Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato.
(Eraclito)
Toshio Matsuo (1926-2016), "Peonie".
Come immaginare un paesaggio senza fiori? Attraverso
un’infinita varietà di specie e una vasta gamma di colori
disegnano il lento passaggio delle stagioni. Tocco di
gentilezza, con le loro belle forme, i loro colori, le loro
fragranze, rianimano la vista di tutti, ed anche i cuori dei
più avviliti. Superbe tra i fiori, per la loro bellezza
sfrontata, l’eleganza del portamento, la gradevolezza del
profumo, spiccano le peonie, le “rose senza spine”, dai
larghi fiori doppi, il fogliame decorativo, i cui rami
fioriscono una sola volta e per breve tempo, fra maggio e
giugno, per poi scomparire d’inverno e rispuntare dal ceppo
in primavera. La loro fioritura è esplosiva, spettacolare,
ma non richiedono molte cure, sopportano tutte le condizioni
meteorologiche più avverse, anche gli inverni più rigidi, e
sono longeve, tanto che, come dicono i cinesi, che ritengono
la peonia “regina dei fiori” (e della Cina è originaria!),
chi pianta una peonia la pianta per sé, per i propri figli e
per i figli dei figli. I loro colori, poi, si modulano in
un’infinita tavolozza, dal rosa, al rosso, al bordeaux, al
porpora, al lilla, anche al bianco (raro a trovarsi!) ma un
tempo la peonia bianca non esisteva, nacque … nacque … ma
ponetevi all’attenzione, vi racconterò una storia che ha
dell’incredibile, ma che sento il bisogno di confidare a
queste pagine, a me stessa, e a voi che, benevoli, vorrete
conoscerla. A chi mi leggerà assicuro che è autentica, e
svelerà come nacque la peonia bianca. Vivevo con i miei
genitori, la mia balia e i servitori nel castello di “Daniel
Old Nick”, un imponente maniero così chiamato dal nome di un
mio antenato che aveva abbandonato il suo rango, il suo
onore e la sua ricchezza per unirsi ai pirati che, con
l’avallo della regina, si erano avventurati sui mari per
depredare e, con i loro bottini, rimpinguare il tesoro della
corona. A causa del disonore arrecato alla famiglia- ché tra
la mia gente sempre furto era considerato depredare, anche
se in nome della regina- era stato maledetto e il suo
cognome cancellato dalla memoria di tutti i suoi parenti,
che di lui solo il nome avevano mantenuto, Daniel, e,
spregiativamente, gli avevano affiancato come nuovo cognome
“Old Nick” (vecchio Nick), il nome con
cui colloquialmente veniva chiamato nella zona il diavolo.
Per alterne vicende, poi, il castello era divenuto di
proprietà di mio padre, che non se l’era sentita di privare
di nuovo del cognome quel suo scellerato avo, e lo aveva
lasciato immutato. Guardava l’argenteo mare il nostro
castello, posto su un’altura difensiva che dominava
dall’alto le scogliere, battuto dal vento nei giorni di
tempesta, accarezzato da un fievole sole nordico nei giorni
di sereno, velato di grigio nei giorni di nebbia, merlettato
di bianco nei giorni della neve. Trascorrevo il mio tempo
ricamando insieme a mia madre, presenza silenziosa,
ascoltando le leggende narrate con colorito accento locale
dalla mia amorevole balia, ed aspettando che mio padre
scegliesse per me lo sposo adatto. Austera e solitaria era
la mia vita, in compagnia sempre e solo dei miei cari, dei
cani e dei servitori, confortata dalle mie fantasie in cui
vagheggiavo l’unione con un principe dal cuore gentile che
sarebbe giunto in groppa al suo destriero e m’avrebbe
portata con sé, nel suo castello, rischiarata dalle fughe
che, di nascosto dai miei genitori, mi spingevano lontano,
fin sulla scogliera, da dove potevo osservare il moto
ritmico del mare, calmo nei giorni sereni, furioso in quelli
di tempesta, il mio sguardo perdendo ad inseguire i voli dei
gabbiani che, in rauchi stridii, liberi volteggiavano. Un
giorno al castello approdò un giovane che, lentamente, si
trascinava dietro un cavallo; era stato assalito dai banditi
nel bosco, miracolosamente era riuscito a salvarsi
dall’agguato, ma il suo animale era rimasto ferito ad una
zampa, e lui veniva a chiederci aiuto per se stesso e per il
suo compagno. Mio padre non gli negò l’accoglienza, ma
quando seppe che era il figlio del proprietario delle terre
confinanti con le nostre, nemico acerrimo della mia famiglia
per lontani contrasti mai appianati, fu cortese ma
determinato, gli riconfermò l’ospitalità per quella notte,
gli assicurò che il cavallo sarebbe stato curato, ma gli
intimò di lasciare il castello appena risanato l’animale.
