Francesca Santucci
DONNE
DELL'ANTICA ROMA
(dall'antologia AA.VV., “Roma
antica",
Kimerik 2019)
Nel patriarcale mondo antico romano la condizione femminile,
pur se migliore di quella greca- dove le donne erano
considerate come schiave, relegate nei ginecei, eccetto le
etere che, al duro prezzo della considerazione sociale,
potevano esprimere la propria cultura e personalità- era,
comunque, di sottomissione al maschio e circoscritta alla
sfera privata.
Ritenuta un essere inferiore, totalmente
sottomessa prima al padre e ai fratelli, poi al marito, la
donna romana godeva di pochissimi diritti. Non le si
richiedeva di essere intelligente o colta, ma solo di servire
ed amare marito e figli e di accudire la casa: infatti, quando
un romano voleva tratteggiare l’ideale della condizione
femminile, esaltava le virtù domestiche, assegnando centralità
al lanificium, l’antico costume secondo il quale la
matrona si occupava personalmente della filatura della lana e
della tessitura delle vesti della famiglia. E persino nelle
iscrizioni funebri erano esaltate le sue virtù domestiche! I
mariti lodavano le mogli defunte con questi aggettivi: pia,
pudica, frugi, casta, domiseda, lanifica, cioè,
devota, pudica, frugale, casta, che sta in casa e che è
impegnata nel tessere la lana.
La condizione della donna cominciò a cambiare, anche se di
poco, già negli ultimi anni della Repubblica e, soprattutto,
nell’età imperiale: allora le fu concesso di essere libera di
uscire anche da sola (mentre prima poteva farlo solo se
accompagnata, da un marito o da un’ancella), poteva truccarsi
e ingioiellarsi, maggiormente si diffuse il matrimonio sine
manu, cioè senza tutela maritale, mantenendo il proprio
nome e il possesso del proprio patrimonio, poté ottenere il
divorzio e persino il magro privilegio di sdraiarsi come i
maschi sui triclini durante il banchetto, mentre invece, fino
ad allora, era stata costretta a stare seduta (come i bambini)
accanto al marito.
Esempio luminoso per le donne dell’antica Roma,
di rispetto delle virtù loro tradizionali richieste, cioè
perfetta devozione e fedeltà al marito, alla propria gens
e alla patria, cura dei figli, riservatezza, da imitare e da
tenere sempre bene in mente per comportarsi in modo consono, sicuramente fu Cornelia,
l’aristocratica madre dei Gracchi. Figlia di Scipione
l’Africano e di Emilia (figlia del console Lucio Emilio
Paolo), citata anche da
Dante Alighieri nella
Divina Commedia, nel
Limbo, tra gli Spiriti Magni con il nome di
Corniglia, colta, raffinata, virtuosa, austera, di
animo nobile, forte, Cornelia fu anche univiro, cioè
donna di un solo uomo, giacché, morto il marito,
Tiberio Sempronio Gracco, quando lei era ancora molto giovane,
restò rigorosamente legata alla sua memoria, rifiutando altre
nozze, anche quelle con Tolomeo VIII, futuro re d’Egitto, per
non venire meno al dovere di donna romana di educare i suoi
figli.
La
memoria popolare ricorda Cornelia soprattutto per
il noto aneddoto dei “gioielli”: lasciò parlare la ricca
matrona romana in visita a casa sua che ostentava e decantava
i gioielli che indossava, poi chiamò i suoi figli e, in forte
orgoglio materno, esclamò: Haec ornamenta mea! (“Questi
sono i miei gioielli!”).
Tuttavia nell’universo femminile del mondo romano,
completamente opposto a quello offerto da Cornelia, è da
ascrivere anche un altro tipo di donna, che non incarnava il
modello di figlia, sposa, madre virtuosa, ma era prototipo di
lussuria, sregolatezza e dissolutezza, che privilegiava le sue
doti seduttive per fini illeciti o egoistici, dimenticando
morale e pudore con comportamenti indecorosi, per brama di
potere e lusso sfrenato.
Questo nuovo modello femminile si diffuse specialmente nella
classe dominante, quando mutarono le condizioni sociali con il
rivolgimento dei costumi, conseguente alle ricchezze confluite
a Roma in seguito all’esplosione di potenza dell’Urbe nel
mondo. Additate come modelli di decadenza e malcostume, le
vicende di tali donne servivano a mettere in guardia le
giovani fanciulle, mostrando a cosa sarebbero andate incontro
se non si fossero comportate nel rispetto delle tradizioni.
