Francesca Santucci

 

AMORE TOSSICO

gli anni terribili

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(dall'antologia AA.VV., Le città invivibili. Bulli ed eroi nella filmografia di Caligari e Mainetti , Efesto Edizioni 2017,  presentata  Il 4 settembre  2017 nello Spazio della Regione Veneto presso l'Hotel Excelsior al Lido di Venezia, per l’XI Edizione della rassegna  promossa dal Centro Studi di Psicologia dell'Arte e Psicoterapie Espressive dedicata alla filmografia internazionale a cura di Paola Dei.)

 

Comunicato stampa

 

 

Stamo tutto il giorno a sbattese e se perdemo tutto il resto.
(Michela, “Amore tossico”, 1983)

 

La tossicomania, cioè l’abuso di sostanze chimiche capaci di modificare le condizioni psichiche, soprattutto di coscienza e di affettività, nel loro rapporto di dolore e di piacere, rappresenta una modalità di comportamento umano molto diffusa e documentata sin dall’inizio della storia (ma probabilmente esisteva anche prima). Variamente è stata indagata, dal punto di vista clinico, psicologico, etologico, sociologico, interessando sia il contesto sociale e culturale in cui il fenomeno si diffonde, sia i meccanismi delle personalità coinvolte, fra le categorie più disparate, dai ceti più alti ai ceti più bassi, depressi, nevrotici, “sani”, desiderosi i tossicomani del cancellamento di un disagio, di una sofferenza, o in ricerca di una momentanea sensazione di benessere, di un effimero piacere: in realtà per entrambe le pulsioni non si può non pensare a un suicidio rimandato.
In Italia la tossicomania ha registrato il massimo della diffusione con il fenomeno dell’eroina di massa negli anni 70’/’80, riverberando anche negli anni ‘90, con un conseguente massiccio bombardamento mediatico delle più disparate iniziative volte a mettere in guardia contro le droghe in generale e, in particolare, contro l’eroina, lasciata liberamente circolare in quegli anni senza nessun tipo di controllo da parte dello Stato, al quale faceva comodo tenere represse le energie giovanili e i loro entusiasmi rivoluzionari, prendendo spunto dalle degenerazioni terroristiche per allontanarli dall’impegno politico.
Non poteva, il cinema, restare estraneo alla visione di giovani esistenze stroncate dall’eroina. Fuor di sensazionalismo ed effettismo, il compianto regista italiano Claudio Caligari
, che aveva già girato alcuni documentari negli anni ’70 (due proprio dedicati all’eroina), nel 1983, avvalendosi per la sceneggiatura della consulenza del sociologo Guido Blumir (considerato tra i massimi esperti italiani del problema degli stupefacenti, autore di numerosi testi a riguardo), scelse di fotografare la realtà dei tossicomani nel suo primo lungometraggio, “Amore tossico”, pellicola realistica girata in presa diretta, ambientata tra Ostia dell’Idroscalo e la periferia romana (il quartiere di Centocelle, a metà del film).
Così il regista spiegò le motivazioni che l’avevano spinto a realizzare “Amore tossico”:
“Negli anni in cui giravo i documentari venni più volte in contatto con gruppi di tossicodipendenti. La droga pesante, l'eroina, dilagava, soprattutto nei grandi centri. Quando incontrai Guido Blumir (sociologo che mi aiutò nella stesura della sceneggiatura del film), che aveva appena scritto un best seller intitolato "Eroina", gli proposi di fare un film partendo da una domanda semplice: perché mai tanta gente si faceva? La risposta la trovavo in un fatto altrettanto semplice: perché è piacevole! Cercammo anche, proprio in questa prospettiva, di mostrare i lati "comici" o grotteschi del consumo della sostanza, pur nella drammaticità delle situazioni.”
Il film di Caligari è un vero e proprio documento sulla realtà della tossicodipendenza del tempo, crudo per la materia trattata e per l’esposizione, immediata, senza filtri, di un realismo impressionante,
soprattutto nelle scene raffiguranti l'assunzione delle sostanze, acqua distillata (per simulare l'eroina bianca), farmaci epatoprotettori (per simulare il brown sugar, l’eroina “da strada”, la più comune, di colore marroncino), per via endovenosa, nel braccio, sulla mano o anche tramite iniezione sul collo (come mostrato dal personaggio di Loredana) tanto che, inizialmente, la visione fu vietata ai minori di diciotto anni e solo dopo una raccolta di firme fu vietata ai minori di sedici.
P
receduto da un’accurata documentazione e da una lunga preparazione, spesso interrotto per problemi durante le riprese, problemi di salute (crisi di astinenza) e/o giudiziari dei protagonisti (venivano arrestati per reati legati alla loro tossicodipendenza), “Amore tossico” racconta le vicende di un gruppo di amici eroinomani che, ad Ostia, trascina la propria esistenza impegnando le giornate alla ricerca, con tutti i modi possibili (furti, scippi, rapine gli uomini, prostituzione le donne, sfruttate dal pappone) per procurarsi la dose quotidiana di eroina.
Spiegò Caligari:
 
