Francesca Santucci
EMILY BRONTË AL MIO CUORE CARA
(pubblicato nell'antologia brontëana)
Ho sognato nella mia vita sogni che son rimasti sempre con me!
Emily Brontë
Cari al cuore non sono solo gli affetti e i luoghi, similmente
tangibili, reali, ma anche le “presenze” dell’immaginario,
poetiche creature, lontane o vicine che siano nel tempo e
nello spazio, che abitano i nostri pensieri, alimentano i
nostri sogni, le nostre fantasie, ci dischiudono mondi diversi
attraverso i loro scritti, ci donano le loro emozioni, come le
leggendarie sorelle Brontë, tutte eccezionalmente dotate dal
punto di visto artistico-creativo: Charlotte, la più veemente
e prolifica; Emily, grandiosamente lirica e visionaria; Anne,
voce più esile, oscurata dal genio delle sorelle. In diverse sfumature, tre perle di uno stesso scrigno- la Musa
lirica che tutte le ispirò - vissute nel più romantico dei
secoli, l’Ottocento, ad Haworth, villaggio situato nello
Yorkshire, nell’Inghilterra settentrionale, terra ricca di
fascino e di storia, con colline, montagne, ripide scarpate e
affioramenti rocciosi di grande suggestione, immerse nella
trasognata cornice della brughiera, paesaggio desolato di
selvaggia bellezza che si stende per miglia e miglia,
intersecata dai bassi muretti a secco,
battuta dal vento, avvolta nelle nebbie, nella bella stagione
completamente ricoperta di erica violetta in fiore: permangono
evento irripetibile nella storia della letteratura mondiale! Interessanti tutti i componenti della famosa famiglia, segnata
dal genio e dal talento, ma anche dal subdolo male e dalle
morti precoci, al mio cuore cara soprattutto Emily, solitaria,
innamorata della brughiera, delle eriche in fiore, poetessa
gelosa dei suoi scritti, timida ragazza di campagna che, negli
ultimi anni della breve vita, si rafforzò tanto da affrontare
la sua drammatica morte- non temuta, considerata come
liberatrice- stoica ed impavida come gli eroi delle sue
fantasie. Votata alla scrittura- sinonimo per lei di libertà ed estatica
felicità- seppe produrre pagine d’intenso lirismo
nell’espressione del contrasto tipicamente romantico fra
l’angustia della finitezza del mondo e l’anelito all’infinito,
animando la natura di una presenza tenebrosa, sovrannaturale,
quasi magica. Più delle sue sorelle, infatti, si nutrì dei paurosi racconti
di spiriti, fantasmi, elfi, gnomi e fate, leggende del
folklore locale e saghe popolari, narrati dalla governante
Tabitha Aykroid (“Tabby”), di origini irlandesi, e tutte
queste suggestioni le riversò nel suo unico grande romanzo,
“Wuthering Heights” ("Cime tempestose"), al quale sempre
inevitabilmente si collega il suo nome. In realtà fu anche
raffinata autrice di liriche e prose in cui espresse acute
riflessioni, come in “Le papillon”, profonda meditazione fra
uomo e cosmo […]bellissimo componimento di Emily Brontë[…]
forse il più bello di tutti in quanto in esso l’autrice fa
confluire liberamente quelle che sono le proprie convinzioni
filosofiche sulla natura e sulla caducità del mondo,
1 ma straordinario resta il suo romanzo, allucinato e
potente, in cui la passione si afferma come una malia, un
sortilegio, e stupefacente che una ragazza timida come lei,
che non conosceva l’amore, abbia potuto scrivere la storia
d’amore più appassionante e intensa della letteratura
romantica inglese. Autenticamente ispirata, in pagine fortemente emotive, Emily
descrisse le passioni tumultuose e istintive dei protagonisti,
che si ossessionano l’un l’altro fino alla distruzione,
circondati da personaggi stralunati, immersi in un paesaggio
selvaggio e inospitale d’irresistibile bellezza: Catherine
Earnshaw, attratta come una calamita da Heathcliff, un
trovatello arrivato bambino alla sua casa, alla cui passione
cercherà di non soggiacere, quando sarà legata a Linton;
Heathcliff, istintivo, crudele, vendicativo, torturato fino
allo spasimo dal conflitto tra l'amore e l’odio, a tratti
“diabolico”, ma impossibile da odiare, perché non si può non
pensare a quanto abbia sofferto e perché per l’autrice
personificazione della violenza della natura e, essendo assai
simili le due manifestazioni, la violenza dell’uomo e quella
