Francesca Santucci

COME NACQUE LA PEONIA BIANCA

 (Francesca Santucci,  "Del mare, dell'amore e d'altre storie", Youcanprint 2018", racconti)

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Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato.

(Eraclito)

 


Toshio Matsuo (1926-2016), "Peonie".


Come immaginare un paesaggio senza fiori? Attraverso un’infinita varietà di specie e una vasta gamma di colori disegnano il lento passaggio delle stagioni. Tocco di gentilezza, con le loro belle forme, i loro colori, le loro fragranze, rianimano la vista di tutti, ed anche i cuori dei più avviliti. Superbe tra i fiori, per la loro bellezza sfrontata, l’eleganza del portamento, la gradevolezza del profumo, spiccano le peonie, le “rose senza spine”, dai larghi fiori doppi, il fogliame decorativo, i cui rami fioriscono una sola volta e per breve tempo, fra maggio e giugno, per poi scomparire d’inverno e rispuntare dal ceppo in primavera. La loro fioritura è esplosiva, spettacolare, ma non richiedono molte cure, sopportano tutte le condizioni meteorologiche più avverse, anche gli inverni più rigidi, e sono longeve, tanto che, come dicono i cinesi, che ritengono la peonia “regina dei fiori” (e della Cina è originaria!), chi pianta una peonia la pianta per sé, per i propri figli e per i figli dei figli. I loro colori, poi, si modulano in un’infinita tavolozza, dal rosa, al rosso, al bordeaux, al porpora, al lilla, anche al bianco (raro a trovarsi!) ma un tempo la peonia bianca non esisteva, nacque … nacque … ma ponetevi all’attenzione, vi racconterò una storia che ha dell’incredibile, ma che sento il bisogno di confidare a queste pagine, a me stessa, e a voi che, benevoli, vorrete conoscerla. A chi mi leggerà assicuro che è autentica, e svelerà come nacque la peonia bianca. Vivevo con i miei genitori, la mia balia e i servitori nel castello di “Daniel Old Nick”, un imponente maniero così chiamato dal nome di un mio antenato che aveva abbandonato il suo rango, il suo onore e la sua ricchezza per unirsi ai pirati che, con l’avallo della regina, si erano avventurati sui mari per depredare e, con i loro bottini, rimpinguare il tesoro della corona. A causa del disonore arrecato alla famiglia- ché tra la mia gente sempre furto era considerato depredare, anche se in nome della regina- era stato maledetto e il suo cognome cancellato dalla memoria di tutti i suoi parenti, che di lui solo il nome avevano mantenuto, Daniel, e, spregiativamente, gli avevano affiancato come nuovo cognome “Old Nick” (vecchio Nick), il nome con cui colloquialmente veniva chiamato nella zona il diavolo. Per alterne vicende, poi, il castello era divenuto di proprietà di mio padre, che non se l’era sentita di privare di nuovo del cognome quel suo scellerato avo, e lo aveva lasciato immutato. Guardava l’argenteo mare il nostro castello, posto su un’altura difensiva che dominava dall’alto le scogliere, battuto dal vento nei giorni di tempesta, accarezzato da un fievole sole nordico nei giorni di sereno, velato di grigio nei giorni di nebbia, merlettato di bianco nei giorni della neve. Trascorrevo il mio tempo ricamando insieme a mia madre, presenza