“Fu un film molto difficile da fare
avevamo scritturato degli ex tossicodipendenti che condividevano l’operazione politica del film, ma c’era il problema che ogni tanto uno di loro veniva arrestato prima di girare una scena. Allora dovevamo ingaggiare avvocati per tirarli fuori e spesso pure pagare costose cauzioni. Fu una vera avventura, il budget era basso e dovemmo girare tutto in un mese”.
Per il cast, in adesione al neorealismo, che aveva prediletto attori presi dalla strada e lasciati esprimere nel loro dialetto (ricordiamo un film per tutti, “La terra trema”, del 1948, di Luchino Visconti, esperimento estremo di Neorealismo, interpretato interamente da non professionisti che parlano in siciliano stretto) anche Caligari come protagonisti scelse attori non professionisti, eroinomani autentici, “tossici” o ex “tossici”, o, comunque, individui che ben conoscevano gli ambienti della droga, con le braccia, gli avambracci, le pieghe del gomito, il dorso delle mani, il collo, segnati da buchi e lividi, che, però, non recitavano la loro storia personale, ma si facevano interpreti di fatti accaduti nella realtà, sapientemente ricostruiti dalla sceneggiatura e da un’attenta indagine fra veri drogati.
Raccontò Caligari:
 “Erano attori non professionisti, scoperti da me e da Blumir nel mondo della droga, alcuni ne erano usciti, altri meno. Era importante che conoscessero bene l’ambiente per conferire realismo alla sceneggiatura, ma dovevano anche essere capaci di recitare. Non fu facile scegliere. Capitava che dovessimo sostituire qualcuno perché arrestato dalla polizia e allora lo rimpiazzavamo con delle comparse somiglianti”.
Con questi giovani il regista
riuscì a stabilire un rapporto di totale fiducia, tanto da riscrivere più volte la sceneggiatura, modificando, secondo i loro suggerimenti, in modo da renderli ancora più autentici e veri, anche i dialoghi, espressi in un triplice linguaggio: quello della borgata, quello degli eroinomani e quello della malavita.
I personaggi principali, presentati dal regista nella scena iniziale, mentre avanzano verso l’occhio dello spettatore, prima di spostare la cinepresa ad inquadrare il mare e l’Idroscalo di Ostia, teatro della vicenda, sono Cesare, Enzo, Roberto detto Ciopper, Michela, Loredana e Teresa, ma ve ne sono molti altri in variegata umanità: Capellone, Mario (lo spacciatore), Debora (la transessuale), Patrizia (la pittrice), “Er donna” (la transessuale), le due donne-la madre e la nonna di Mario- che preparano le dosi sul tavolo da cucina e nascondono l'eroina nel barattolo dello zucchero (con alle spalle il crocefisso e il quadro della Madonna!). A molti fra loro, in ulteriore tocco realistico, e per consentire una maggior naturalezza e spontaneità, Caligari fece conservare i veri nomi: ad esempio Cesare, per Cesare Ferretti, Enzo, per Enzo Di Benedetto, Roberto, per Roberto Stani, Michela, per Michela Mioni, Loredana, per Loredana Ferrara, Patrizia, per Patrizia Vicinelli.
Insieme ad altri “tossici”, talvolta allegramente tetri, macabramente umoristici, i protagonisti trascorrono
le loro esistenze travagliate, inquiete, disordinate, in drammatica routine, cercando una “svorta’’, cioè una situazione favorevole, illecita, per racimolare un po’ di soldi e poter acquistare la “roba” (la droga), per poter poi andare in una “farma” (una farmacia) dove comprare una “spada” (una siringa da insulina) per “farsi uno schizzo” (iniettarsi l’eroina), “spertusà a venazza” (bucarsi), senza andare in “rota” (crisi di astinenza), oppure nella vaga speranza di disintossicarsi, ma, fra loro, solo Cesare e Michela, compagni di “buco” e di vita (ecco l’amore tossico, quello per l’eroina e l’amore fra loro!), avvertono un reale malessere per la loro situazione ed una percezione del baratro nel quale sono precipitati.