naturale, entrambe moralmente non giudicabili. Fu proprio Emily la prima delle sorelle Brontë che scoprii,
dopo aver visto in televisione la trasposizione
cinematografica del suo romanzo. Il film era del 1939, in
bianco e nero, “La voce nella tempesta”, di William Wyler, con
uno straordinario Laurence Olivier nella parte di Heatchliff,
selvaggio, cupo, tenebroso, in terribile schiavitù d’amore
fedele fin da bambino alla sua dispettosa, prepotente,
volubile, capricciosa, appassionata Catherine, interpretata da
una deliziosa Merle Oberon. Ero una ragazzina, allora, ma compresi subito il carattere e
la forza del sentimento dei protagonisti, fui conquistata da
quella storia d’amore romantica, morbosa, ossessiva, fatale,
distruttiva, quasi mistica, che iniziava fra loro bambini,
proseguiva da adulti e non si spegneva nemmeno con la morte,
da quel senso di appartenenza l’uno all’altro così forte da
far esclamare a Catherine:
Il mio amore per Heathcliff somiglia alle eterne rocce che
stanno sottoterra: una sorgente di gioia poco visibile, ma
necessaria. Nelly, io sono Heathcliff! Lui è sempre, sempre
nella mia mente; non come un piacere, come neppur io sono
sempre un piacere per me stessa, ma come il mio proprio
essere.
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E mi affascinò lo sfondo naturale delle passioni dei
personaggi, il paesaggio splendido, selvaggio, ricco di
mistero, della landa solitaria al chiar di luna o tormentata
dalla pioggia o sferzata dalla neve o dalle folate di vento
freddo, degli scoscesi promontori e delle ripe ammantate di
eriche in fiore: scenario indimenticabile, tra i più romantici
che mai siano stati creati! Pur essendo nata in una città di mare, Napoli, pur amando il
mare, ero attratta dalle distese verdeggianti, dalle valli,
dalle colline, dai monti, dai luoghi selvatici, perciò
m’incantò la brughiera che tanto spazio aveva nel film. E poi
la Rupe di Penistone, ove sempre
accorrono nel film i protagonisti (il “castello”, come lo
chiama Laurence Olivier), mi ricordava un luogo
dell’entroterra campano nel quale scatenavo le mie fantasie
quando con la mia famiglia visitavo la zona del Matese.
Spesso, infatti, in occasione di gite festive o domenicali
(soprattutto nella bella stagione, raramente in inverno, ma,
quando capitava, era uno spettacolo muoverci fra la neve!) mio
padre, mia madre, mio fratello, mia sorella ed io, ci
mettevamo in viaggio in auto di buon’ora per dirigerci al
Matese, un complesso montuoso dell’Appennino Sannita situato
fra Campania e Molise, comprendente in Campania quattro
province: Benevento, Caserta, Campobasso e Isernia. Il
paesaggio, di rara bellezza, incantato si snodava dinanzi ai
miei occhi stupiti di bambina “cittadina”: le verdi vallate
puntellate dai monti, i fiumi e i ruscelli cristallini, le
allegre cascate e le tenebrose grotte, e poi gli alberi,
cerri, lecci, carpini, betulle, ginepri, castagni e faggi
svettanti contro il cielo, e radure, boschi e sottoboschi
colorati da ciuffi di genziana, digitale, sambuco, euphrasia,
trifoglio, tanaceto, garofanine, ravvivati dalle presenze
invisibili o sfuggenti di volpi, lepri, marmotte, tassi,
ghiri, picchi e allocchi. Attraversando un paesaggio diversissimo dal nostro abituale,
con l’aria che diveniva sempre più fine, “pulita”, man mano
che ci addentravamo nell’entroterra, dopo molti chilometri,
giungendo dal lato di Benevento, approdavamo a Cerreto Sannita
(il cui nome deriva dal latino cerrus, ossia cerro, una
specie di quercia presente in zona), paese collinare situato
alle porte del parco regionale del Matese, attraversato dal
fiume Titerno e da diversi torrenti, ricco di aree naturali
dal fascino straordinario. Terminata la strada asfaltata,
abbandonata l’auto, iniziavamo il percorso montano. Dopo un
lungo cammino fra pascoli erbosi intervallati da sorgenti e
torrenti, ammassi di rocce emergenti dal terreno, luoghi
selvatici ove i pastori conducevano le greggi e dove un tempo
si nascondevano i temibili briganti, superate le ripide e
paurose "Ripe del Corvo", enorme muraglia dalle pareti
rocciose, approdavamo alla “Morgia Sant’Angelo”, un suggestivo
macigno di pietra calcarea alto 35 metri.
