Via
Carlo Francesco Lahalle è una strada di Napoli intitolata
allo sventurato
colonnello che, combattuto fra dovere e coscienza, la subordinazione e
l’insubordinazione, non volendo né obbedire né disobbedire agli ordini del
re borbone, scelse la morte sparandosi un colpo di pistola. C’era
una birreria, di quelle che si vedono nei film in bianco e nero, con le
sedie di canna e i dondoli con comodi cuscini bianchi. Nelle sere d’estate
la gente del quartiere sì ritrovava per godere il fresco in compagnia. In
quegli anni la televisione terminava i programmi dell’unico canale
abbastanza presto e la gente usciva volentieri per strada, soprattutto
nella bella stagione. Sedie, dondoli e tavolini occupavano buona parte del marciapiede, le auto
erano ancora poche sulla strada, e alle ventidue e zero cinque passava
sferragliando l’ultimo trenino della ferrovia Alifana che, poco dopo i
ponti dell’Arenaccia, si arrampicava su per una curva, sino a raggiungere
il deposito sulla Doganella. Il salone interno della birreria era enorme, alto e luminoso. Il barista
era esoftalmico, sempre sudato e trafelato, perennemente indossava una
camicia bianca a mezze maniche d’estate e d‘inverno correva da un tavolo
all’altro e da questi al bancone, dove lo aspettavano clienti assetati di
birra, che lui serviva in grandi boccali traboccanti di schiuma. Il pioppo maestoso all’interno della segheria di via Lahalle, apparteneva
al fiume, al Sebeto, che passava in quei pressi. L’antico e fiero albero
apparteneva al fiume e resisteva in quei luoghi stravolti da un insensato
sviluppo, a ricordare le acque che, profonde, continuavano a nutrirlo.
Il Sebeto, offeso e ricacciato nelle profondità di asfalto e cemento e
oppresso dalle costruzioni, continuava a scorrere, cercando il mare,
nonostante tutto. In primavera, nel periodo della fioritura, per un paio di settimane, il
grande albero liberava dei bianchi piumini che volavano per le strade,
ricoprendo i tetti delle auto e posandosi sui capelli dei passanti, spesso
inconsapevoli spettatori di quel fenomeno. La birreria, la segheria, le strade, i palazzi e le poche botteghe
facevano parte di un quartiere che non si sarebbe potuto definire
periferia ma nemmeno centro, in realtà era un quartiere che confinava con
dei “vuoti”, con dei limina che si continuavano con periferie che,
a loro volta, erano separate da altrettanti “vuoti” dai primi paesi della
provincia. Infatti, la summenzionata “ Doganella” prendeva il nome dal
ricordo di una barriera daziaria, una piccola dogana appunto, posta al
limitare di un quartiere periferico che, in tempi remoti, godeva di una
propria autonomia amministrativa, al confine con il vasto altopiano di
Capodichino, strada obbligata per chi proveniva dai comuni a nord di
Napoli. Presso la vicina, più centrale, Porta Capuana, sorgeva la stazione
terminale di tutte le corriere che collegavano la città con i comuni della
provincia, soprattutto quelli della parte settentrionale. A oriente e a
occidente due grandi strade, a tratti, di campagna, delimitavano
l’abitato, ed erano vissute come barriere immaginarie, oltre le quali
potevano celarsi terre sconosciute, misteriose, territori inesplorati
ricchi di fascino, di pericolo e di trasgressione.
Il Corso Malta si continuava sino al Corso Meridionale, dove terminava.
Entrambe erano strade di confine, ambedue erano una strana combinazione di
campagna e città. Esse segnavano il limite immaginario oltre il quale
finiva la zona di conforto, finivano le strade sicure con negozi e palazzi
noti. A mano a mano che si procedeva verso il Corso Malta, i palazzi
cedevano il passo a caserme e ad altri edifici militari. Ai portoni e ai
negozi si sostituivano lunghi muri oltre i quali rari varchi lasciavano
intravedere i cortili delle caserme.
Il Corso Meridionale era una lunga strada senza niente. Da un lato alberi
e cespugli facevano da confine ai binari morti della ferrovia. Altri alberi e cespugli, invece, dal lato opposto della strada, erano
l’estremo limite a quello che restava delle paludi napoletane. Un odore intenso di foglie in alcune stagioni caratterizzava quella
strada. C’erano anche altri spazi “di confine”, “ Luoghi inabitati, ermi e
selvaggi” verrebbe da dire, parafrasando l’Ariosto, ed esagerando la “
selvaticità” di quelli che erano luoghi abbandonati, poco frequentati e,
spesso, degradati, ma pur sempre spazi che era meglio non frequentare,
soprattutto quando imbruniva e, preferibilmente, non da soli.Oltre questi “ vuoti”, strade alberate che, quando calavano le ombre della
sera, divenivano cupe e malfrequentate, c’era un quartiere, rione Luzzatti,
divenuto famoso in anni recenti grazie alla fortuna letteraria di un
romanzo e della relativa serie “cinematografico-televisiva”, isolato dalla
città, in anni più remoti addirittura diviso da una sorta di lago/pantano,
sul quale un servizio di traghettamento con zattere garantiva, in alcuni
periodi dell’anno , i collegamenti del Rione Luzzati con il resto della
città.
C’era anche lo stadio di calcio “Ascarelli”, dove la squadra del Napoli
muoveva i primi passi della sua lunga storia.