti, dopo il mio attimo di eternità,
immersa in un silenzio irreale, come dopo una tempesta, la
spiaggia m'appariva desolata e cupa, disseminata di valve di
conchiglie morte e alghe fradice, lugubremente risonante del
lieve ansare della risacca.
Di tutte le mie esaltanti fantasie quasi nulla permaneva,
solo, ora, un triste abbaglio: la visione di vesciche
violacee, afflosciate, informe ammasso di mucillaggine
biancastra, ciò che restava dei corpi trasparenti, ma vivi,
gonfi, luccicanti, delle meduse che avevo immaginato e tra le
quali anch'io avevo fluttuato luminosa, palpitando di
ebbrezza.
Ora era tempo di andare, dalla Bellezza al Malessere, di nuovo
il mal di moto, tra la nausea ed il disgusto, ed il lungo
viaggio di ritorno che mi sarebbe sembrato infinito, finché
non sarei riapprodata, in cadaverico pallore, stravolta, a
casa, dove ad attendere ci sarebbero state le rassicuranti
braccia della mia nonna materna, che mi aveva iniziata
all'amore per il mare e alle fantasticherie, raccontandomi
spesso, quando ero bambina, la leggenda di Cola Pesce, il
ragazzo che nuotava come un pesce, che gareggiava coi delfini
e coi Tritoni, che amava inabissarsi fra le acque trasparenti
dello stretto di Messina e che, infine, non era più tornato
a galla quando, giunto in fondo al mare, aveva visto la
colonna Peloro, sulla quale poggiava la cuspide settentrionale
della Sicilia, quasi sul punto di crollare, ed allora, temendo
che la sua Messina potesse sprofondare da un momento
all'altro, aveva deciso di restare a sostenerla.
Ritornata creatura terrestre, me ne sarei stata diverse ore
supina, inerte, floscia come una morta medusa, a sognare di
quando, invece, ero stata libera creatura marina.
Francesca
Santucci
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