Morgia Sant'Angelo
(La leonessa)
Definito anche “Leonessa”, dai superstiziosi ritenuto il
“masso delle streghe” (del resto Benevento, fondendosi la
leggenda con gli echi dei misteriosi riti orgiastici dei
Longobardi- che questa città avevano eletto a capitale del
loro regno- sin dai tempi antichi ha avuto fama di essere il
paese delle streghe, e da mia nonna appresi la cantilena
popolare che pare fosse la formula magica che le streghe
ripetevano durante i processi, Unguento unguento/portami
al noce di Benevento/sopra l'acqua e sopra il vento/e sopra
ogni altro maltempo) è un “masso erratico” cioè una grande
roccia staccatosi dalla montagna e trascinata in pianura dai
ghiacciai, poi ritiratisi. Posta in alto, domina tutto
l’orizzonte, offrendo un punto di vista spettacolare sull’alta
valle del Titerno e sull’intera valle Telesina. Visione
d’incomparabile bellezza, maestosa e solitaria, questa roccia
nel corso dei secoli ha subito un’erosione che le ha conferito
le sembianze di un grosso felino accovacciato e, in effetti,
impressionante è la somiglianza, per la fedeltà della forma e
della postura, per la vegetazione che cresce sul dorso che
ricorda proprio il soffice manto dell’animale, sembra persino
avere le ciglia a causa di un alberello cresciuto quasi
all’altezza degli occhi che, quando è agitato dal vento, ne
imita il movimento. Inoltre alla base del macigno c’è una
grotta, frequentata dall’uomo sin dall’età preistorica (come
testimoniano i numerosi reperti rinvenuti) trasformata in
luogo di culto dai Longobardi, che vi edificarono la chiesa di
Sant’Angelo a Sasso, ma, pur affascinata dalla Morgia, il
luogo che, in particolare, accendeva la mia immaginazione,
apparendo ai miei occhi incantato, fiabesco, quasi magico, era
un altro. Lungo il percorso per arrivare al grande macigno, nella
contrada "Cese", disseminata da numerose pietre calcaree pure
erose in forme strane, c’era un affioramento roccioso, che in
basso aveva anche una piccolissimo foro nel quale, a fatica,
mio fratello, mia sorella ed io entravamo per nasconderci.