Non trascorremmo che poche ore di pochi giorni insieme, e
solo raramente e brevemente da soli, ma il guizzo d’amore
che subito aveva avvampato i nostri giovani cuori fin dal
primo sguardo fu una fiamma che ci spinse a confidare ai
miei genitori, mano nella mano, la nostra intenzione di
unirci quanto prima in matrimonio. Mio padre abbandonò il
suo consueto distacco e, lasciando prevalere l’acceso
temperamento, s’infuriò come mai avevo visto prima,
maledicendo noi, la nostra unione e la discendenza che ne
sarebbe derivata, concludendo che, da quel momento in poi,
non mi avrebbe più considerato sua figlia.
Mia madre tacque, ma non mi parve approvazione il suo
silenzio. Io, per la prima e unica volta nella mia vita, mi
ribellai al volere di mio padre, ed ebbi per lui parole di
fiero disprezzo. Albeggiava quando lasciai la mia casa e i
miei cari, i fiori selvatici nei boschi già occhieggiavano
alle prime luci offrendo le tenere corolle ai baci del
timido chiarore che subentrava alle fosche atmosfere lunari.
Ci sposammo lungo il tragitto che ci conduceva al castello
del mio sposo, in una cappella ombrosa fra i boschi, uniti
in matrimonio da un frate compiacente. Fui ben accettata dai
genitori del mio sposo, la nuova vita subito mi sorrise,
accanto ad un uomo che si rivelava ogni giorno migliore ai
miei occhi, e che persino mi declamava versi che aveva
appreso nella terra che si affacciava proprio di fronte alle
nostre scogliere. Un componimento, in particolare, amavo
ascoltare dalla sua bella voce, quello che era stato
composto dal trovatore Thibaud le chansonnier, re di
Navarra, per la sua amata, Margherita di Scozia, Je suis
comme la licorne, versi malinconici in cui le dichiarava il
suo amore.
che s’incanta mentre guarda,
se contempla la pulzella;
così contento della sua disgrazia
svenuto cade sul suo grembo;
l’uccidono allora a tradimento.
E io egualmente son stato ucciso
da Amore e Madonna, davvero:
essi hanno il mio cuore, né posso
riaverlo.
Donna, quando vi fui dinanzi,
la prima volta che vi vidi,
trasalì allora il mio cuore, così
forte
che rimase con voi, quand’io partii.
Quando fui portato senza riscatto
prigioniero nella dolce cella
i cui pilastri sono di
Desiderio,
e le catene di Buona Speranza.[…]
Lunghe
passeggiate, il mio sposo ed io, facevamo a cavallo e a
piedi, nei dintorni del castello, e fu in un tiepido giorno
di maggio che, lungo il tragitto che ci riportava a casa, fui attratta da una folta
macchia di arbusti alti e rigogliosi che, contro il cielo
turchino, slanciavano i loro fiori enormi in un’infinità
varietà di rossi e rosa. Colpita dalla bellezza di quei
fiori che non avevo mai visto prima, mi avvicinai, e un
lieve profumo da loro promanante investì le mie narici.
