Francesca Santucci

Erinna

(secolo IV a.C.)

 

(Santucci F., Donna non sol ma torna musa all'arte, Il Foglio, Piombino 2003)

 

Questo è d’Erinna il soave lavoro: lavoro non lungo,

ch’è d’una giovinetta diciassettenne appena,

eppur vince molti altri. Se l’Ade sì presto rapita

non l’avesse rapita, più celebre chi mai sarebbe stato?

 (dall'Antologia Palatina)

 

 

Erinna pochi versi compose, non fu poetessa

loquace; ma nei pochi versi le Muse accolse.

Perciò dalla memoria non cade, no, sotto l’ombrosa

ala rimane oppressa della livida notte.

Noi, dei novelli poeti miriadi in numeri, andiamo

o passeggero, a mucchi marcendo nell’oblio.

Del cigno vale più la gracile voce che il lungo

gracchiar dei corvi dalle nubi di primavera. 

(dall'Antologia Palatina)

 

La poetessa dorica Erinna, idolatrata dagli Alessandrini, paragonata a Saffo e ad Omero, ricordata nel Lessico di Suida (lessico greco ed enciclopedia generale risalente all’età bizantina, fonte preziosa per la conoscenza dell’antica storia della letteratura classica) come contemporanea di Saffo, probabilmente per l’affinità del canto, ma vissuta con molta probabilità verso la fine del quarto secolo, trascorse la sua vita nell’isoletta di Telos, presso Rodi.
Breve fu la sua esistenza, precocemente troncata a soli diciannove anni, come ci ricorda anche un poeta alessandrino, Asclepiade di Samo, in un epigramma in cui accenna all’esiguità dell’opera della poetessa, eppure di notevole sensibilità e maturità fu il suo canto, e presago delle vette maggiori a cui avrebbe potuto accedere.
Come tramanda la tradizione, proprio a 19 anni perse la cara e fedele compagna Bauci, morta poco dopo le nozze, e, per ricordarla, scrisse, probabilmente pochi giorni prima di morire, un poemetto in di trecento esametri dal titolo La conocchia.
Di quest’opera, così famosa nell’antichità, erano pervenuti solo pochi frammenti attraverso citazioni ma, nel 1928, un papiro edito in Italia, conservato a Firenze, restituì alla luce 79 di questi esametri che, seppure in condizioni malconce, permisero finalmente di leggere un brano di 20 versi e di ricostruire l’argomento.
Nella Conocchia Erinna piange la morte della sua coetanea, Bauci, ricorda i momenti spensierati in cui si trastullavano con i giochi infantili e le altre ore felici, trascorse insieme durante le pause del lavoro della conocchia, da cui, appunto, prende origine il titolo del poemetto, e poi rievoca il distacco quando l’amica si sposa, infine il dolore cocente per la sua morte.
Il poemetto è scritto in un dialetto dorico letterario, come si può desumere, ad esempio, dall’uso del participio, in forma
eâsan, invece di oàsan, ma sono presenti anche elementi epici, di derivazione omerica.
Oltre i frammenti della Conocchia, di Erinna restano alcune lettere di una trentina di versi e tre epigrammi nell’Antologia palatina; in uno degli epigrammi ancora ritroviamo trattato, con semplicità, grazia di lamentazione e romantica levità, il tema della morte.

 

Smaniosi i bianchi cavalli sulle zampe

dritti con grande strepito

si levavano; il suono della cetra

in eco batteva sotto il portico vasto della corte.

O Bàuci infelice, al ricordo gemendo io piango!

Nel mio cuore ancora hanno calore

queste cose della fanciullezza, 

e quelle che di gioia

non furono cenere sono ormai.

 Riverse le bambole

sui letti nuziali stanno e presso il mattino

cantando più non reca la madre

il filo sulla rocca e i dolci di sale cosparsi.

Paura ti fece da bambina la strega

che ha grandi orecchie e su quattro

piedi s'aggira movendo intorno lo sguardo.

E quando, o diletta Bàuci,

 sul letto salisti dell'uomo

senza memoria di quello che bambina ancora

avevi udito da tua madre, Afrodite

pietosa non fu della tua dimenticanza.

Per questo ora io piangendoti non t’ abbandono

né i miei piedi lasciano la casa che m'accoglie,

né voglio più vedere la dolce luce del giorno,

né lamentare con le chiome sciolte; ho pudore

del dolore che cupo il volto mi sfigura.

 

(Erinna)

 

Francesca Santucci

 

 

 

 

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