Petrorhagia
il suo nome scientifico, dal greco petros, pietra, e
rhagas, fessura), con i numerosi fiori dai petali
porporini raggruppati entro le brattee. Ecco, era questo il luogo che mi entusiasmava e che scatenava
la mia fantasia di bambina, quest’agglomerato di rocce quasi a
forma di torretta, dove fingevo di essere una principessa
imprigionata in una torre o rapita dai pirati o vittima di un
sortilegio o la figlia del vento intrappolata in una grotta, o
molto altro ancora, ed ora quel film mi offriva un luogo
simile: che curiosa coincidenza, ma non fu l’unica a legarmi
per sempre ad Emily! Dopo aver visto “La voce nella tempesta”, così avvincente per
il sapiente intreccio di sentimento e natura, per la
travolgente storia d’amore che si svolgeva in un contesto
naturale tanto suggestivo, mi nacque forte il desiderio di
leggere il romanzo da cui era stato tratto il film: “Cime
tempestose”. Avidamente lo lessi, una prima volta, poi una seconda, e poi
ancora: e scoprii, così, che il film che avevo visto non era
del tutto fedele al romanzo, poiché prendeva in esame solo una
parte della vicenda, soffermandosi esclusivamente sulla storia
d’amore di Heathcliff e Catherine, ma questo nulla toglieva
alla trasposizione cinematografica che aveva splendidamente
tradotto in immagini la violenza dei sentimenti e della natura
concepiti dall’autrice, e nulla tolse alla fascinazione che
ormai Emily esercitava sulla mia fervida mente. E scoprii anche che la Rupe di Penistone, probabilmente,
s’ispirava ad un luogo reale, Ponden Kirk, uno spuntone di
roccia in arenaria, situato a circa
cinque chilometri da Haworth, con un foro piccolissimo alla
base, detto la “grotta delle fate”,
nel quale pure è possibile entrare
(proprio come il mio angolo di Matese!). Da allora
nelle mie fantasie, mescolando i luoghi immaginari del romanzo
con quelli reali che avevano ispirato Emily, Cerreto Sannita
divenne la mia Haworth, la valle del Matese la mia brughiera,
la garofanina la mia erica e l’affioramento roccioso della
contrada “Cese” la mia Rupe di Penistone…e promisi a me stessa
che un giorno in quel luogo ci sarei tornata col mio
innamorato e avrei giocato con lui ad essere Catherine e
Heathcliff.
Ponden Kirk
Affascinata dal romanzo, e suggestionata dalle mie fantasie,
desiderai conoscere ancora più a fondo Emily, allora lessi la
sua biografia, e poi una selezione di poesie (di cui, però,
avrei compreso nell’interezza l’esatto senso e valore soltanto
più avanti nel tempo, in età più matura e in accresciute
conoscenze), che mi piacquero molto per le atmosfere
romantiche che sempre mi conquistavano, e soprattutto perché
tanta parte vi aveva la natura (il vento, la neve, i fiori,
gli uccelli, i boschi, la luna), proprio come nel romanzo,
proprio come nella vita dell’autrice, proprio come nella mia
vita. Ma fu Intorno a me grigi sepolcri io vedo il suo
componimento che, in particolare, mi colpì, perché prepotente,
nel paesaggio desolato della landa, s’imponeva la Morte, e
pensai che di certo il dolore dell’io lirico non si legava
all’immaginario mondo di Gondal,
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ma al vissuto dell’autrice, alle morti premature della mamma e
delle sue sorelle, sepolte sotto quelle lapidi che,
continuamente, vedeva dalla sua casa. Da quel momento, anche
come poetessa, Emily non uscì più dal mio cuore.
Intorno a me grigi sepolcri io vedo,
ombre lunghe che lontano s’allungano.