-Sono peonie- disse il mio sposo. -Sono fiori di montagna-
In primavera esplodono nei bei colori che vedi, rosa,
scarlatti, lilla, tranne che in bianco. Non esistono peonie
bianche- Restai perplessa al pensiero che non esistessero
peonie bianche, ma solo qualche istante, perché il mio
pensiero fu subito distratto dalla gioia per i fiori di
peonia che, raccolti in fascio, dolcemente lui aveva
adagiato fra le mie braccia. La primavera e l’estate
trascorsero, le peonie fiorirono in tutto il loro splendore,
poi giunse l’autunno, la nebbia avvolse il paesaggio d’un
leggero velo, infine l’inverno ricamò sui rami gelidi
merletti, ma in gennaio mi accorsi che una nuova vita, come
un tenero fiore, in me germogliava; fummo felici, tutti, fui
felice, eppure qualcosa m’impediva di esserlo completamente.
Pur amata dal mio diletto sposo e dai suoi genitori, sul
cuore come un macigno mi pesava la maledizione di mio padre,
e i felici giorni dell’attesa li vissi gravati da una
profonda angoscia. Anche il travaglio mi fu molto doloroso,
e la bella creatura che partorii, una bimba dagli occhi
verdi come quelli di suo padre, ravvivati da scaglie d’oro
luminoso, il capo ornato da una folto velluto di capelli
rossi, non visse che poche settimane. Tutti l’avevamo amata
tanto da subito, tutti addolorò la sua scomparsa,
sprofondando il mio sposo e me nel dolore più profondo.
Disperati, non volemmo che fosse sepolta nella cappella del
castello, pur se lontana da noi solo poche decine di metri,
la seppellimmo nel giardino dove affacciavano le nostre
camere. Un vento già gelido spirava quella triste sera
d’ottobre. Avvolto nel suo mantello nero, piangendo, pazzo
di dolore, dopo aver scavato come un cane in quel vaso,
miscelando la buona terra dei nostri campi, il mio sposo
adagiò la sventurata creatura, morbidamente avvolta in caldi
panni di velluto blu trapuntato d’oro, in un’urna d’argento,
che collocò in un enorme vaso di pietra grigia. Io
assistetti in silenzio, muta e sorda, come ottenebrata dal
dolore. Terminato il rito funebre, lui mi promise che in
primavera avremmo piantato in quel vaso dei rami di peonia,
il fiore simbolo di amore, pace e armonia. Sarebbe
cresciuto, quel fiore d’amore, sull’amore prematuramente
perduto dell’innocente creatura che io, nel mio folle
dolore, credevo bersaglio della maledizione paterna.
Triste trascorse l’autunno, ancora più mesto l’inverno, ma
in primavera il cuore un poco s’allietò quando piantammo
l’arbusto più bello in quel vaso grigio che custodiva il
nostro tesoro, e cominciò l’attesa dello sboccio. Non
spuntano subito i fiori di peonia, bisogna essere pazienti e
attendere due anni, ma io cominciai ad assaporare da subito
la gioia dell’attesa, come fosse un bimbo che mi crescesse
nel ventre. Ripensavo al lutto, al seppellimento della
nostra bambina, al mio sposo che non mi era mai apparso così
bello come quella notte in cui, i suoi capelli agitati dal
vento della notte, il mantello svolazzante come ali di un
angelo intorno al suo corpo, aveva scavato con furore e
disperazione nel vaso per creare una morbida culla che
avrebbe accolto per l’eternità il nostro piccolo angelo.
Trascorsero due anni, la primavera se ne andò e ritornò, io
da dietro i vetri aspettavo che la pianta sbocciasse, ma una
notte sognai che il fiore di peonia nato dalle ceneri del
cadavere della mia piccola era sbocciato grondante di
sangue, e a offrirmelo era il fantasma di Daniel Old Nick.