Dice Michela a Cesare:
“Non c’è più niente da scoprì! Io c’ho voglia de cose nove…è un po’ che ce penso. Stiamo tutto il giorno a sbattese, a rovinasse la vita e se perdemo tutto il resto. Viviamo a due metri dal mare e sarà la prima volta che ce venimo.”
La vicenda, dopo l’esposizione delle varie modalità attraverso cui procurarsi la droga, dopo aver accuratamente mostrato l’occorrente per la preparazione della miscela da iniettare in vena (siringa da insulina, cucchiaino, acqua distillata, eroina, gocce di limone
per sciogliere l’eroina, accendino per riscaldare il miscuglio), dopo il caricamento della “spada” col suo contenuto di morte, l’ago che trapassa la vena, la “pera” (l’iniezione) fatta (preferibilmente) da soli, il tossico e la sua tossina (come se consumasse un atto d’amore) ma anche rito collettivo, in compagnia, in auto, a casa di un amico/a, dopo il flash che immobilizza e rilassa il corpo, annulla i pensieri (morte continuamente rimandata, ché dopo questo flash se ne vorrà ripetere un altro, e un altro ancora), dopo il sangue, il vomito, l’euforia, l’esaltazione, la violenza, la depressione e i tentativi di disintossicarsi attraverso l’assunzione di metadone al Sat (Servizio assistenza tossicodipendenti), si avvia verso il doppio tragico epilogo.
Trascorsa
l'ennesima giornata nel solito modo, al termine della quale, però, attraversato da pulsioni di morte, dopo aver (malamente) fatto l’amore con Michela, Cesare è stato sul punto di uccidersi con una pistola e di uccidere Michela, decidono (ma non è la prima volta che tentano) di uscire dal giro, prima, però, fanno un ultimo buco, con la coca: ma la dose sarà fatale!  Michela si sentirà male davanti al monumento di Pasolini, e Cesare, disperato, dopo aver tentato invano di rianimarla, ferendosi e sporcandosi le mani di sangue nel tentativo di aprirle la bocca (messa in scena di un’esperienza realmente vissuta dai protagonisti) la porterà in ospedale in condizioni gravissime; quindi, sentendosi responsabile dello stato della ragazza, tornerà sul posto dove Michela ha avuto la crisi e si sparerà in vena un’altra massiccia dose di droga. Resisterà alla droga, ma, mentre, stravolto, tornerà correndo verso l'ospedale, sarà ucciso da uno dei due poliziotti in borghese che volevano fermarlo insospettiti dalla sua folle corsa.
Il film è accompagnato dalle musiche di Detto Mariano, che sottolineano inquietanti, incalzanti e ossessive il drammatico snodarsi degli eventi, ma ci sono anche due perle della musica leggera italiana: “Acqua azzurra acqua chiara” del mitico Lucio Battisti (quando Cesare, nell’ospedale dove ha portato Michela, rivive in flashback il primo buco, fatto in un Luna Park dieci anni prima) e “Per Elisa”, canzone il cui testo fu scritto da Battiato e dalla cantautrice Elisa che, con questo brano, vinse il 31º Festival di Sanremo (1981).  All’epoca la canzone erroneamente fu ritenuta allusiva all’eroina, in realtà, come dichiarato dalla stessa Elisa, fu scritta proprio pensando ad una donna, non a un simbolo di qualcos'altro.