Sotto le zolle che i miei piedi battono
in solitudine e silenzio i morti stanno
sotto l’erba- sotto il tumulo sempre
nel buio, sempre nel freddo,
ed i miei occhi versano lacrime
che la memoria da anni svaniti serba,
poiché Tempo e Morte e Dolore mortale
di ferite insanabili feriscono che
io ricordi appena una parte
del dolore laggiù visto e provato
né il cielo- puro e benedetto
mai al mio spirito requie ha dato…
Che strano (altra
curiosa coincidenza!), come Emily avevo anch’io familiarità
con le lapidi, perché come lei le vedeva dalle finestre della
sua canonica, circondata sui tre lati dal cimitero, anch’io le
vedevo da una delle finestre della casa di mia nonna, dove sin
da bambina puntualmente ogni giorno mi recavo. Quelle lapidi
appartenevano ad uno dei cimiteri monumentali di Napoli, al
"Cimitero acattolico di Santa Maria della Fede" (oggi
dismesso) comunemente conosciuto come “Cimitero degli
inglesi” o “Cimitero dei protestanti”, collocato nel giardino
della chiesa di Santa “Maria della Fede”, lontano dalla zona
cimiteriale napoletana. Realizzato nel 1826 su forte impulso
del console inglese di Napoli, Sir Henry Lushington, e della
comunità britannica napoletana, un tempo vi erano seppelliti
celebri personaggi inglesi, come la scrittrice Elizabeth
Craven e suo figlio Keppel Richard Creven, viaggiatore e
scrittore; William Gell, archeologo, viaggiatore e scrittore
inglese, amico di Keppel Richard Craven; la matematica
scozzese Mary Somerville; John Connellan Deane, architetto
irlandese, e tanti altri. Mi piaceva, bambina,
allungare lo sguardo e curiosare da lontano fra i monumenti
funebri, fantasticare su quei morti “inglesi e acattolici” sui
quali m’interrogavo sul perché fossero stati sepolti così
lontano dalla loro patria, lì, nel cuore di Napoli. Nei giorni
di vento autunnale, poi, adoravo sporgermi dalla finestra e,
socchiudendo un po’ gli occhi per pararne le raffiche,
immaginavo di veder danzare fra le tombe, tra i mulinelli
delle foglie secche, i loro fantasmi… ma le voci imperiose di
mia madre e di mia nonna mi richiamavano bruscamente alla
realtà: non volevano che guardassi in direzione del cimitero e
non volevano che prendessi vento, sapevano che l’indomani una
tosse ostinata m’avrebbe tormentato …proprio come accadeva ad
Emily, ma io, come lei, non temevo né le tombe né il vento4…
e, stoicamente, sopportavo gli attacchi di tosse!
Ormai completamente
conquistata dalla scrittura di Emily, mi misi
approfonditamente sulle sue tracce, cominciando a leggere
tutto ciò che riguardava la sua vita. E scoprii che era pure
autrice di delicati acquarelli (ed anch’io mi dilettavo con i
colori ad acqua!), che suonava il pianoforte, e che aveva due
sorelle entrambe votate alla scrittura: Charlotte ed Anne.
Su Charlotte, la più
longeva, l’unica delle tre sorelle ad avere una vita un po’
più emancipata, più serena e meno sfortunata- ma pure
drammaticamente morta, mentre era in attesa di un figlio-
appresi che era stata l’unica ad avere avuto un bisogno
d’indipendenza, evadendo dalla vita domestica, attraversando
la Manica e recandosi in Belgio, a Bruxelles, una prima volta
con Emily, a perfezionarsi nel francese, e poi come allieva e
insegnante d’inglese, in un collegio femminile, al Pensionato
Héger, ospite dei coniugi Héger. Lessi subito il suo
capolavoro, il suo secondo romanzo, quello che le aveva dato
grande successo e popolarità, “Jane Eyre”, la storia di una
fanciulla orfana che, dopo una squallida infanzia trascorsa in
un ospizio, diviene istitutrice presso una ricca famiglia. Il
padrone di casa, il signor Rochester, è attratto dalla sua
umile grazia e vorrebbe sposarla. Jane acconsente felice, ma
poi scopre che è già sposato e che la moglie, pazza, è
rinchiusa in una soffitta della casa. Disperata, fugge, ma
l’uomo perde la vista nel tentativo di salvare la moglie da un
incendio che lei stessa ha appiccato e nel quale troverà la
morte. Jane ode di notte la voce del cieco che, errando per la
