Dopo mangiato nessuno poteva trattenerci dal correre in segheria a
giocare, eravamo liberi di passare le ore di luce all’aperto, passando in
rivista tutti i giochi conosciuto e tramandati di generazione in
generazione, con i dovuti “ aggiornamenti”. “Nascondino”, o “
nascondere”, chi andava “sotto”, contava fino a 31 (chissà perché proprio
quel numero) e poi doveva cercare e “ stanare”( “ Tana”, tra l’altro, era
il nome usato per lo più al nord per questo gioco) gli altri che
velocemente cercavano luoghi dove nascondersi.
“Un due tre …stella!”
“Regina reginella, quanti passi devo fare per arrivare al tuo castello?”
“Mosca cieca.”
“Tocca ferro o tocca legno.”
La “ Settimana”. Era, questo, un gioco prevalentemente praticato dalle
bambine. Fino a un po’ di tempo fa, ancora si vedevano sui marciapiedi
segni, più o meno sbiaditi, del semplicissimo schema del gioco. Varie
caselle numerate dove piedi e pietre si alternavano nel ripetere un gioco
antichissimo.
“Giocare fuori al palazzo”
‘O rre se ne saglie ‘o rre” (sul primo ragazzo, appoggiato al muro,
piegato sulle ginocchia, saltavano uno alla volta gli uni sugli altri fino
al punto di cadere tutti a terra).
Ore e ore trascorse all’aperto, tra anfratti e nascondigli, su pile di
tronchi o nel deposito della segatura raccolta dal taglio della legna.
L’odore della segatura mi rimanda ancora agli anni dell’infanzia lontana e
ancora evoca immagini, fantasie, emozioni.
Pomeriggi che diventavano sere velocemente e , finite le scuole, giornate
intere a giocare, interrotte solo dai richiami materni per il pranzo e la
cena.
Il mondo magico dei bambini crea mondi paralleli sconosciuti ed invisibili
agli adulti; ed ecco una serie di luoghi con dei nomi ben precisi, ad
indicare luoghi d’incontro, nascondigli , rifugi e altri punti di
riferimento. Alla sera, prima del rientro in casa che segnava la chiusura
della giornata “fuori”, a turno, qualcuno sfidava gli altri, e la paura, e
si cimentava in una corsa attraverso un itinerario stabilito e
collaudato, lungo tutto il perimetro della segheria.
Dunque, la segheria, un posto dove si lavorava il legno,
trasformandolo in tavole o riducendolo in ceppi a
seconda dell’esigenza dei clienti, per noi ragazzi era altro, era la
libertà, era un insieme di luoghi di
un immaginario che ci accompagnò per gli anni delle scuole elementari e
che negli anni successivi lentamente, ma inesorabilmente, si trasformò,
perdendo pezzi sempre più consistenti del suo paesaggio originario cosi
come nei nostri cuori.
La trasformazione coincise non solo con la nostra crescita, ma anche con
gli anni del consumismo e della corsa verso una progressiva
industrializzazione e cementificazione. Era arrivata la televisione, che
andava divenendo sempre più invadente e “ seduttiva”. Il legno non si
segava più a mano, con enormi seghe manovrate da due operai seduti ai lati
opposti del tronco tirando a turno la sega aggrappati ai robusti manici.
La sega elettrica artigianale dei primi tempi, venne ben presto
rimpiazzata da macchinari semoventi su rotaie che riducevano di molto i
tempi di lavoro per tronchi sempre più grandi. E poi arrivarono le seghe a
motore, rumorose ed inquinanti, e fu la fine.