silenziosa, ascoltando le leggende narrate con colorito accento locale dalla mia amorevole balia, ed aspettando che mio padre scegliesse per me lo sposo adatto. Austera e solitaria era la mia vita, in compagnia sempre e solo dei miei cari, dei cani e dei servitori, confortata dalle mie fantasie in cui vagheggiavo l’unione con un principe dal cuore gentile che sarebbe giunto in groppa al suo destriero e m’avrebbe portata con sé, nel suo castello, rischiarata dalle fughe che, di nascosto dai miei genitori, mi spingevano lontano, fin sulla scogliera, da dove potevo osservare il moto ritmico del mare, calmo nei giorni sereni, furioso in quelli di tempesta, il mio sguardo perdendo ad inseguire i voli dei gabbiani che, in rauchi stridii, liberi volteggiavano. Un giorno al castello approdò un giovane che, lentamente, si trascinava dietro un cavallo; era stato assalito dai banditi nel bosco, miracolosamente era riuscito a salvarsi dall’agguato, ma il suo animale era rimasto ferito ad una zampa, e lui veniva a chiederci aiuto per se stesso e per il suo compagno. Mio padre non gli negò l’accoglienza, ma quando seppe che era il figlio del proprietario delle terre confinanti con le nostre, nemico acerrimo della mia famiglia per lontani contrasti mai appianati, fu cortese ma determinato, gli riconfermò l’ospitalità per quella notte, gli assicurò che il cavallo sarebbe stato curato, ma gli intimò di lasciare il castello appena risanato l’animale. Non trascorremmo che poche ore di pochi giorni insieme, e solo raramente e brevemente da soli, ma il guizzo d’amore che subito aveva avvampato i nostri giovani cuori fin dal primo sguardo fu una fiamma che ci spinse a confidare ai miei genitori, mano nella mano, la nostra intenzione di unirci quanto prima in matrimonio. Mio padre abbandonò il suo consueto distacco e, lasciando prevalere l’acceso temperamento, s’infuriò come mai avevo visto prima, maledicendo noi, la nostra unione e la discendenza che ne sarebbe derivata, concludendo che, da quel momento in poi, non mi avrebbe più considerato sua figlia.
Mia madre tacque, ma non mi parve approvazione il suo silenzio. Io, per la prima e unica volta nella mia vita, mi ribellai al volere di mio padre, ed ebbi per lui parole di fiero disprezzo. Albeggiava quando lasciai la mia casa e i miei cari, i fiori selvatici nei boschi già occhieggiavano alle prime luci offrendo le tenere corolle ai baci del timido chiarore che subentrava alle fosche atmosfere lunari. Ci sposammo lungo il tragitto che ci conduceva al castello del mio sposo, in una cappella ombrosa fra i boschi, uniti in matrimonio da un frate compiacente. Fui ben accettata dai genitori del mio sposo, la nuova vita subito mi sorrise, accanto ad un uomo che si rivelava ogni giorno migliore ai miei occhi, e che persino mi declamava versi che aveva appreso nella terra che si affacciava proprio di fronte alle nostre scogliere. Un componimento, in particolare, amavo ascoltare dalla sua bella voce, quello che era stato composto dal trovatore Thibaud le chansonnier, re di Navarra, per la sua amata, Margherita di Scozia, Je suis comme la licorne, versi malinconici in cui le dichiarava il suo amore.