“Amore tossico” è stato considerato (anche dallo stesso regista) pasoliniano, è lo fu per la scelta di utilizzare dei “borgatari” (gli eroinomani, il pappone, le donne che vendono la droga in casa, i transessuali), per l’adesione al dialetto romanesco (al quale Caligari sovrappose il gergo dei tossici e della malavita), nelle intenzioni di documentare dal vero la vita difficile di quei ragazzi anche attraverso il reale registro linguistico. E Caligari ricordò Pasolini anche nella scena della crisi di Michela (sotto il monumento dedicato allo sfortunato scrittore, il cui corpo senza vita, brutalmente segnato, fu ritrovato il 2 novembre del 1975, tra baracche e rifiuti, all’idroscalo di Ostia, assassinato con violenza inaudita proprio da uno di quei “ragazzi” di vita del cui mondo si era fatto interprete), e nella morte di Cesare
, ucciso dalla polizia come il protagonista del film “Accattone”. Mentre, però, i “borgatari” di Pasolini erano creature agitate da un grande vitalismo, quelli di Caligari sono dei disperati, tra i quali non c’è nemmeno solidarietà: pensiamo, ad esempio, al litigio tra Cesare e Michela, perché lei ha trovato la droga e non ha avvisato lui e gli altri amici, o all’inganno di Teresa a Michela quando le vende la roba “annacquata”, o alle due donne, la madre e la nonna di Mario lo spacciatore, che vendono in casa la droga tagliata. “Ma che voi un ventino o un cinquantino?”- chiede la madre di Mario a Massimo che vuole acquistare la droga con le ventimila lire della rapina che gli ha lasciato Cesare. Magra è la dose che gli prepara, ma, ancor più spietata di lei, sua madre che, per diecimila lire in più, sarebbe pronta a tagliare ulteriormente la dose già tagliata destinata a Massimo.
In tempi in cui tutti parlavano di droga, tutti parevano esperti in tema e si affannavano a proporre metodi per aiutare i tossicomani ad uscire dal pericoloso tunnel, Caligari scelse di raccontare i drogati senza moralismi, senza sensazionalismi, senza demonizzazioni, mostrandoli nel loro quotidiano “sbattimento per procurarsi la roba” usando tutti i mezzi più illeciti (scippi, furti, prostituzione), mostrandoli nel momento del “ buco”.
Di grande impatto i numerosi primi piani regalati ai protagonisti, soprattutto degli occhi, subito dopo i “le pere”, con l’ovvio intento di mostrare gli effetti dell’iniezione in vena della sostanza stupefacente capace di modificare le condizioni psichiche, determinando un iniziale stato di benessere, facendo, poi, sprofondare in uno stranulamento dal quale risvegliarsi a fatica, nel quale voler di nuovo continuamente rientrare per non pensare a se stessi nella realtà, costretti, in circolo vizioso, ad aumentare la dose, ma dal quale anche non risvegliarsi più, evolvendo spesso il dramma in tragedia. Ma le riprese delle inquadrature ravvicinate degli occhi dopo l'iniezione di eroina sono anche citazioni del film L'uomo dal braccio d'oro (The Man with the Golden Arm) del 1955, diretto da Otto Preminger, in cui il morfinomane Frankie Machine (interpretato da uno straordinario Frank Sinatra), disintossicatosi durante una breve detenzione per furto, lotta per riappropriarsi della sua vita.
Il regista non ricercò le cause, non effettuò indagini psicologiche, non suggerì giudizi, ciò che gli importò fu (come dichiarato nella trasmissione di RAI 3 del 1983 "Processo al film"), “mettere in scena la tragedia storica che ha investito tutte le grandi periferie urbane, le borgate romane che stanno per tutte le periferie urbane”, mostrare allo spettatore, perché riflettesse, comprendesse, ciò che la sua cinepresa aveva catturato: la cruda realtà dei fatti.
