Francesca Santucci
ESTATI SPENSIERATE
Lido Azzurro, Lido Verde, Lido Maria, Lido Nettuno, Lido Varca d’oro, Lido Baia Felice, Lido Primavera, Lido Regina, Lido La Sirenetta, Lido Cristallo: vari ed evocativi i nomi degli stabilimenti balneari del litorale domizio - l’incantevole tratto costiero tra Napoli e Caserta che, da Capo Miseno, arriva fino alla foce del Garigliano ripercorrendo l'antica via Domiziana fatta costruire dall'imperatore romano- che la mia famiglia ed io bambina raggiungevamo d’estate di primo mattino, di domenica o nei giorni di ferragosto. Dopo aver parcheggiato l’auto sotto una tettoia impagliata, camminando sopra un asfalto già rovente per la calura estiva, mio padre, di buonumore perché poteva stare con la sua famiglia e al mare, entrambi molto amati, allegro e sorridente, insolitamente loquace (tanto da ripeterci ancora una volta il racconto del servizio militare prestato come marinaio sulla mitica nave “Corvetta”, dopo averci mostrato di nuovo una sua foto in divisa e fucile che gelosamente serbava nel portafoglio) ci guidava al lido, scelto fra quelli che non avevano già esaurito le cabine a disposizione, non volendo accontentarsi di affittare soltanto ombrellone e sdraio. Da alcuni lidi si accedeva direttamente alla spiaggia, dopo aver superato lo spazio nel quale c’erano la cassa e il bar, da altri, per arrivare al mare, bisognava scendere una scaletta dai gradini stretti stretti, che terminava sulla sabbia calda e morbida nella quale dolcemente affondare i piedi, bramosi di correre nelle acque invitanti che, spumose, sciabordavano a riva disegnando sulla rena trine immaginarie. In spiaggia bambini vocianti già giocavano con palette e secchielli, da soli o con altri compagni, sotto lo sguardo vigile delle mamme riunite in gruppo a sorvegliare e a conversare, e a quello un po’ distratto dei padri che, accaniti fumatori, non rinunciavano al tiro di sigaretta nemmeno all’aria balsamica profumata di salsedine, ancora persi dietro alle loro preoccupazioni di lavoro che, però, abbandonavano subito dopo il pranzo, consumato sul tavolo del terrazzino della cabina, prontamente, poi, sgomberato di piatti, stoviglie e tovaglia, per diventare tavolo da gioco dove trastullarsi fino al tramonto, con familiari, amici o conoscenti, in lunghe partite di briscola, tressette, scopa o asso pigliatutto. Quelle estati in cui noi ragazzini sembravamo non crescere mai, illusi di avere davanti un’infinita gioventù, avevano la voce del rombo del motore dell’auto che ci guidava alla meta; quella dei bimbi che, eccitati, strillavano di gioia all’arrivo e non vedevano l’ora di tuffarsi in mare con i loro salvagente a forma di papera, delfino o mucca Carolina acquisita con i punti dei formaggini Invernizzi; quella delle madri che li esortavano a non stare troppo in acqua e ad asciugarsi bene dopo il bagno; quella del bagnino superabbronzato che, infaticabile, scortava alla cabina, collocava la sdraio e montava l’ombrellone bene spingendolo nella sabbia; quella del jukebox che all’aria gridava le canzoni allora in voga rallegrando gli adolescenti e sostenendo i loro timidi approcci; quella del mare cristallino che, mormorando sotto un incantevole cielo azzurro, tutti invitava all’immersione. Erano, quelle, estati spensierate, ma ero troppo piccola per rendermene conto. Tornata a casa, nella mia ingenuità di bambina solitaria già allora fantasiosa, volevo ricreare l’atmosfera felice che avevo vissuto al mare, e, così, improvvisavo un mio mare immaginario, trascorrendo molto tempo a trastullarmi con un gioco economico che coniugava il mio amore per l’elemento naturale e il bisogno di compagnia: tuffavo nell’acqua in un capiente secchiello da spiaggia figure di donna di carta che ritagliavo dalle riviste che aveva mia madre in casa. Immaginavo che fossero sorelle e amiche che, tenendosi a galla nell’acqua di mare, chiacchierassero del più e del meno, le manovravo con le dita come marionette, ma, dopo un po’, la carta si inzuppava, si macerava, allora le vedevo illanguidire, impallidire, scolorirsi e diventare strane sagome grigiastre e mollicce, fino a disfarsi. In quel secchiello, nel quale fingevo che le mie donnine di carta galleggiassero come donnine di carne, dove l’acqua del rubinetto nella mia fantasia diveniva acqua di mare, una volta asciutto riponevo, poi, di nuovo le formine e le palette che mi sarebbero servite al mare per giocare. Ma un brutto giorno di una di quelle estati spensierate un grande cruccio venne a turbarmi: non trovai più quel secchiello- nel quale, insieme ai giochi di spiaggia, tesoro prezioso, tenevo anche altri piccoli giocattoli, piattini, posate, bicchierini, tazzine, mini bamboline di plastica- conservato in un mobile in formica verde che i miei tenevano fuori al balcone. Imbronciata, con la voce tremante, prossima alle lacrime, già presagendo il disastro, chiesi a mia madre dove fosse. Mi rispose che non lo sapeva. Mi mentì. Capii, tempo dopo, che si era sbarazzata del secchiello con il suo contenuto perché non voleva che tenessi le mani per così tanto tempo nell’acqua, temeva che potessi ammalarmi, ma quel suo amor di madre allora mi parve crudeltà. Per un po’ covai risentimento verso di lei, ripensando al mio secchiello perduto con tutto il suo corredo e con tutte le mie fantasie, la odiai insieme al mare, poi mi ritornò l’amore per entrambi, che persiste, anche se ora lei non vive più ed io non vivo più in una città di mare.
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