Sono come il liocorno,

che s’incanta mentre guarda,

se contempla la pulzella;

così contento della sua disgrazia

svenuto cade sul suo grembo;

l’uccidono allora a tradimento.

E io egualmente son stato ucciso

da Amore e Madonna, davvero:

essi hanno il mio cuore, né posso riaverlo.

 

Donna, quando vi fui dinanzi,

la prima volta che vi vidi,

trasalì allora il mio cuore, così forte

che rimase con voi, quand’io partii.

Quando fui portato senza riscatto

prigioniero nella dolce cella

 i cui pilastri sono di Desiderio,

 le porte di Belvedere

e le catene di Buona Speranza.[…]

 Lunghe passeggiate, il mio sposo ed io, facevamo a cavallo e a piedi, nei dintorni del castello, e fu in un tiepido giorno di maggio che, lungo il tragitto che ci riportava a casa, fui attratta da una folta macchia di arbusti alti e rigogliosi che, contro il cielo turchino, slanciavano i loro fiori enormi in un’infinità varietà di rossi e rosa. Colpita dalla bellezza di quei fiori che non avevo mai visto prima, mi avvicinai, e un lieve profumo da loro promanante investì le mie narici. -Sono peonie- disse il mio sposo. -Sono fiori di montagna- In primavera esplodono nei bei colori che vedi, rosa, scarlatti, lilla, tranne che in bianco. Non esistono peonie bianche- Restai perplessa al pensiero che non esistessero peonie bianche, ma solo qualche istante, perché il mio pensiero fu subito distratto dalla gioia per i fiori di peonia che, raccolti in fascio, dolcemente lui aveva adagiato fra le mie braccia. La primavera e l’estate trascorsero, le peonie fiorirono in tutto il loro splendore, poi giunse l’autunno, la nebbia avvolse il paesaggio d’un leggero velo, infine l’inverno ricamò sui rami gelidi merletti, ma in gennaio mi accorsi che una nuova vita, come un tenero fiore, in me germogliava; fummo felici, tutti, fui felice, eppure qualcosa m’impediva di esserlo completamente. Pur amata dal mio diletto sposo e dai suoi genitori, sul cuore come un macigno mi pesava la maledizione di mio padre, e i felici giorni dell’attesa li vissi gravati da una profonda angoscia. Anche il travaglio mi fu molto doloroso, e la bella creatura che partorii, una bimba dagli occhi verdi come quelli di suo padre, ravvivati da scaglie d’oro luminoso, il capo ornato da una folto velluto di capelli rossi, non visse che poche settimane. Tutti l’avevamo amata tanto da subito, tutti addolorò la sua scomparsa, sprofondando il mio sposo e me nel dolore più profondo. Disperati, non volemmo che fosse sepolta nella cappella del castello, pur se lontana da noi solo poche decine di metri, la seppellimmo nel giardino dove affacciavano le nostre camere. Un vento già gelido spirava quella triste sera d’ottobre. Avvolto nel suo mantello nero, piangendo, pazzo di dolore, dopo aver scavato come un cane in quel vaso, miscelando la buona terra dei nostri campi, il mio sposo adagiò la sventurata creatura, morbidamente avvolta in caldi panni di velluto blu trapuntato d’oro, in un’urna d’argento, che collocò in un enorme vaso di pietra grigia. Io assistetti in silenzio, muta e sorda, come ottenebrata dal dolore. Terminato il rito funebre, lui mi promise che in primavera avremmo piantato in quel vaso dei rami di peonia, il fiore simbolo di amore, pace e armonia. Sarebbe cresciuto, quel fiore d’amore, sull’amore prematuramente perduto dell’innocente creatura che io, nel mio folle dolore, credevo bersaglio della maledizione paterna.
Triste trascorse l’autunno, ancora più mesto l’inverno, ma in primavera il cuore un poco s’allietò quando piantammo l’arbusto più bello in quel vaso grigio che custodiva il nostro tesoro, e cominciò l’attesa dello sboccio. Non spuntano subito i fiori di peonia, bisogna essere pazienti e attendere due anni, ma io cominciai ad assaporare da subito la gioia dell’attesa, come fosse un bimbo che mi crescesse nel ventre. Ripensavo al lutto, al seppellimento della nostra bambina, al mio sposo che non mi era mai apparso così bello come quella notte in cui, i suoi capelli agitati dal vento della notte, il mantello svolazzante come ali di un angelo intorno al suo corpo, aveva scavato con furore e disperazione nel vaso per creare una morbida culla che avrebbe accolto per l’eternità il nostro piccolo angelo. Trascorsero due anni, la primavera