campagna, invoca il suo nome; corre da lui e lo sposa. Il romanzo mi conquistò
subito per le melodrammatiche fantasie, per le atmosfere
gotiche, in sospensione fra mistero e tragedia (i segreti del
signor Rochester, la follia della moglie, la segregazione
nella soffitta, l’incendio, la morte della donna, la cecità
dell’uomo); più avanti nel tempo, poi, apprezzai le qualità
“moderne” attribuite alla protagonista, eroina intelligente,
ribelle e indipendente, capace di auto affermarsi, ma guidata
sempre da rettitudine morale. Dopo “Jane Eyre”, di
Charlotte lessi il romanzo “Il Professore”, delicata vicenda
sentimentale, sua opera prima, scritto al ritorno in
Inghilterra da Bruxelles, dove, ospite del Professore Héger e
di sua moglie, aveva concepito per l’uomo un intenso
sentimento, riversato anche nelle splendide lettere nelle
quali, mai parlando d’amore, ma con accenni struggenti, lo
rivelò, insieme alla venerazione e al rispetto che aveva avuto
per lui, come Galatea per il suo Pigmalione. E poi scoprii Anne,
amabile, tranquilla, gentile, di costituzione delicata, che se
ne andò cinque mesi dopo Emily, a ventinove anni, di
tubercolosi, quasi predestinata sin dall’infanzia ad una morte
precoce, scrittrice meno famosa e meno “grande” delle geniali
sorelle, non con la mente fervida d’immaginazione come
Charlotte, né con la tormentata fantasia di Emily, ma pure
valida narratrice, però di storie reali, e poetessa
dolcissima. Dei suoi scritti lessi per primo “Agnes Grey”, un
romanzo autobiografico, ma trovai lievi e soavi, a tratti
mistici, i suoi componimenti, ed estremamente commovente
l’ultima lirica, Orrenda una tenebra avanza, scritta
con serena nobiltà d’animo quando, dopo una crisi polmonare,
sentì la morte vicina, preceduta da una lettera ad un’amica (5
aprile 1849) in cui, fra l’altro, confidava:
La morte non mi fa
orrore: se la considerassi imminente mi rassegnerei
tranquillamente a questa prospettiva…Spero comunque che sia
volontà di Dio risparmiarmi, non solo per amore di papà e di
Charlotte, ma anche perché bramo di far qualcosa di buono nel
mondo, prima di lasciarlo. Ho molti progetti da tradurre in
atto-umili e limitati in verità- però non vorrei che tutti
finissero in nulla, non vorrei essere vissuta con così poco
costrutto. 5
E nella famiglia Brontë
c’era anche un fratello di talento, scrittore e pittore, ma un
poco scapestrato (proprio come il mio che tanti dispiaceri
avrebbe, poi, dato ai miei genitori…fortunatamente, però, non
finendo i suoi giorni tragicamente come Branwell!), che pure
suscitò il mio interesse, ma cara al mio cuore permaneva
soprattutto Emily, con la quale rinvenivo di continuo nuovi
punti di contatto, e la sua anima e la mia sempre più mi
sembravano gemelle. Ritrovavo in lei il mio
identico attaccamento alla casa dalla quale malvolentieri mi
allontanavo, la gioia del focolare dove, guidata da mia nonna
e da mia madre, imparavo a mescolare le farine con lo stesso
piacere col quale nella sua cucina lei impastava il pane per
la sua famiglia, l’amore per la natura, il senso di libertà
che mi procuravano le lunghe passeggiate con il mio cane nel
bosco di Capodimonte o nel parco della Villa Floridiana o fra
le valli del Matese o nei sentieri di campagna (quando, per un
lungo periodo, abitai in una cascina immersa fra i campi di
granturco), simile a quello che certamente doveva aver provato
Emily nei suoi vagabondaggi nella brughiera con il suo bulldog
Keeper. Anch’io ero un poco incline alla solitudine, e mi
piaceva fingere mondi immaginari come Gondal, coltivare la mia
“vita interiore” (mia madre, che ben mi comprendeva, mi
rimproverava sempre di vivere in un mondo tutto mio perciò,
poi, memore della sua critica, ho sempre cercato di contenere
la fantasia con lo studio!), fantasticare, anche sull’amore,
che sognavo appassionato e prepotente come quello fra
Catherine e Heathcliff. Come Emily necessitavo di scrittura e,
attraverso la scrittura, mi sentivo libera e felice, dipingevo
