Francesca Santucci

 

DOMANI ALL’ALBA

Antologia AA.VV.,  "Sulle tracce di Avalon,", associazioneavalon 2019

 

Ci si abitua a veder fare il male, a tollerarlo:

poi si comincia con l’approvarlo e si finisce col commetterlo.
(Honoré de Balzac)

 

Domani all’alba nella mia cella verrà il secondino, che accompagnerà il prete destinato ai conforti spirituali. Dopo arriveranno due dame che si occuperanno della mia vestizione: appartengo alla nobiltà, quest’onore mi è dovuto.
Mi faranno indossare una lunga tunica bianca, una sopraveste di velluto cremisi con cappuccio, sotto il cappuccio i miei capelli saranno coperti da una cuffietta bianca, infine mi condurranno nel cortile della prigione e, preceduta dalle due dame, salirò la breve scaletta che condurrà al patibolo dove, ad attendermi, ci sarà già il boia. Salita sul patibolo, le dame mi toglieranno la sopraveste lasciandomi indosso solo la tunica e la cuffietta, infine il tamburo rullerà e mi sarà tagliata la testa, che rotolerà in una botola, da dove sarà recuperata per andare, dopo, a ricomporre il mio corpo per la sepoltura: mi restano solo poche ore per raccontare la sciagurata vicenda che mi ha condotta alla soglia del patibolo.
Figlia del duca di Britannia, discendente da Guglielmo il Conquistatore che, dalla terra francese mosse alla conquista della Britannia divenendone il primo re, per mia madre fui il secondo parto: nel primo, dopo un travaglio lungo e doloroso, aveva dato alla luce due gemelli, Martin e Tristan, ma, dimenticati in fretta i suoi dolori, essendo entrambi i suoi piccoli sani e belli, dopo soli due anni nacqui io. Per onorare le nostre origini illustri fui chiamata Adela, nome il cui significato è “di nobile stirpe": non onorai né le mie origini né il significato del mio nome, e di questo grandemente mi dolgo
Tristan e Martin fisicamente erano uguali come due gocce d’acqua, ma già da bambini avevano caratteri completamente opposti: Tristan era tranquillo, serio, a tratti severo, Martin impetuoso, irruente, incosciente.
Io crescevo alla loro ombra, non partecipavo ai loro giochi, poi, come consuetudine di quei tempi, per la mia educazione fui mandata in convento, ma quando tornavo al castello mi piaceva osservarli, soprattutto Martin, del quale sin da bambina avevo subito il fascino.
Per me si prospettava il matrimonio, Tristan era avviato alla carriera ecclesiastica, Martin insieme a mio padre si occupava della tenuta, ma amava molto cavalcare, cacciare e, soprattutto, le donne.
La sua prima vittima fu proprio la nostra balia, una contadina della zona di qualche anno più giovane di mia madre. Sapevo tutto perché li avevo spiati, fra sentimenti contrastanti, curiosità, ribrezzo e, forse, anche gelosia.
Fleurance, questo il suo nome, dormiva, come d’uso, in una camera attigua a quella di nostra madre. Era sempre l’ultima fra i servitori ad andare a coricarsi, perché restava accanto al caminetto a ricamare fino a tardi. Una sera, congedatosi presto dai nostri genitori, Martin si ritirò nella sua stanza ad attendere che in tutto il castello scendesse il silenzio. A mezzanotte uscì e s’introdusse nella cameretta di Fleurance e, zittitala con una mano sulla bocca e con la minaccia che avrebbe raccontato ai miei di essere stato da lei invitato, dopo una breve resistenza, la sedusse. La balia dimenticò ben presto di averlo allattato da piccolo, considerato il trasporto col quale si abbandonò per molte settimane fra le sue braccia, ma la grande sventura della vita di mio fratello, e mia, era in agguato.
Martin era un abituale frequentatore della locanda del posto, “La locanda di Avalon”, dove s’intratteneva con i suoi amici, non solo a bere. La locanda, infatti, era famosa nella zona non perché si bevesse e si mangiasse bene, o perché avesse anche delle stanze per alloggiare i viaggiatori, ma perché vi si potevano abbordare giovani donne di facili costumi, nemmeno quelle disdegnate da mio fratello.
Una sera, essendosi attardato ben oltre il consueto orario, rincasò molto tardi. Tutte le candele erano spente, padroni e servitori già a dormire, mio padre assente per affari. Nella fretta di correre a placare i suoi ardori, ebbro di whisky, si mosse maldestramente nel buio e sbagliò stanza. Fu con iniziale stupore, che ben presto lasciò spazio al piacere della depravazione, che si rese conto di stringere fra le sue braccia non la balia, bensì nostra madre, arrendevole a quegli abbracci che credeva del consorte rientrato prima del previsto.
Nel buio Martin non distinse il suo volto, ma quando si rese conto a chi apparteneva il corpo che stringeva, il fascino del proibito agi sui suoi sensi come una mistura esplosiva rinforzando il desiderio, e quella notte amò nostra madre, come un uomo la sua donna.
Ore dopo, svaniti gli effetti dell’alcool, riflettendo su quanto accaduto, non si fece orrore, no, anzi, si giustificò. Disse a se stesso che già apparteneva a sua madre, e lei a lui, perché in loro fluiva lo stesso sangue, erano la stessa carne, dunque non c’era peccato. E così, esaltato dai suoi malsani ragionamenti, rivelò a nostra madre, già sconvolta, che l’amante di quella strana notte era lui e, con l’eloquenza di cui era abbondantemente dotato, riuscì a persuaderla a proseguire nei colpevoli incontri.