se ne andò e ritornò, io da dietro i vetri aspettavo che la pianta sbocciasse, ma una notte sognai che il fiore di peonia nato dalle ceneri del cadavere della mia piccola era sbocciato grondante di sangue, e a offrirmelo era il fantasma di Daniel Old Nick. Mi svegliai urlando, ma non c’era nessun fantasma, corsi alla finestra e vidi che ancora nessun fiore di peonia era sbocciato, allora piangendo pregai la Vergine che la pianta fiorisse, ma che il fiore di peonia nascesse bello e puro come l’amore che legava il mio sposo e me, come l’amore che entrambi portavano alla creaturina che avevamo perduto, e promisi che, se quel desiderio si fosse avverato, sarei tornata al castello dei miei genitori e avrei chiesto loro di perdonarmi per la mia disubbidienza. Poi mi riaddormentai, e sognai la Vergine vestita d’azzurro e di bianco che mi accarezzava i capelli, la mia testa china sulle sue ginocchia. Mi diceva di non aver paura, di confidare in lei e di pregare. L’indomani corsi in giardino con un vago presentimento, una dolce speranza nel cuore, e, oh, prodigio e incanto, magia e miracolo, fra il folto fogliame verde vidi fare capolino una tenera testolina, non rossa di sangue come nel mio incubo, ma bianca come un giglio immacolato; ricordai la mia preghiera notturna, e non esitai un istante a consacrare quel fiore puro alla Vergine Maria. A gran voce chiamai il mio sposo e i suoi genitori e i servitori, e tutti accorsero e stupirono, e insieme piangemmo di gioia, ma la felicità non sarebbe stata completa se non avessi mantenuto fede alla promessa fatta alla Vergine! D’accordo col mio sposo, l’indomani ci alzammo di buon’ora per dirigerci al castello dei miei genitori. Era trascorso solo un anno dalla mia partenza, ma tutto era rimasto uguale, le vecchie mura, i torrioni merlati, la nebbia, i voli dei gabbiani, il mare grigio, le scogliere candide come confetti, solo mi sembrarono molto più vecchi i miei genitori: anche loro avevano tanto sofferto per la mia lontananza. Mia madre fu controllata nell’abbracciarmi, ma percepii ugualmente un grande calore nel suo abbraccio, mio padre ristette gelido, ma poi, dopo che gli ebbi raccontato della morte della sua nipotina e chiesto perdono per il mio gesto di disubbidienza, mi strinse a sé. Confidai loro del sogno di quella notte, del fantasma dell’antenato e della Vergine Maria. Allora vidi mio padre guardare in un punto lontano del mare… poi scrollò le spalle e sentenziò: -Ora è giunto il momento del perdono, e voglio che, in ricordo della creatura innocente che non ho mai conosciuto, nelle nostre terre siano piantate solo peonie bianche, e farò edificare anche una cappella dedicata alla Vergine. - E mantenne la parola data. L’indomani convocò i giardinieri e ordinò loro di piantare tutt’intorno al castello solo peonie, e poi chiamò un architetto e gli fece progettare una cappella dedicata alla Madonna da costruire subito fuori le mura, lungo la via che conduceva al castello, e poi uno scultore perché creasse una statua della Vergine,e poi muratori e scalpellini ed imbianchini, che in meno di sei mesi si affaccendarono finché la costruzione non fu pronta e potemmo tutti noi abitanti del castello, nobili e servitori, nessuno escluso, sostare a pregare dinanzi al sacro simulacro della “Madonna della Peonia”. Ben presto cominciò a diffondersi la notizia che era stata edificata questa piccola preziosa cappella, e cominciarono ad arrivare anche dai villaggi vicini pellegrini in adorazione della statua della Vergine circondata da cespugli di peonie bianche, e, così, il nostro dolore personale, con grande felicità, divenne strumento di devozione collettiva. Ma la felicità fu ancora maggiore quando, ascoltando le mie preghiere quotidiane alla Madre celeste, il Cielo volle concedermi di concepire di nuovo: mai attesa fu più dolce, mai travaglio meno doloroso. Diventai madre, di nuovo di una bambina: per me fu come se mi fosse stata restituita la prima tragicamente perduta! Finalmente sul mio volto ritornò il sorriso, rifiorii, proprio come una peonia che, sotto la sferza dei rigori invernali, sembra morta ma che ai primi tepori del sole torna a sbocciare: solo ora nel mio cuore la gioia era perfetta!


 

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