con i colori ad acqua, ed avevo la mia Tabby, la mia nonna
materna che, nel nostro dialetto, mi raccontava storie
popolari, di streghe, fantasmi e spiriti maligni. Sono, poi, trascorsi gli
anni, e, sempre in profonda empatia con Emily, fragile-forte
creatura, ho continuato a coltivarne l’interesse, mai mancando
di leggere pubblicazioni, saggi, articoli, che potessero
gettare nuova luce sulla sua personalità, sulla sua opera,
sugli avvenimenti della sua vita, sulla sua famiglia,
scrivendone io stessa, ed entrando in contatto con altre donne
come me appassionate delle Brontë: c’è una sorella Brontë
preferita per ognuna di noi! E un giorno sono pure
ritornata al mio angolo di brughiera nel Matese e a riguardare
il “Cimitero degli Inglesi” (ma da lontano, perché la mia
adorata nonna da tempo abita “altrove”, e sconosciuti vivono,
ora, in quella che fu la sua casa). Alla mia Rupe di
Penistone, fedele a quanto mi ero ripromessa anni addietro, ci
sono ritornata giovane sposa con mio marito che, schivo come i
pastori del Matese, duro come una roccia di montagna, ben al
corrente delle mie suggestioni letterarie e delle mie
fantasticherie, pur di compiacermi, teneramente ha assecondato
il mio gioco e si è finto Heathcliff e, come erica, il fiore
preferito da Catherine e da Emily, mi ha donato delle
garofanine dalle sfumature quasi violette. Il “Cimitero degli
Inglesi” dal 1980 più non è cimitero, ma, traslate le
sepolture al “Nuovo Cimitero Inglese” alla Doganella,
adiacente alla Chiesa di Santa Maria del Pianto, è giardino
pubblico. Che tristezza ora che gl’illustri morti non ci sono
più! Lugubri superstiti restano, tra i viali rifatti,
circondati da erbacce, i monumenti funebri tra cui il mio
sguardo incantato di bambina sognatrice amava perdersi, mentre
intorno urlava il vento battente.Continuo ad amare il
mondo Brontë, ma, ancora oggi, soprattutto Emily, e, in
continua (ri) scoperta, a leggere e rileggere le sue poesie e
passaggi (che conosco a memoria) delle “Cime tempestose”, a
rivedere il film che mi colpì nell’infanzia e che mantiene
intatto il suo fascino, mai mancando le nuove versioni
televisive e cinematografiche. E ancora oggi se chiudo
gli occhi talvolta mi sembra di essere Catherine che corre
libera verso la Rupe di Penistone o Emily che imbocca il
sentiero che, dietro la sua casa, porta direttamente nella
brughiera ammantata di eriche viola e bianche (rare a
trovarsi!) che, profumate, ondeggiano cullate dal vento, e mi
ricordo del mio immaginario angolo di sentivo libera e felice, e, così, il mondo Brontë, nonostante
gli studi e gli approfondimenti di adulta, si lega
indissolubilmente alla mia infanzia, alla mia spensieratezza,
ai miei sogni. E, forse, continuare ad
amare Emily è come continuare a sognare, e quei sogni non
svaniscono mai. E’ proprio come afferma Catherine Earnshaw in
“Cime tempestose”:
Ho sognato nella mia
vita sogni che son rimasti sempre con me.6
1)
Emily Brontë, La musa tempestosa,
curatore Crocetti N., edizione speciale per il Corriere
della sera, vol. 6, 2012 RCS MediaGroup S.p.A Divisione
quotidiani, nota a pag.206. La farfalla,
componimento in francese, a cura di Maddalena De Leo,
Edizioni Ripostes 2002, traduzione di Maddalena De Leo.
2)
Cime tempestose, cap.IX.
3)
“Gondal” è
l’immaginario mondo fantastico, dai forti intrecci narrativi,
elaborato in gioventù da Emily ed Anne
Brontë.
4)
Lettera
di Anne ad Ellen Nussey, 1847: Fortunatamente per tutti il
vento dell’est non la fa più da padrone. Mentre spirava di
continuo lei [Charlotte] si lamentava del suo effetto come al
solito. Anch’io lo sento un po’, come sempre, più o meno, ma
questa volta non mi ha peggiorato il raffreddore e la tosse,
che è ciò che maggiormente temo. Emily lo considera un vento
per niente interessante, e non influisce sul suo sistema
nervoso.
5)
Anne, Charlotte, Emily Brontë, poesie, curatore Raffo S.,
Oscar Mondadori, Milano 2004, nota pag.221.
6)
Op. cit.
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