“Amore tossico”, che senza moralismi, ma con grande sincerità, aveva saputo raccontare il mondo dei tossicodipendenti, quando uscì nelle sale scandalizzò molto, non i giovani (fra i quali, tanti, purtroppo, ben si riconobbero) ma soprattutto i critici, scatenando polemiche e suscitando dibattiti, tuttavia, appassionatamente difeso dal regista Marco Ferreri, fu presentato nel 1983 al Festival di Venezia, dove ricevette il Premio speciale - Sezione De Sica, e, sempre nello stesso anno, il Premio selezione speciale al Festival di Valencia. Inoltre, nella sezione “Nuevos Realizadores” del Festival di San Sebastian, fu premiata come migliore interprete femminile Michela Mioni che, poi, non proseguì la carriera di attrice perché ebbe diversi guai giudiziari, subito dopo l’uscita del film ed anche negli anni successivi.
Ancora oggi “Amore tossico” risulta convincente, perché ritratto fedele degli anni orribili di una generazione allo sbando, persa nel tragico tunnel di disperazione dell’uso delle droghe pesanti, trappola mortale non solo perché reca la morte, ma perché uccide i sogni e le speranze, e chi scrive non nasconde la commozione che prova ogni volta che rivede questo film, in tenera affezione verso i protagonisti, molti dei quali, in tragico destino, purtroppo non ci sono più, come il regista, deceduto il 26 maggio 2015, a soli sessantasette anni, stroncato da un male incurabile, subito dopo aver terminato il montaggio del suo terzo film, “Non essere cattivo”, nel quale pure parlava di droga.
Il primo a mancare è stato Cesare Ferretti (Cesare); riuscito a disintossicarsi, è morto di Aids solo qualche anno dopo l’uscita del film, nel 1986. Di Aids nel 1991 sono morte Loredana Ferrara e Patrizia Vicinelli, nel film la pittrice che compone il quadro con gli schizzi di sangue dei tossici, in realtà un’artista versatile, poetessa, performer, anche pittrice, ex membro del Gruppo ’63 (movimento di avanguardia sperimentatore di nuove forme espressive), attiva anche nel cinema, dove, oltre che con Claudio Caligari, collaborò con i registi Tonino de Bernardi e Alberto Grifi.
Per quanto riguarda Roberto Stani (Roberto, Ciopper), fra i personaggi di “Amore tossico” il più pasoliniano, il più candido (spende duemila lire per un gelato!), il più tenero (oddio che belle pischelle–ragazze- che vanno in giro...), il più fragile (s’innamora della psicologa!) ha proseguito la carriera di attore, collaborando a vari progetti teatrali con il Cetec (Centro Europeo Teatro e Carcere, cooperativa sociale Onlus e compagnia teatrale interessata ad attività formative, pedagogiche e artistiche con i soggetti più disagiati), durate il Roma Edge Festival (la rassegna europea per la diffusione delle Arti nel sociale attraverso incontri e scambi con gli operatori nei carceri, nei centri di sostegno per i disabili, nei centri per rifugiati). Inoltre ha organizzato corsi teatrali nelle carceri ed ha recitato nel progetto audiovisivo La Terra vista dalle nuvole: Sguardi su Pasolini, realizzato nel trentennale della morte dello scrittore, poeta e regista italiano.
Roberto Stani è morto nel 2011, di malaria, in Africa, dove si era recato per sposarsi. La sua scomparsa ha suscitato profonda commozione, sia in coloro che ben lo conoscevano, sia in quanti lo hanno amato nella sua interpretazione di Ciopper.

 

 

 

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