A questo secondo modello appartiene la figura di Sempronia,
donna bella, nobile e colta, ma spregiudicata e disposta a
imprese temerarie, reclutata da Lucio Sergio Catilina (giovane
patrizio di acuto ingegno, ma d’indole ambiziosa e corrotta,
discendente di una famiglia di antica nobiltà ma con scarso
peso economico e sociale) fra i nuovi complici della sua
congiura, che mirava a dar vita ad un violento colpo di stato
con l’aiuto di un piccolo gruppo di personaggi fra i più
disparati: nobili frustrati nelle loro ambizioni o carichi di
debiti, giovani pronti a lottare per i loro ideali, matrone
desiderose di vivere esperienze eccitanti.
Si narra che in
quel tempo (a Catilina) si fossero associati moltissimi uomini
d'ogni risma, anche alcune donne che prima avevano sostenuto
grandi spese facendo commercio del proprio corpo, e che poi,
quando l'età aveva diminuito soltanto le entrate, ma non il
desiderio del lusso, avevano contratto debiti enormi. Tramite
loro Catilina credeva di poter sollevare gli schiavi urbani,
incendiare la città e alleare a sé oppure uccidere i loro
mariti.
(Sallustio,
De Catilinae Coniuratione,
II,
24, Trad.
Francesca Santucci)
È Sallustio, nella sua monografia storica
De Catilinae coniuratione
(“La congiura di Catilina”), opera in cui
narra la congiura ordita da Catilina nel 63 a.C. (dallo
storico considerata uno degli argomenti più significativi
della corruzione e decadenza morale e sociale della classe
dirigente romana) nel tentativo, rivelatosi poi fallimentare e
costatogli la vita, di sovvertire l’ordinamento repubblicano
di Roma,
ad informarci che fra i congiurati c'erano anche alcune donne
di elevata condizione sociale, attirate dal fascino perverso
dell’uomo e dal brivido dell'avventura.
Lo storico dedica un intero capitolo a una di esse, Sempronia
(108/103 a.C.),
una nobildonna romana discendente da una delle più famose
gentes di Roma, la gens Sempronia (la stessa dei
Gracchi), sposa di Decirno Giunio Bruto che fu console nel 77
a.C., e madre di Decimo Bruto, uno dei futuri uccisori di
Cesare, che si comportava in modo diametralmente opposto al
modello tradizionale di donna: era libera, spregiudicata, non
nascondeva le sue passioni e, per soddisfarle, non esitava a
tradire la parola data e a rendersi complice di delitti,
anteponendo l’illecito al lecito.
Ma tra quelli
c’era Sempronia, che più volte aveva compiuto imprese di
virile audacia. Questa donna, per quanto riguarda la stirpe e
la bellezza, e inoltre per il marito e per i figli, era stata
molto favorita dalla fortuna; dotta di lettere greche e
latine, sapeva suonare la cetra e ballare con un’abilità
maggiore di quella richiesta a una donna virtuosa, ed era
esperta di molte altre arti che sono strumenti del piacere. Ma
tutto per lei era più importante della decenza e del decoro;
non era facile distinguere se tenesse di meno al denaro o alla
reputazione; così accesa era la sua libidine che spesso
seduceva lei gli uomini più che lasciarsi da loro corteggiare;
di regola veniva meno alla parola data, negava spergiurando di
aver preso soldi in prestito, era stata anche complice di
omicidi; il desiderio del lusso e la mancanza di mezzi
l'avevano portata alla rovina. Nonostante ciò, il suo ingegno
non era spregevole; sapeva comporre versi, essere spiritosa,
conversare in modo ora riservato, ora garbato, ora sfrontato;
insomma aveva molto spirito e molta grazia.
(Sallustio,
De Catilinae Coniuratione,
II,
25, trad.
Francesca Santucci)
Nel brano Sallustio afferma che per
lei tutto contava più
della decenza e del “decoro”, che chiama
pudicitia, da pudor, termine che in latino ha
una risonanza molto più vasta e complessa rispetto al
corrispettivo “pudore” italiano. Pudor, infatti, non si
riferisce soltanto al “riserbo”, al “ritegno”, alla vergogna
in ambito sessuale, e non riguarda sole le donne, ma indica
un sentimento verso se stessi e verso gli altri, la
riservatezza, la castità, la moralità, il senso della dignità
e del decoro che
investe ogni aspetto del comportamento umano, maschile e
femminile: ad esempio, anche il soldato che reprimeva la paura
e non abbandonava la battaglia era guidato dal pudor.
Piccolo fu il ruolo di Sempronia nella congiura, sappiamo
che in assenza del marito, a sua insaputa,
mise a disposizione dei congiurati la propria abitazione
vicino al foro
per un incontro al vertice fra i capi della congiura e gli
ambasciatori degli Allobrogi: 1 tutte le altre
fonti, compreso Cicerone, non la menzionano, per cui ci si è
chiesti come mai Sallustio le abbia dedicato tanto spazio
tracciandone un ritratto memorabile.