Mi svegliai urlando, ma non c’era nessun fantasma, corsi
alla finestra e vidi che ancora nessun fiore di peonia era
sbocciato, allora piangendo pregai la Vergine che la pianta
fiorisse, ma che il fiore di peonia nascesse bello e puro
come l’amore che legava il mio sposo e me, come l’amore che
entrambi portavano alla creaturina che avevamo perduto, e
promisi che, se quel desiderio si fosse avverato, sarei
tornata al castello dei miei genitori e avrei chiesto loro
di perdonarmi per la mia disubbidienza. Poi mi
riaddormentai, e sognai la Vergine vestita d’azzurro e di
bianco che mi accarezzava i capelli, la mia testa china
sulle sue ginocchia. Mi diceva di non aver paura, di
confidare in lei e di pregare. L’indomani corsi in giardino
con un vago presentimento, una dolce speranza nel cuore, e,
oh, prodigio e incanto, magia e miracolo, fra il folto
fogliame verde vidi fare capolino una tenera testolina, non
rossa di sangue come nel mio incubo, ma bianca come un
giglio immacolato; ricordai la mia preghiera notturna, e non
esitai un istante a consacrare quel fiore puro alla Vergine
Maria. A gran voce chiamai il mio sposo e i suoi genitori e
i servitori, e tutti accorsero e stupirono, e insieme
piangemmo di gioia, ma la felicità non sarebbe stata
completa se non avessi mantenuto fede alla promessa fatta
alla Vergine! D’accordo col mio sposo, l’indomani ci alzammo
di buon’ora per dirigerci al castello dei miei genitori. Era
trascorso solo un anno dalla mia partenza, ma tutto era
rimasto uguale, le vecchie mura, i torrioni merlati, la
nebbia, i voli dei gabbiani, il mare grigio, le scogliere
candide come confetti, solo mi sembrarono molto più vecchi i
miei genitori: anche loro avevano tanto sofferto per la mia
lontananza. Mia madre fu controllata nell’abbracciarmi, ma
percepii ugualmente un grande calore nel suo abbraccio, mio
padre ristette gelido, ma poi, dopo che gli ebbi raccontato
della morte della sua nipotina e chiesto perdono per il mio
gesto di disubbidienza, mi strinse a sé. Confidai loro del
sogno di quella notte, del fantasma dell’antenato e della
Vergine Maria. Allora vidi mio padre guardare in un punto
lontano del mare… poi scrollò le spalle e sentenziò: -Ora è
giunto il momento del perdono, e voglio che, in ricordo
della creatura innocente che non ho mai conosciuto, nelle
nostre terre siano piantate solo peonie bianche, e farò
edificare anche una cappella dedicata alla Vergine. - E
mantenne la parola data. L’indomani convocò i giardinieri e
ordinò loro di piantare tutt’intorno al castello solo
peonie, e poi chiamò un architetto e gli fece progettare una
cappella dedicata alla Madonna da costruire subito fuori le
mura, lungo la via che conduceva al castello, e poi uno
scultore perché creasse una statua della Vergine,e poi
muratori e scalpellini ed imbianchini, che in meno di sei
mesi si affaccendarono finché la costruzione non fu pronta e
potemmo tutti noi abitanti del castello, nobili e servitori,
nessuno escluso, sostare a pregare dinanzi al sacro
simulacro della “Madonna della Peonia”. Ben presto cominciò
a diffondersi la notizia che era stata edificata questa
piccola preziosa cappella, e cominciarono ad arrivare anche
dai villaggi vicini pellegrini in adorazione della statua
della Vergine circondata da cespugli di peonie bianche, e,
così, il nostro dolore personale, con grande felicità,
divenne strumento di devozione collettiva. Ma la felicità fu
ancora maggiore quando, ascoltando le mie preghiere
quotidiane alla Madre celeste, il Cielo volle concedermi di
concepire di nuovo: mai attesa fu più dolce, mai travaglio
meno doloroso. Diventai madre, di nuovo di una bambina: per
me fu come se mi fosse stata restituita la prima
tragicamente perduta! Finalmente sul mio volto ritornò il
sorriso, rifiorii, proprio come una peonia che, sotto la
sferza dei rigori invernali, sembra morta ma che ai primi
tepori del sole torna a sbocciare: solo ora nel mio cuore la
gioia era perfetta!
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