Francesca Santucci

 

ANNA

 

(Antologia AA.VV.., Fiera-mente Donne connubio fra forza e fragilità, Atile Edizioni  2024)

          

 

 

 

In quel quartiere popolare quasi più nessuno, ormai, era rimasto della  generazione che aveva sofferto i patimenti di due guerre e di una dittatura, ma i pochi sopravvissuti ricordavano bene quella energica donna che era passata nel volgere di qualche anno da una vita agiata a un’esistenza tribolata, dal benessere alla semi povertà, dalla felicità coniugale alla tristezza, costretta a tirare avanti alla bell'e meglio senza mai perdersi d’animo, accudendo anche un marito mentalmente seminfermo, e  cercavano di tramandarne il ricordo con i loro racconti perché la sua tempra fosse da esempio alle ragazze della nuova generazione.

Anna, questo il suo nome, era nata in una famiglia benestante, aveva studiato ed anche imparato dalle suore a ricamare, a cucire e a lavorare a maglia e a uncinetto. Quasi quasi avrebbe scelto di rinchiudersi in convento, per rimanere a vita fra quelle mura serene, ma il destino volle che s’imbattesse in Raffaele, un giovane umile che lavorava come operaio: fra i due fu amore a prima vista.

La giovane lo sposò, scegliendo di andare contro la volontà dei genitori, che mai le perdonarono il suo gesto. Con lui si trasferì in un modestissimo appartamento ed ebbe cinque figli.

Tiravano avanti, non nel benessere che Anna aveva conosciuto, ma ugualmente in modo dignitoso, aiutando anche lei l’economia familiare mettendo a frutto una delle arti femminili che aveva appreso da ragazza presso le suore, il ricamo, occupandosi dei corredi delle future spose, lenzuola, federe, asciugamani, copriletti, tovaglie, che impreziosiva con cifre e motivi floreali, a punto erba, punto pieno, punto catenella, punto margherita, punto pittura. Ma nella vita della quieta famiglia s’intersecarono due conflitti mondiali, che sconvolsero l’equilibrio delle esistenze di tutti, ed anche loro ne restarono travolti.

Negli anni in cui il marito fu lontano da casa per combattere, fra le difficoltà collettive, bombardamenti, miseria, lotta per la sopravvivenza, nonostante le inevitabili privazioni, anche se non ricamava più i corredi per le spose, perché troppo costosi per le giovani del tempo, Anna riusciva ad andare avanti ugualmente effettuando piccole riparazioni di cucito, lavoro che, però, non veniva ricompensato in moneta sonante ma con farina, olio, uova e altri generi di prima necessità, utili, tuttavia, per sé e per i figli.

In economia domestica, massaia e madre, con tante bocche in casa da sfamare,  imparò anche a cucinare varietà di pietanze con pochi ingredienti, zuppe fatte con acqua e cipolle messe a cuocere in un tempo infinito, per ridurle a crema e poi versarle insieme al brodo di cottura sul pane, minestre di cavolo, carote, patate, piselli, rape, sedano, zuppe di fagioli o lenticchie o di erbe raccolte nei campi, che nutrivano, ma non saziavano, tuttavia ugualmente efficaci per il sostentamento.

In particolare, oltre al pan cotto (pane bagnato con acqua calda fatta bollire con un filo d’olio e una foglia di alloro), era solita preparare un piatto semplicissimo ma soddisfacente, che realizzava con pochissimi ingredienti: farina, olio, patate e sale. Metteva in una pentola la  farina, un po’ d’olio, mescolava bene fino ad ottenere una crema, aggiungeva l’acqua e le patate tagliate a pezzettini, un pizzico di sale  e, quando i tuberi diventavano ben cotti, allora la zuppa era pronta. Il bello di questa ricetta è che poteva allungarla più volte con l’acqua.

E si era pure inventata delle finte salsicce! Impastava la farina di piselli con acqua e sale, con l’impasto riempiva un budello di quelli usati per preparare le salsicce suine dandogli la stessa forma, lo chiudeva bene con lo spago e lo faceva cuocere in acqua e con un pezzettino di lardo: l’illusione delle vere salsicce era quasi perfetta!

Fra difficoltà e patimenti, finalmente anche la seconda guerra finì e  i soldati tornarono a casa.

Tornò anche suo marito, ma non era più lo stesso, e Anna lo comprese subito, appena aprì la porta di casa. Raffaele era molto dimagrito, pallido, debole, ma con la giusta alimentazione e il riposo, stretto all’affetto dei suoi cari, fisicamente si sarebbe ripreso. Tuttavia non era quello il problema, l’uomo era anche in uno stato confusionale, perché la sua mente non era più la stessa, aveva riportato in guerra una ferita che il tempo non avrebbe mai risanato, era diventato psichicamente fragile, «scemo di guerra», come definito con orrenda offensiva espressione popolare.