Probabilmente l’autore volle esemplificare in Sempronia quel
tipo di donna, ricca, colta, disinibita, amante del lusso,
insoddisfatta del ruolo che la società le imponeva, avida di
esperienze "trasgressive", ormai diffuso al suo tempo nei ceti
ricchi e colti, completamente diverso dal modello femminile
tradizionale romano, simile per molti aspetti ad altre due
donne poco “virtuose”: Clodia e Fulvia.
Clodia,
sorella di Clodio, luogotenente di Cesare a Roma, colta e
spregiudicata, probabilmente è da identificare con la
Lesbia che aveva suscitato l'amore di Catullo.
Quando nel 56 a.C accusò Marco Celio di
aver tentato di avvelenarla,
Cicerone, che aveva assunto la difesa del giovane, mosse un
vero e proprio atto di accusa nei confronti suoi e dei suoi
comportamenti eccessivamente liberi, accomunandola a
una prostituta.
Fulvia, con la quale lo stesso Sallustio alcuni anni prima
era stato sorpreso in flagrante adulterio, era la moglie di
Milone. Ricca, ambiziosa, dominatrice, di temperamento acceso
come i suoi rossi capelli, così fu descritta da Plutarco
2 […] non era una donna che filasse la lana o che si
occupasse solo della casa; nemmeno le bastava dominare un uomo
privato: no, lei voleva governare un governante, comandare un
comandante di eserciti.
Sempronia, che fu la prima nobildonna romana a prendere una
posizione politica e ad esporsi in prima persona, per il suo
gesto non subì nessuna conseguenza e non fu nemmeno ripudiata
dal marito, forse proprio perché effettivamente il suo ruolo
fu marginale nella congiura di Catilina, e ciò sarebbe
avvalorato dal fatto che Cicerone nelle sue
Catilinariae non la nomina.
La sua fama, pertanto, si deve soltanto alle parole di
Sallustio, che ne parla per mostrare la corruzione ormai
dilagante nella società romana e soprattutto nella classe
aristocratica.
È interessante notare l’atteggiamento ambivalente, di
disprezzo e malcelata ammirazione, di Sallustio: infatti, da
un lato la biasima accusandola di comportamenti negativi che
contrastano con il mos maiorum3 (“il costume
degli avi”), dall’altro la loda riconoscendone alcune qualità.
Sempronia è una donna indebitata, sfrontata, senza pudore,
suona e canta (e canto e danza4 a Roma di solito
erano praticati da donne di condizione servile, e, comunque,
considerati attività disdicevoli se non praticate in modo
moderato, ma ostentatie in pubblico), inoltre, forse la cosa
più grave, cerca lei gli uomini: nulla di più lontano
dall’ideale della matrona romana, pudica, riservata e dedita
alla famiglia. Ma non manca d’ingegno, cultura, abilità nella
conversazione, doti mondane come lo spirito e la grazia (multae
facetiae multusque lepos),
5
anche intraprendenza e coraggio,
tanto
che Sallustio arriva a definire le sue azioni “di virile
audacia” (virilis
audaciae).
6
Allo scrittore spetta il merito di aver registrato,
mutate le condizioni di vita della società romana, un cambiamento nella
condizione femminile: l’allontanamento
dalle
virtutes
tradizionali,
la semplicità e l’integrità, e
l’affermazione di un tipo di donna libera, emancipata, che,
nel bene o nel male, disponeva di se stessa, anche sul terreno
del potere politico.
NOTE
1) Popolazione che abitava la parte settentrionale della
Gallia Narbonese (più o meno l’attuale Savoia)
2) Plutarco, “Vite parallele, ”III,
1, Marco Antonio, 10.
3)Il Mos maiorum costituiva il fondamento della morale
tradizionale della civiltà romana e comprendeva innanzitutto
il senso civico, la pietas, il valore militare,
l'austerità dei comportamenti e il rispetto delle leggi.
4)Psallere et saltare: i costumi tradizionali
romani non consentivano alle donne serie di coltivare tali
arti. La severa mentalità romana condannava la danza anche per
gli uomini, quando tale arte era praticata con eccessiva
effeminatezza di movimento. Era approvata invece la danza
nobile e dignitosa degli avi confacente allo spirito guerriero
del popolo romano.
5)
Sallustio,
De Catilinae Coniuratione,
II,
25.
6) Op. cit.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Sallustio, “La congiura di Catilina”, Fabbri Editori, Milano
1976.
Sampoli F, “Le grandi donne di Roma antica”, Il Giornale,
Biblioteca Storica, Newton Compton, Roma 2003.
Flocchini N., - Guidotti Bacci P., “Il nuovo libro degli
autori”, Bompiani, Milano 1993.
Weber K. W., “Vita quotidiana nell’antica Roma”, Il Giornale,
Biblioteca Storica, Newton Compton, Roma 2003.