La passione da anni sopita nel cuore di mia madre, trascurata dal marito, esplose come un fiume in piena, non senza causare danni: infatti, dopo un lungo periodi di ardenti incontri, dei quali solo la mia balia ed io ci eravamo accorte, che mi sconcertavano, ma che a nessuno sentivo di poter rivelare, tormentata dalla vergogna e dai sensi di colpa che l’assalivano quando non c’era Martin a confonderla con i suoi ragionamenti, all’età di trentasei anni mia madre si tolse la vita. Io tornai in convento, Tristan in seminario. Fleurance, non so se per un sicuro dispiacere per la morte della padrona o se per la volontà di punire Martin che non le aveva più elargito le sue attenzioni, riuscì a convincere mio padre ad allontanarlo per qualche tempo da casa, con la scusa che un viaggio lo avrebbe aiutato a superare il dolore per la perdita della madre, e, in assenza di noi figli, ebbe campo libero per scaldare il letto del padrone.
Dopo qualche tempo, però, mio padre mi richiamò a casa per fare le veci di mia madre: ora ero io la padrona di casa.
Orfana di madre, con un padre spesso in viaggio, un fratello preso dai suoi studi in seminario, un altro lontano, inquieta mi aggiravo nel nostro castello, tormentata dai tristi accadimenti e dal pensiero di Martin, che mi faceva ribrezzo per gli orrori commessi, ma che pure desideravo rivedere.
Martin fece ritorno due anni dopo la tragedia, ed anche Tristan rientrò dal seminario, per assistere a un altro funerale, quello di nostro padre mancato per un improvviso attacco di cuore.
Prostrato e avvilito per la sua morte, Martin sembrava sinceramente cambiato, e non una sola volta si recò al luogo di ritrovo e di gozzoviglie che tanto in passato aveva amato frequentare: “La locanda di Avalon”.
Pensai che, forse, in quei due anni di lontananza si era pentito delle sue malefatte, forse stava riconsiderando la sua vita, forse era riuscito a bandire dalla sua natura ogni tristo proponimento, ma ero in errore: il male in lui era radicato e ben presto avrebbe allungato i suoi artigli, causando la sua e la mia sventura.
Dopo qualche mese, infatti, si risollevò dal recente lutto e ricominciò a guardarsi intorno. Solo allora parve rendersi conto che ero cresciuta: bastò poco alla sua mente per ritornare a essere diabolica e perversa. Ora nella sua mente c’era un’idea fissa: sedurmi. Davanti a me si stava aprendo un baratro nel quale sarei sprofondata irrimediabilmente, ma allora non potevo saperlo.
Un pomeriggio, in un angolo isolato del nostro giardino, mi scoprì che piangevo riversa sull’erba. Piangevo per la morte dei miei cari genitori, per la mia condizione di orfana, la mia solitudine; Martin si affrettò a consolare le mie pene. Ebbe per me le parole più soavi, mi declamò i versi delle poesie più belle che conosceva, congedandosi solo quando fu certo che in me cominciavano a destarsi emozioni ignote: infatti nei giorni successivi scoprii sgomenta che non piangevo più per la mia sventurata sorte, il dolore aveva lasciato il posto a un senso di attesa.
Martin mi stava sempre intorno, premuroso, affettuoso, mi assediava come un cacciatore la preda, pronto a stanarmi, aspettando l’occasione propizia per approfittare della mia fragilità: ed infatti una sera arrivò a spingersi nella mia stanza. Spaventata, forse più da me stessa che da lui, lo mandai via bruscamente, ma Martin non mollò la presa, continuò a prodigarmi attenzioni, studiando il modo giusto per consumare il suo delitto. Ora giocavamo al gatto col topo: il topo ero io.
Arrivammo all’estate. Un giorno mi propose di passeggiare nel parco fino alla casina di caccia. Acconsentii, vi arrivammo, entrammo… e fui perduta.
Ora bene io non ricordo, accadde tutto velocemente: la porticina della casina si spalancò di colpo, Tristan e il suo amico prete ci sorpresero: scoppiò il finimondo! Tristan trascinò fuori Martin, il prete ed io li seguimmo. Tristan diede un pugno a Martin, che glielo restituì, continuarono a colpirsi, nel parapiglia s’intromise il prete che aggredì Martin, per difenderlo presi una grossa pietra e colpii ripetutamente il prete, che cadde a terra morto. Quando Martin vide il sangue sulla testa del prete, il mio volto cereo, l’odio sul volto di Tristan, scappò via, Tristan lo inseguì ostinato, finché Martin si voltò, estrasse la pistola e sparò colpendolo a morte. Accorsero i contadini, le guardie, qualcuno bloccò Martin, arrivai io con la pietra ancora fra le mani sporche di sangue: bastò poco per capire l’accaduto. Arrestati, fummo portati in giudizio, Martin restò in silenzio, io confessai tutto. Nessuna attenuante per noi: fummo condannati alla decapitazione.
La vita di Martin si è già spenta, la morte aspetta me fra poche ore. Si estinguerà, così, il ramo francese dell’antica casata dei duchi di Britannia.

 

 

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