I sintomi più comuni di questa fragilità che colpì Raffaele, e molti militari di ogni ordine e grado, erano la depressione, l’incapacità di esprimersi, l’amnesia, il delirio di persecuzione, dovuti alle condizioni proibitive nelle quali avevano vissuto, costretti al gelo nelle trincee, con  cibo scarso o di cattiva qualità, fra i bombardamenti delle artiglierie che duravano giorni e giorni, impauriti, sotto la costante minaccia della morte, accanto ai cadaveri dei  compagni caduti. Ma allora la psicopatologia non era tanta avanzata e gli psichiatri non sapevano come curare i soldati traumatizzati, che spesso non riuscivano a migliorare nemmeno una volta tornati a casa. Molti «scemi di guerra» venivano, così, rinchiusi negli ospedali psichiatrici e trattati con gli elettroshock, che, però, non facevano altro che  peggiorare le loro condizioni.

Anna comprese subito la gravità della situazione in cui versava il marito ma, a chiunque le suggeriva  di farlo ricoverare in manicomio, anche per non caricarsi di un compito tanto gravoso e delicato quale l’assistenza a un malato di mente, energicamente si rifiutava.

E, così, preferì avere Raffaele stretto a sé, in casa, riuscendo a tenere sotto controllo i suoi disturbi, assicurandogli tepore e calore, dolcezza e comprensione, sopportando i giorni più bui e quelli meno bui: i primi quando Raffaele sembrava dare in escandescenze o si abbandonava a lunghi pianti, i secondi quando, tornato in sé, riacquistata momentaneamente la lucidità, chiedeva perdono alla moglie baciandole le mani, rendendosi conto del peso che gravava sulle sue spalle.

Anna era ancora giovane e piacente. Qualche amica più intima le faceva notare che non ci sarebbe stato niente di male se, alla sua vita sacrificata, avesse dato un po’ di conforto concedendosi di trovare altrove il calore che suo marito non poteva darle, e tanti uomini la guardavano con sguardi di lusinga, ma lei non si faceva irretire da nessuno e continuava a sopportare da sola il peso di quella difficile situazione, riuscendo a far studiare i figli con l’insufficiente pensione di guerra del marito e dedicandosi, oltre al cucito, soprattutto al confezionamento di scialli di lana, molto richiesti durante gli anni ugualmente difficili del dopoguerra, in cui ancora scaldarsi era un lusso.

Utilizzava avanzi di lana oppure, pazientemente, sfilava vecchi maglioni dismessi, lavava i fili ottenuti e, una volta asciutti, li avvolgeva in gomitoli. Intrecciando, poi, all’uncinetto, punto alto, punto basso, a catenelle, a ventaglietti, con trafori fantasia, a zig zag, triangoli e archetti, a quadretti inclinati,  accoppiando i colori secondo il suo estro, realizzava  meravigliosi scialletti rotondi a doppio strato, chiusi con dei laccetti sempre fatti a uncinetto, azzurri con righe bianche, beige con righe marroncine, blu con righe grigie, panna con righe lilla, ma anche solo in tinta unita, verdini, rosa, tortora, bordeaux,  che le donne acquistavano per coprire le spalle dal freddo dell’inverno, tenendo libere la parte superiore delle braccia per poterle muovere comodamente. 

China sulle sue padelle, china sul suo uncinetto, china sul marito per assestargli i cuscini sul letto quando riposava o  per dargli da mangiare, occupata e preoccupata per i figli e per la casa, Anna mai nemmeno una volta si arrese alle difficoltà, riuscendo a convertire la difficoltà in opportunità, la fragilità in forza, la paura in coraggio, senza arrendersi, e la sua più grande soddisfazione fu, oltre a quella di essere riuscita a superare indenne tutte le difficoltà della vita, quella di vedere ben sistemati i suoi figli, ognuno con un buon lavoro, una propria casa e una propria famiglia e di essere riuscita a tenere protetto suo marito.

Infine, un freddo mattino di gennaio la morte si portò via Raffaele che, sprofondato nei suoi incubi, non era mai più riuscito a riprendersi del tutto, persa irrimediabilmente la salute mentale sulle Dolomiti in quegli anni terribili. Anna era andata a portargli un bicchiere di latte quando aveva visto i suoi occhi  spalancati sul vuoto.

Giorni dopo, nel cassetto del comodino, trovò un bigliettino che il marito doveva averle scritto in un momento di lucidità. Lei che per tutta la vita era stata forte e non aveva mai versato una lacrima  si abbandonò a un pianto disperato. Con grafia incerta c’era scritto: “Anna mia, sei stata la luce nel buio!”

 

 

 

 

 

 

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